Narrativa italiana/racconto

Il gallo è morto – di Emma Pretti

Il gallo è morto  Sospettava di lei, della bambina, la più piccola, che spesso ciondolava in cortile.

Ci veniva – perlomeno sembrava venisse – per raggiungere l’angolo dove erano sparsi i giocattoli, innocui balocchi quasi tutti vecchi e scheggiati, lasciati indietro dalle sorelle che crescendo se ne dimenticavano.

Spuntava nella cornice della porta, dal buio, dal limbo interno di una casa che di per sé aveva poco fascino: bassa e larga, gialla e piatta, con porte e finestre fonde come buchi neri. Guardandola un po’ più a lungo quasi non era più casa, ma solo un muro con tante finestre e porte scure d’ombra.

Anche il cortile non aveva attrattiva, metà cemento metà terra, angoli disordinati e ingombri di roba, di tutta la roba che sembrava necessaria, tutte le cose possibili, elastiche, sostituibili, che potevano essere raccolte in giro, prese per strada, messe al sicuro: ferro e carta, lamiere, legno, reti, giornali.

La bambina non guardava mai in questi mucchi, forse per un divieto preciso che solo lei sapeva e temeva.

Nel cortile niente alberi, poche linee d’ombra gettate dai tetti, un’altalena di corda ai pali, muschio negli angoli e la cancellata di ferro intorno.

Il gallo era convinto che  quel perimetro fosse unicamente suo in ogni stagione dell’anno. Lo aveva misurato in lungo in largo e in diagonale, percorrendone tutti i lati, segnandoli a zampa o insozzando ovunque con escrementi freschi ogni giorno. Lo considerava una sua conquista, anche se in pratica non l’aveva sottratto a nessuno, ma quando attraversava con camminata obliqua, un trionfo d’autostima lo investiva e, curvando all’improvviso, finiva per esibirsi in una sfilata di fronte all’uscio semiaperto dove gettava uno sguardo rapido e curioso, verso quel buio che in fondo lo attirava.

A una qualsiasi ora del pomeriggio dalla porta spuntava la bambina.

Lui non si fidava. Istintivamente rifiutava la sua presenza. Dentro i grandi occhi che non arrivava a vedere, dietro le lunghe ciglia scure, si muovevano di certo pensieri che giocavano contro di lui, ne era convinto: poteva aggirare e sorprendere, ingannarlo – e lo avrebbe fatto se solo gliel’ avesse permesso.

Concederle uno spazio voleva dire inserirla in un mondo che voleva fosse solo suo, troppo fragile e nello stesso tempo troppo giusto da misurare esibendo gli sproni, per rischiare di farlo traballare. Se lei voleva rivaleggiare, ecco, era pronto.

La piccola  con gli sbaffi di cioccolata tutt’ intorno alla bocca si fermava qualche istante nella cornice dell’uscio, la mano sul legno, alle spalle il buio fresco e umido: vuole essere ammirata, pavoneggia il vestitino di percalle, frivolo semplicetto e leggero – quel candore è la sua sola astuzia –  ed è già troppa provocazione, già più di quanto sia necessario.

Nei suoi passi lievi e canori riconosce l’innocenza e la vanitosa spavalderia che aggiunge sfoggio alla presunzione. Si compiace di gesti tremuli e indefiniti; nel suo incarnato sottile e fatalmente sprovveduto cattura un raggio di luce che, spaventato, fugge altrove. Un bagliore che usa per sconcertarlo, ma un combattente come lui sa che ogni distrazione può essere fatale.

Non doveva perderla di vista, mai.

Se il buio non l’aveva ancora inghiottita, se dal buio sbucava ogni volta, se vinceva le porte, superava i muri, squarciava le maglie del solito tran-tran e apriva l’oscurità di quella casa, era perchè conosceva l’inganno, era perchè – come pensava, tra una spiumata e l’altra – a casa del diavolo può cavarsela solo il diavolo.

Gli occhietti rotondi del gallo, frettolosi e irritati, caricavano la sua figura di una diffidenza superstiziosa. Così soffice e paragonabile a niente, forse solo all’erba cresciuta dopo la pioggia, sembrava chiamarlo a sé  soffiando sopra una sua intima possessione. Così aspettava che fosse lontana dalla soglia  e diretta verso l’angolo dei giochi, e dopo pochi passi rigidi, artigliati, avanti e indietro, le correva incontro gonfiando le piume furioso, raschiando in gola una raucedine feroce. Il cuore gli batteva rapido mentre lei non poteva più gridare e si fermava senza decidere quale strada scegliere. Poi il suo pianto precipitato nel terrore lo disorientava; rallentava, prendeva una pausa e la piccola si buttava verso casa.

Era divertente farla morire di paura, anche se mai fino in fondo. La lasciava andar via senza farle del male.

Due giorni dopo tornava a guardarlo negli occhi, tornava a gustare lo spavento, e di nuovo lui

rideva vedendola correre via – appuntamento a domani! – ma l’ora non era mai quella, sempre diversa.

A metà pomeriggio  la mamma la faceva sedere tranquilla  al tavolo della cucina, aspettando che il pavimento si asciugasse dopo aver lavato, e ogni tanto si girava a fissarla e studiava l’espressione del suo faccino serio, appoggiato sopra le mani coi gomiti puntati al tavolo. La bocca non era più dolce, anche se restava qualche briciola di zucchero sul labbro; teneva un broncio rigido, solo i riccioli morbidi invitavano ad accarezzarla infilando le dita tra i  capelli – Cosa vuoi ancora per merenda ? – ma quando alzava lo sguardo per risponderle, gli occhi mostravano pensieri più lontani, occupata com’era a trovare una strategia innocua ma efficace per raggiungere il suo scopo, tutto sommato semplice e mite. In fondo quel che voleva era solo poter arrivare indisturbata alla collinetta di sabbia dove stava il carrettino rosso e lilla, pieno di bambolotti acciaccati e sporchi, legato con un cordino sfilacciato al triciclo fermo ai piedi della montagnola e pronto a partire.

Come riuscire a percorrere il tragitto minacciato da quella forma spaventosa e aggressiva: ecco, questo doveva capire. Preparata una mappa, alla fine le sfuggiva sempre la fermezza necessaria per mantenere la direzione.

Bambinetta un po’ maliziosa, indugiava sulla porta misurando il cortile – quanti metri dal pollaio, quanti dai giochi sparsi sopra il  po’ di sabbia. Contava sulla sorpresa, si buttava alla traversata e nel bel mezzo trovava la carica del gallinaccio.

Trottando ripiegava di lato, sfiorava il muro, ci correva addosso in lacrime, urlando; lui alla fine le dava strada per godersi la ritirata.

Con gli occhi ancora accesi la guardava fuggire e attaccava a ridere, facendosi le più cordiali congratulazioni; più di una volta quella risata sfogava in chicchirichì, un orrendo chicchirichì  pieno di furia, come d’un gallo che sta per rimetterci il capo, e finiva in un singhiozzo asciutto.

Poi giro all’indietro e ritorno alla routine.

Una, due, dieci volte. Era deciso a fiaccare la sua insistenza. E ci riuscì, ottenne un intervallo.

L’ultimo scontro aveva avuto un esito insperato. Dopo averla fissata a lungo tenendo testa al suo sguardo liquido e pieno di lacrime – forse già sconvolto dalla tattica esasperante, da quell’attesa piena di tamburi minacciosi –  si  sparò all’attacco impennandosi come un drago che apre le ali  unghiute e le sue fauci profonde a una lingua di fuoco; spalancò il becco verso la bambina, mostrandole fino in fondo la gola incendiata dal grido rauco, minaccioso e asmatico. I riccioli soffici sobbalzarono per lo spavento e le manine si sciolsero, abbandonando sul cemento una pupattola molle di stoffa. Cercò di rifugiarsi subito in casa.

Il panico le sconvolgeva la vestina e la corsa convulsa a perdifiato le impolverava le scarpe e i calzerotti candidi.

Nella fuga precipitosa, a pochi passi dalla porta, cadde rovinosamente; le sue urla furono così laceranti nel silenzio del primo pomeriggio, da fermare l’animale di colpo, ingessato dallo stupore. Una figura ombrosa ed enorme uscì fuori in soccorso, prendendo la bimba, alzandola da terra per un braccio e spingendola verso casa.

E ora la piccola stava seduta alla finestra, con le ginocchia sbucciate, guardando fuori, singhiozzante ma sollevata, e lo osservava dai vetri per scoprire se nel suo sguardo, andatura o mossa, poteva scorgere alla fine un po’ di compassione e benevolenza per ciò che volontariamente  e per di più malvagiamente, le aveva procurato. Ma vi trovò solo una nuova espressione di sfida ancora più appuntita e adunca.

Avanzando nella sua direzione, con la cresta baldanzosa e le piume leggere e tronfie, il gallo si esibì in un gesto crudele e plateale: raggiunse la bambolina abbandonata nella fuga e la trafisse più volte col becco, in modo sempre più violento, fino a farla sobbalzare da terra e aprire orrendi buchi da cui estrasse un po’ di ovatta.

Quando giudicò fosse abbastanza, il gallo tornò in sé. Con arroganza mosse alcuni passi verso destra, poi verso sinistra, per porgerle l’oltraggio con tutta la sfrontatezza possibile, orgoglioso di aver inferto non solo la sconfitta ma anche l’umiliazione.

La bambina lo fronteggiò a lungo protetta dal vetro della finestra, che rimandava di lei un’immagine dai contorni sfumati, incerti, sdoppiati in alcuni punti. Quasi una presenza ineffabile.

Rimasero a guardarsi finché, a un certo punto, il gallo le voltò la schiena esibendo un rigido passo marziale carico di proterva soddisfazione.

Passarono settimane d’immobile tempo nuvoloso e spento, poi giornate di pioggia e di sole che allagarono il cortile, asciugarono le lenzuola al vento: a volte l’altalena oscillava da sola.

La piccola pensava di non tornarci mai più, ma i pomeriggi monotoni le davano uno sfrigolio alle gambe simile a quello che provava aprendo l’uscio verso il cortile, ma senza elettricità, era solo irrequietezza, priva di quell’ansia inebriante che procura l’attesa di un pericolo cercato e voluto, eccitante come una disubbidienza, un’infrazione.

Sbirciando dalle finestre, seguiva tutti i suoi movimenti nella penombra e lo vedeva un po’ sperso girellare senza meta né scopo, dando di schiena alle quattro galline che beccavano e raspavano senza mai alzare la testa. Da suddite con poco sale e niente spirito gli si concedevano a turno con indifferenza; e lui nemmeno le considerava della sua razza, non si impegnava per niente a controllarle, che per quel che valevano erano fin troppo protette.

Il caldo cominciò a lasciar giù una noia pesante; il gallo saltava sopra i mucchi di roba, cercando rinfresco all’ombra; il centro del cortile deserto, il cemento rovente.

Non ci sperava già  più, quando la vide spuntare con in mano un bastone corto e quadrato.

Guadagnò tempo ignorandola: aveva da fare lui!  Finse di non vederla e la bimba prese ad avanzare con un passo camuffato, cercando di trattenere il fruscio provocato dal bastone che strisciava per terra e drizzare lo scarso equilibrio dei  piedini vacillanti per la paura.

Si piantò subito a metà strada sapendo di doverlo aspettare.

Lui si beccava i pidocchi, e già rideva arieggiando le piume e minacciando la rincorsa.

Arrogante, brutale cominciò a gorgogliare soddisfatto: – Innocente stupidina, ti fanno senso i pidocchi? Cosa vuoi fare con questo stecco? Sono rossi, i rossi coglioni sotto il mio becco? –

Con una mossa decisa ma senza precisione la bimba alzò il legno, menò due colpi all’aria, poi timorosa e assorta sentì sfuggire lo slancio e ammosciarsi il colpo.

La paura predica a se stessa e arma più l’immaginazione che il coraggio.

Il coraggio riesce a mettere insieme il nano e la pietra. Ma il nano quando scende giù dalla montagna a valanga, anche se schiaccia,  conclude ben poco.

Mentre la bambina con l’immaginazione corre velocissima, sicura di poter colpire in modo giusto, le sue gambe strisciano, aspettano, e si lamentano di non veder spuntare le ali.

Il galletto fece solo un accenno e lei corse via singhiozzando senza freno.

Girò in tondo compiaciuto. Si sentiva così valoroso e prezioso quando poteva vederla correre via in preda alla strizzarella.

Sarebbe stata brutta se non fosse più tornata, ma non c’era pericolo: fragile nelle intenzioni, disordinata, repressa nella verde esuberanza, difficile da domare in tutta la sua curiosità, chiedeva una replica, e ancora e ancora……..

Via dalla noia, eccoli inventarsi una nuova corrida. Non c’era più niente di casuale: con la sfida si celebrava un saluto ogni volta.

Nel pieno della stagione, nel bel mezzo del caos del cortile, un duello, una danza di autentica fisima. Neppure uno sbuffo d’aria, solo il salire di un vapore lento come di pesce che frigge, per disgustare anche l’anima – e addosso quest’odore, che stia lì, che rimanga attaccato.

Gli occhi fissi e irosi del pollo, le scarpette aperte della bambina, le sue piccole dita nude, si portavano via ogni fondale. Se esisteva qualcosa era solo per quella sfida.

Lui rallentava, procedeva di nuovo, violento e flemmatico insieme.

Portandolo a sé la bambina lo interrogava e confondeva, un giorno dopo l’altro.

A volte lo fronteggiava mostrando un accenno di sorriso, cercando di addolcirlo, timorosa, ma con un’attenzione insolente nella fronte aperta e nelle sopraciglia distese.

Non sempre si presentava per supplicargli una tregua. In silenzio, con la testa appena piegata di lato

gli proponeva quesiti che suonavano indiscreti e diretti, con quel linguaggio che solo loro conoscevano fatto di increspature piccolissime che comparivano a fior di labbra e si spandevano immediatamente con un semplice gesto della  mano portata a spostare di lato i capelli: – Come fai a vivere in questo modo, con queste amiche polverose che riconosci solo dall’odore o per quante piume gli mancano sulla schiena? E come riesci a vivere senza soldi e sentirti il padrone? –

Di fronte a questo, la bestia si scopriva bestia,  non sapeva che rispondere, gallinava un poco, e la cosa lo umiliava e innervosiva; sferrava nuovi attacchi, la bimba fuggiva, spesso atterrita e muta,  proponendosi alla fine di frenare quelle ondate di domande irriverenti.

Ah, il tempo! ha la cattiva abitudine di lasciar correre le cose.

Di nuovo le stagioni per misurarsi e leggere le proposte delle nuvole e degli orizzonti, nelle gocciole e nelle foglie ormai rinsecchite che volano dai tetti ai cortili, fin sulla strada.

La  primavera scoppia nell’estate, l’estate nell’ autunno e poi ancora l’inverno: fiocchi di neve dal cielo.

Col maltempo nessuno viene a guardare dentro il cortile ingombro, sempre più pieno di roba zuppa e scura.

C’è un freddo umido che stringe alle caviglie come una catena.

Adesso in mezzo alla corsa  il gallo si fermava di colpo, stoppato sulla neve, isolato e sorpreso:

La neve sporca che fredda le zampe, neve all’ombra, neve al sole.

Zampettava da fermo, infastidito, a volte malinconico.

La bimba compariva all’improvviso, quando le andava e se le andava, anche canticchiando con voce sottile, più allegra.

Non si era sbagliato, non si era sbagliato! Tutta in lei la provocazione e il pericolo.

Pensava di finirla. Era ora di finirla, una volta per tutte.

Eccoli in un pomeriggio da schifo, grigio e con poca luce. La grondaia coperta da una fodera di ghiaccio che lacrima piano, la neve si è indurita a strati più spessi o più sottili intorno a delle pozze scure, e il gallo ha le piume giallastre e sporche sul petto; non sa più dove camminare per non sentire il terreno gelato.

Lei sta sulla porta tutta imbaccuccata con sciarpa, cappello e calze pesanti.

Ha ancora voglia di cantare.

Viene avanti piegando di lato verso il mucchio di giocattoli tutti bagnati e coperti dalla neve: ma è una scusa che il gallo mostra di non accettare né gradire. Nessuno con questo freddo può aver voglia di giocare con dei giochi scassati, accucciato nella neve che inzuppa le scarpe e il bordo del cappotto mentre la sciarpa striscia a terra e il fondo diventa fradicio e pesante.

L’animale è deciso a farglielo ingoiare per intero questa falso proposito.

Con aria indifferente il gallo punta dalla parte opposta: sa di essere un maestro nel gioco dei risvolti a sorpresa. Abbozza una finta che però, a guardar bene, può benissimo essere prevista; mossa  banale, ovvia persino, ma lei glielo permette. C’è spazio abbastanza per indugiare e dopo cominciare a correre.

L’inseguimento prende un po’ di tempo prima di mettersi in moto, poi scatta improvviso.

L’inizio è silenzioso: scarpette sul ghiaccio sottile che scricchiola, zampe che si agganciano e fanno un po’ di fatica, piume che frullano.

La bambina si gira:  lo vede troppo vicino, urla, non sa più dove andare a parare, riprende a correre tenendosi stretta al muro verso l’uscio di casa e lo sorpassa senza accorgersene. Deve rifare un altro giro: a metà si sente stanca e il gallo le è addosso. Vede appoggiato al muro un piano di assi di legno che può darle riparo. Con lacrime e grida trattenute s’infila nel triangolo scuro tra  il muro e il pianale, china la testa, ma le spalle urtano da una parte  il muro e dall’altra spingono e rovesciano il legno sopra il gallo che arriva sparato a tutta birra. Lo investe schiacciandogli il corpo, tranne il collo e la testa.

Confusa dal tonfo e da come, senza volerlo, si è ritrovata scoperta, osserva vicino ai suoi piedi la testa che sporge, stira tenacemente il collo e tende all’insù verso di lei; le fissa il viso, i riccioli biondi, strozzando le ultime note, accanito e furioso: orribilmente implorante.

Lei si allontana di qualche passo per rendersi conto di cosa è accaduto. Di nuovo si avvicina, resta a guardarlo un po’ assorta, poi con fronte serena allunga una mano per sollevare il legno – che sarà pesante e deve preparare tutta la sua forza.

Il gallo si strozza di più reclamando aiuto con grida che sprofondano in un fantasia d’ira.

Dal tetto un frastuono di gocce sopra i fogli di lamiera. Eccitazione senza panico.

La piccola allora posò sopra il piede e schiacciò a fondo.

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