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Il tormento è l’estasi: Yukio Mishima e “Il Padiglione d’oro”

di Luca Ormelli

«Dio mio, Dio mio, quanto tormentosa la bellezza» verga Niccolò Tommaseo nel proprio Diario intimo giunto a noi mutilato di numerosissime pagine poiché il dalmata, il santo puttaniere «fu un severissimo correttore di se stesso e in tarda età ripercorse tutte le pagine in cui s’era rivelato cancellando a penna, censurando con pece, addirittura tagliando intere righe con le forbici» stante quanto scrive Antonio Gurrado su “Il Foglio” di sabato 9 aprile 2011.

E che la bellezza, contrariamente alla vulgata sia difficile a sostenersi ben lo sapeva uno dei maggiori nostri, Ezra dall’Idaho che ebbe infatti a dire, quotando dal vangelo jugendstil di Beardsley: «la bellezza è difficile» [Canto LXXX], quella medesima bellezza che secondo Keats costituiva, di più, s’identificava con la verità stessa. E perciò: la bellezza, che è verità, è come ogni verità difficoltoso tormento, non atto a sostenersi dall’uomo della strada che deve garantire il proprio sguardo al transeunte, all’effimero lasciando a sostenere gli abissi del mondo colui che è capace di occhi puri d’eroe. Fine del preambolo.

E’ della bellezza che qui si parla e per parlarne voglio narrarne le lingue di fuoco che se ne apprendono.

Il Padiglione d’oro è un romanzo di Yukio Mishima che, scritto nel 1956, prende le mosse da un evento di cronaca (ma di quella cronaca che si traveste di epocalità) ovvero l’incendio appiccato nel 1950 da un accolito buddhista al tempio detto del Padiglione d’oro (il Kinkaku-ji) eretto nella città di Kyoto sin dal XV secolo e tra le più mirabili manifestazioni dell’architettura sacra giapponese.

Mishima, forte della sua vibratile sensibilità, colse la portata allegorica dell’accadimento e, sfidando le reticenze delle autorità e l’omertà che repentinamente si agglutinò intorno al piromane (il cui nome reale era Hayashi Yōken e non Mizoguchi e che venne rilasciato cresimato di schizofrenia per morire negletto nel 1956 all’indomani dell’inizio della ricostruzione del monumento), reo di aver dato alle fiamme non solo uno dei simboli della grandezza spirituale nipponica ma di aver mandato in cenere un totem dell’identità nazionale in un Giappone appena scampato all’apocalisse nucleare e reduce dalla disfatta bellica patita per mano dell’invasore a stelle e strisce, il quale negli anni ’50 bel bello bazzicava con piglio da mandriano per le ancora (tuttora? Nemesi o cara) fumanti rovine del Sol levante.

La vicenda, diegeticamente, è presto detta: giovane deforme, affetto da balbuzie e inenarrabile bruttezza, sorta di Idiota, figlio presto orfano di sacerdote buddhista di uno sperduto villaggio viene destinato al perfezionamento dei propri studi presso il tempio del Padiglione d’oro in grazia della pristina amicizia intercorrente tra l’abate del tempio e suo padre, risalente al noviziato di entrambi. Preda di una ossessione estetica per la ineffabile bellezza del tempio Mizoguchi, iniziato alla vita ed ai suoi peccati (memorabile la assorta meditazione, in piuccheperfetta imitazione di apologo Zen, sulla perdita della verginità) dal coetaneo e demoniaco Kashiwagi (la storpietà del quale, il suo essere congenitamente affetto da piede deforme ne caratterizza sia l’analiticità dell’intelligenza sia il passo quasi caprino, di danzatore shivaita, di Dioniso impubere, di Stavrogin adolescente), giunge dapprima a meditare e dappoi ad attuare il proprio proposito di folle palingenesi nel dare alle fiamme il tempio, riconosciuto quale inalienabile diaframma tra la pienezza scorretta della vita e la sterile eccellenza del Bello quando platonicamente avvertito e patito.

«Volevo vivere» [p. 250]. Così, e non diversamente avrebbe potuto,  si conclude la narrazione, con il protagonista avvolto nelle spire sfavillanti della distruzione (già avviata con la morte della sua controparte più proba, incarnata dal condiscepolo Tsurukawa) da lui stesso germinata.

Il romanzo è la traduzione fedele pur se d’invenzione del tormento intimo del giovane discepolo, è la trascrizione sismografica, eseguita con impareggiabile maestria e superbo artigianato letterario dalla mano sicura e risoluta di Mishima che inflessibile scandaglio penetra, scava l’animo ammorbato del protagonista il quale molti tratti caratteriali condivide con il Raskolnikov di Delitto e castigo (come da più parti evidenziato; si confronti a titolo paradigmatico, criminalmente programmatico quanto egli nel proprio iniziale deliquio statuisce: «presi a nutrire dentro di me due opposte e pur simili volontà di potenza. Studiavo storia e i racconti che prediligevo erano quelli di tiranni; mi figuravo io stesso tiranno balbuziente e taciturno, circondato da cortigiani che interrogavano ansiosi il mio volto, e dal mattino alla sera vivevano in un continuo terrore di me. Non avevo bisogno di trovare parole chiare ed esplicite per giustificare la mia crudeltà: il mio silenzio bastava. Così immaginavo, da una parte, soddisfatto, con quanta severità avrei punito uno dopo l’altro gli insegnanti e i compagni che mi tormentavano quotidianamente, ma dall’altra parte mi vedevo anche artista sommo, sereno e perfetto, sovrano del mio mondo interiore: povero in apparenza, ma spiritualmente più ricco di chiunque altro. Per un ragazzo tanto irrimediabilmente riservato e chiuso, non era forse naturale ritenersi creatura eletta? Mi pareva d’essere atteso in qualche parte del mondo, chiamato a compiere una missione che era ancora ignota a me stesso» – p. 9) ma che non esito a definire consanguineo del giovane Törless musiliano, in ispecie nelle godibilissime conversazioni da bildungsroman tra i due compagni di corso di cui voglio riportare un pas-saggio dirimente, dall’accento quasi camusiano:

«[è Kashiwagi, il perturbato mentore a parlare]: “Vorrei tu capissi. E’ la conoscenza che trasforma questo mondo. Null’altro può farlo. Solo la conoscenza può riuscirci, pur lasciandolo com’è. Mi segui? Se lo sai intendere, il mondo ti appare immutabile e al tempo stesso in eterna trasformazione. Potresti chiedermi quale mai ne sia l’utilità, e ti rispondo subito che gli uomini hanno avuto l’arma della conoscenza per poter sopportare la vita. Per gli animali non è necessario: essi non sanno di dover sopportare la vita, non sanno niente. Con la conoscenza, l’intollerabilità stessa della vita diventa un’arma, senza esserne peraltro minimamente alleviata. Questo è tutto.” [Mizoguchi]: “Non credi che ci sia altro modo per sopportare la vita?” [Kashiwagi]: “Nessuno. Se non la pazzia, o la morte!” [Mizoguchi]: “Ciò che trasforma il mondo non è affatto la conoscenza,” ribattei d’impeto, rischiando di svelarmi: “Ciò che trasforma il mondo è l’azione, soltanto l’azione”» [p. 207].

Non vivessimo nella rutilante e, all’apparenza, iper-razionalizzante civiltà dell’immagine, dove l’irruente pervasività dell’eidos ha soppiantato l’idea, non vivessimo quel che ci è toccato di vivere il pretesto narrativo a cui Mishima è ricorso [e che ha innalzato sin quasi alle vette dell’impareggiabile, della Montagna incantata – o magica che dir si voglia –  miscelando sapientemente elementi i più disparati di un ipotetico e asintotico ideale Indice dei libri proibiti cui attingere per la propria educazione spirituale: – «Alla solitudine m’ero facilmente abituato persuadendomi che fosse la condizione per me meno faticosa in quanto mi permetteva quasi di non parlare. La mia ansia di vita era scomparsa. Ogni giorno morto era un bel giorno. La biblioteca dell’università costituiva il mio unico svago, ma non leggevo libri sullo Zen, bensì traduzioni di romanzi e di opere filosofiche che a caso mi capitavano tra le mani. Non oso qui dirne gli autori» (p. 131), lascio al lettore il piacere di avventurarsi nelle congetture di chi siano coloro cui Mishima allude – dal già ricordato romanzo psicologico russo alla filosofia della vita, dall’irrazionalismo nietzschiano allo storicismo –  e qui concordo:  non voglio, con Carlyle, dire che la storia sia opera esclusiva dei grandi uomini ma senza dubbio l’arte non è appannaggio dell’uomo qualunque –  a riflessi persino del primo Wittgenstein per la insistita metaforicità della balbuzie quale inabilità che nobilita poiché non mette in comunicazione diretta, ma solo dietro sofferta ruminazione, il pensiero con il dettato; il tutto speziato di quel sottile e flavo aroma di panteismo che trapela dalla letteratura giapponese, di quell’immersione compita e devota nel Tutto, nella sua ordinata indifferenza; e quelle intricate cogitazioni del giovane protagonista che si rincorrono a volo d’ape planando con perizia botanica sono capolavori di sinestetico flusso di coscienza tratteggiati con una ricchezza di eloquio che stordisce e inebria; apnea e nuova inspirazione] sarebbe stato depredato e saccheggiato per dare forma (non sostanza) all’ennesimo caso da Scena del Crimine, derubricato a profilo psicopatologico di una mente ottenebrata di cui filmare le gesta (senza fiato, senza alcuna canzone che ne facesse epos) per poterci poi dire pigramente saziati. Nossignori, la bellezza, quella bellezza che ci salverà è difficile e come tale sfigura chi ne partecipa.

– Yukio Mishima, Il Padiglione d’oro, Feltrinelli, Milano, 1962.

Post scriptum: nella biografia filmata dell’autore, Mishima – Una vita in quattro capitoli, firmata da Paul Schrader nel 1985 (e purtroppo di ardua reperibilità) il primo capitolo di cui si compone l’opera si richiama esplicitamente al romanzo Il Padiglione d’oro.

6 thoughts on “Il tormento è l’estasi: Yukio Mishima e “Il Padiglione d’oro”

  1. “krasota -zagadka”, dice il principe Myskin: “la bellezza è un enigma”. E salverà il mondo (Mir spaset krasota) solo abbinandosi alla bontà: eppure la vera bellezza è ipso facto anche buona, secondo il Dostoevskij dell’Idiota (in linea con la kalokagathia dei Greci). La figura cui si fa riferimento è quella di Cristo, ovviamente, espressa tuttavia non nel trionfo sulla morte ma nell’immersione nella morte (il dipinto di Holbein nella casa di Rogozin). E l’idiota è lui stesso, nelle intenzioni di Dostoevskij, “una persona compiutamente bella” (prekrasnyj celovek)…La riflessione sulla bellezza arriva nell’Idiota a una tale densità che qualsiasi invito a riflessione, come quella da te fatta, giunge benvenuta, nonostanze la distanza abissale fra Dostoevskij e Mishima. Grazie per il bel pezzo. Valeria

    • Grazie a te di averlo letto Valeria. E del tuo dotto, appropriatissimo commento. Dostoevskij dista certamente abissi da Mishima: tra i due si interpongono l’intera Russia non meno che due guerre mondiali. Ma, ironia a parte, c’è qualcosa in Mishima (la riflessione macerante sulla bellezza quale canone etico) che lo avvicina al Maestro. E senza alcuna Margherita come intermediaria.
      Un caro saluto, Luca

  2. Approfitto della tua risposta sì gradita per allegare, oltre a una piccola ovvia errata corrige (benvenuto e non benvenuta) alcuni versi di Pasternak, incentrati sulle terribilità della bellezza (tema a sua volta antichissimo -già iliadico- quanto arduo), legata alla vocazione poetica: “Che può fare la terribile bellezza / seduta su una panca di serenella / se non realmente rubare bambini?” (da “Così si comincia”). Un caro saluto. V.

    • “Annabelle scoprì la vita degli uomini come ininterrotta successione di menzogne. Nella stessa occasione, scoprì la propria bellezza” (Michel Houellebecq, Le particelle elementari, pag. 78). Si confronti Genesi, 3:6: “E la donna vide che il frutto dell’albero era buono a mangiarsi, ch’era bello a vedere…”. Dunque la bellezza è il frutto della depravazione, dell’innocenza che corrotta e scempiata dal troppo conoscere si ritrova, sola, nella mendacia dell’esistenza. E’ dunque bello quel che è frutto di menzogna, ciò che è privo di innocenza e quindi è falso? La bellezza è umanità e l’umanità è falsità, menzogna. Agli occhi di chi si dice innocente nessuna bellezza è possibile, non si dà che inconosciuta purezza. La bellezza ci salverà! Poiché con essa è, finalmente, tramontata la stagione delle illusioni in un definitivo crepuscolo degli dèi. Un saluto caro, Luca

  3. Ovviamente non sono d’accordo. Non tributo più autorevolezza a Houellebecq che a Platone, che nel Fedro riteneva la Bellezza la sola idea in grado di farsi insieme percepire e amare e non certo un’idea inferiore alle altre, non certo una menzogna, una forma di depravazione. La bellezza merita la venerazione non la profanazione. E i vermi che tuttavia proveranno a corroderla non avranno ragione di lei che in apparenza (vedi Dostoevskij). Ma non credo ai samghiani giovino i nostri battibecchi…Ringrazio Samgha dello spazio accordato, a presto VT

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