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Un inquietante testo mistico e poetico di Simone Weil

di Gianni Criveller

Simone Weil in Cina
Nell’aprile del 2000 ho trascorso un pomeriggio in una caffetteria di Shanghai, presso l’Università di Fudan,
conversando con un professore che si occupa di marxismo. L’università di Fudan fu fondata dal gesuita dissidente Ma Xiangbo nel 1905 ed è una delle più prestigiose della Cina. In questa università vi è uno dei centri di studio cristiani sorti in Cina nel 1990, cui fanno riferimento un gruppo di studiosi chiamati “cristiani culturali”,

Simone Weil

Simone Weil

i quali, a partire da un interesse di tipo ‘culturale’ verso il cristianesimo, si accostano agli studi cristiani non solo accademicamente ma anche sul piano personale, giungendo, in alcuni casi, alla fede in Cristo. Si tratta di una fede vissuta al di fuori delle strutture ecclesiali e questi “cristiani culturali” cinesi hanno tra le loro fonti ispiratrici  la scrittrice francese Simone Weil.
In mio interlocutore nella caffetteria di Shanghai che traduce la Weil in cinese su di lei dice: «trovo la sua vicenda personale davvero affascinante. Una storia come la sua, fatta di ideologie e di fede, di lotte e di fallimenti, di esaltazione e di morte, tocca e parla al cuore di molti intellettuali come me. Lei ha avuto grandi ideali, illusioni e sofferenze, proprio come noi intellettuali in Cina. Ha scoperto il cristianesimo passando per il comunismo e per le religioni orientali. Il suo cristianesimo è senza la chiesa, la sua fede è incarnata nella vita degli operai e nella mistica, mi sembra vicina al nostro travaglio».[1]

Leggo Simone Weil — una donna davvero fuori del comune, definita da Albert Camus come “l’unico grande spirito del nostro tempo” — da quando avevo sentito Carlo Maria Martini parlare di lei nel corso degli incontri con i giovani nel duomo di Milano, nei primi anni Ottanta.
Simone è una giovane francese di origini ebraiche, attivista sociale, operaia in fabbrica per condividere le condizioni dei lavoratori, autrice di filosofia, teologia e spiritualità.
Fu una credente in Gesù che si rifiutò di entrare formalmente nella Chiesa cattolica, o almeno così fu ritenuto fino a qualche tempo fa (ritorneremo su questa questione), non disposta ad accentarne i pronunciamenti dogmatici e di condanna.

La religione degli schiavi
A partire dal 1936 ci sono vari episodi di carattere mistico nella vita di Simone Weil nei quali ella descrive il suo avvicinamento a Gesù.
Una sera, in Portogallo, dove si reca per curarsi dopo essersi maldestramente ferita nel corso della guerra civile spagnola (cui aveva preso parte come volontaria pacifista a fianco dei rivoluzionari comunisti), Simone partecipa ad una processione religiosa in un villaggio di pescatori. Il canto struggente delle povere donne, vedove e mogli di pescatori in alto mare, che qualche volta non tornavano più, la colpisce profondamente. Si riconosce nella pena e nella miseria di quelle donne:

Le mogli dei pescatori cantavano canti senza dubbio molto antichi, di una tristezza straziante. Nulla può darne un’idea. Là, improvvisamente, ebbi la certezza che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, ed io con loro.[2]

Forse Simone si riferisce, parlando di religione degli schiavi, all’assioma marxista della religione come oppio

Lev Trockij

Lev Trockij

degli oppressi. Simone era stata marxista, tanto da ospitare nella sua casa, nel dicembre del 1933, il leader sovietico in esilio Leone Trotskij e sua moglie. L’episodio avvenuto in Portogallo segna l’inizio dell’allontanamento di Simone Weil dal marxismo e l’inizio del suo avvicinamento al cristianesimo.

“A mia insaputa quella poesia divenne preghiera”
Simone non guarisce, né emozionalmente, né fisicamente. Deve rinunciare alla fabbrica in quanto troppo pesante per le sue fragili forze. I genitori la spingono a viaggiare in Italia, affinché ritrovi serenità e salute. Nel corso di una visita ad Assisi, presso la chiesetta della Porziuncola, si sente “costretta”, trascinata da una forza irresistibile, per la prima volta nella sua vita, ad inginocchiarsi.
Nel 1938 trascorre la settimana santa nel monastero benedettino di Solesmes (Francia). Soffre, come al solito, di devastanti mal di testa. Incontra un giovane che le fa conoscere un poeta inglese del seicento, George Herbert. Simone viene colpita da una sua poesia, intitolata Amore. La impara a memoria, e la recita quando le emicranie le paiono insopportabili:

Credevo di recitarla soltanto come una bella poesia, mentre, a mia insaputa, quella recitazione aveva la virtù di una preghiera. Fu proprio mentre la stavo recitando che Cristo è disceso e mi ha presa.[3]

Ecco la poesia di Herbert. Alcune immagini e temi verranno ripresi da Simone nella narrazione che riportiamo alla fine del saggio:

L’Amore mi accolse; ma l’anima mia indietreggiò,
colpevole di polvere e peccato.
Ma chiaroveggente l’Amore, vedendomi esitare
fin dal mio primo passo,
mi si accostò, con dolcezza domandandomi
se qualcosa mi mancava..
«Un invitato» risposi «degno di essere qui».
L’Amore disse: «Tu sarai quello».
Io, il malvagio, l’ingrato? Ah! mio diletto,
non posso guardarti.
L’Amore mi prese per mano, sorridendo rispose:
«Chi fece quest’occhi, se non io?»
«È vero, Signore, ma li ho insozzati;
che vada la mia vergogna dove merita».
«E non sai tu» disse l’Amore «chi ne prese il biasimo su di sé?»
«Mio diletto, allora servirò».
«Bisogna tu sieda», disse l’Amore «che tu gusti il mio cibo».
Così mi sedetti e mangiai.[4]

Una notte, nel buio della cappella, Simone capisce di poter identificare il dolore per il quale stava soffrendo con la passione di Cristo. Un’esperienza mistica, descritta così nella lettera al poeta Joë Bousquet del 12 maggio 1942:

Durante quel periodo la parola Dio non aveva nessun posto nei miei pensieri. L’ha avuto soltanto dal giorno in cui, circa tre anni e mezzo fa, non ho più potuto rifiutarglielo. In un momento d’intenso dolore fisico in cui mi sforzavo di amare, ma senza vantare il diritto di dare un nome a questo amore, ho sentito (senza esservi preparata per niente, dato che non avevo mai letto i mistici) una presenza più personale, più certa, più reale di quella di un essere umano, analoga all’amore che traspariva dal più tenero sorriso di un essere amato. Da quel momento il nome di Dio e di Cristo si sono intessuti sempre più irresistibilmente ai miei pensieri.[5]

Dopo la settimana a Solesmes, Simone inizia la pratica di recitare ogni mattina il Padre nostro, e continua a sperimentare la presenza di Gesù.

Il potere di questa pratica è straordinario e ogni volta mi sorprende, poiché, sebbene lo sperimenti tutti i giorni, esso supera ogni volta la mia attesa. Talora già le prime parole rapiscono il pensiero dal mio corpo e lo trasportano in un luogo fuori dello spazio, dove non esiste né prospettiva né punto di vista. (…) Talvolta anche, mentre recito il Padre nostro, oppure in altri momenti, Cristo è presente in persona, ma con una presenza infinitamente più reale, più toccante, più chiara, più colma d’amore della prima volta in cui mi ha presa.[6]

La santa degli esclusi
Simone inizia una fittissima corrispondenza con un confidente spirituale, il domenicano Joseph-Marie Perrin, un uomo provato dalla sofferenza, con il quale discute di frequente la possibilità di essere battezzata.[7] Ma Simone ritiene di non poter rinunciare al carattere contestatario, irregolare e anti-istituzionale della sua fede cristiana. Non entra formalmente nella chiesa, vuole stare sempre e comunque dalla parte degli esclusi, anche dagli esclusi dalla chiesa. Trova infatti insopportabili gli “anathema sit”, ovvero l’espressione latina con la quale la suprema autorità ecclesiastica dichiara “scomunicati” i colpevoli di deviazione dottrinale, escludendoli dalla chiesa.

Tradirei la verità, cioè quell’aspetto della verità che io scorgo, se abbandonassi la posizione in cui mi trovo sin dalla nascita, cioè il punto di intersezione tra il cristianesimo e tutto ciò che è fuori di esso. C’è un ostacolo assolutamente insormontabile per me, ed è l’uso di due brevi parole: anathema sit. Mi schiero al fianco di tutte le persone che, a causa di quelle due brevi parole, non possono entrare nella Chiesa, che deve essere invece accoglienza universale.[8]

Nella sua tipica paradossalità, dichiara di essere pronta a morire per la chiesa, ma non ad entrarvi. Se la chiesa escludeva qualcuno, lei desiderava stare con gli esclusi, al punto di seguirli all’inferno.
Testimonia di essere sempre e comunque dalla parte degli esclusi anche quando nel 1942 viene arrestata a Marsiglia per attività contro il governo filo-nazista francese. Per intimorirla, il giudice la minaccia di gettarla in cella con alcune prostitute. Lungi dal sentirsi umiliata, la risposta di Simone sconcerta il giudice: sarebbe un onore per lei essere associata alle prostitute, e non vede l’ora di condividerne la cella.
Lo scrittore francese, premio nobel per la letteratura, André Gile la definisce, per questa sua scelta tanto radicale, “la santa degli esclusi” ed aggiunge anche di ritenerla “l’autrice più spirituale del secolo”. Il poeta Thomas Stearns Eliot la descrive come “una donna geniale, quel tipo di genialità che appartiene ai santi”
Paolo VI, che la considera una delle figure più influenti della propria vita, ritiene Simone Weil meritevole di essere proclamata santa, e si rammarica del suo mancato battesimo.
In drammatica coerenza con i suoi ideali, Simone Weil morì volontariamente il 24 agosto seguente in un sanatorio di Kent. Aveva 34 anni. L’offerta di sé, di Simone Weil, è stata definita un “olocausto privato”. La morte fu conseguenza del suo rifiuto a ricevere cure e cibo appropriati alle sue condizioni, in solidarietà con coloro che soffrivano a causa dell’occupazione nazista.

In articulo mortis
Tuttavia verso la fine degli anni ottanta emerge una credibile testimonianza che prova come, prima di morire, Simone chiede ed ottiene da una sua amica  il battesimo.
Gli storici sono concordi nel ricostruire gli ultimi mesi di vita di Simone Weil come segue.[9] Il 15 aprile 1944 Simone, che si trova a Londra in servizio delle forze francesi in esilio, viene ricoverata nell’ospedale londinese di Middlesex, malata di tubercolosi. È la sua stessa amica, Simone Deitz, ad accompagnarla in quell’ospedale, dopo averla trovata svenuta. Simone Weil chiede di parlare con il cappellano francese, Abbé de Naurois. I due hanno tre colloqui difficili.
De Naurois si rifiuta di battezzarla in quanto Simone si “ostina a rifiutare la nozione che i bambini non battezzati sono esclusi dal paradiso”. In realtà la dottrina della chiesa non ha mai affermato in modo definitivo la posizione sostenuta da De Naurois, e ora la esclude del tutto. Su questo punto dunque, Simone Weil aveva ragione, e il severo sacerdote torto. Lo stesso prete confessa di essere rimasto irritato dai colloqui con Simone, da lui giudicata in modo sprezzante come “troppo ebrea, e arrogante come tutti gli ebrei”.
Qualche giorno dopo, sentendo la morte ormai vicina, Simone dice all’amica, lei stessa un’ebrea convertita, di essere pronta a ricevere il sacramento del battesimo. E Simone Deitz battezza Simone Weil in un giorno della primavera del 1944 (probabilmente in maggio), utilizzando acqua del rubinetto e pronunciando l’esatta formula canonica: nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
La fonte principale di questa testimonianza è la stessa Simone Deitz, che non aveva potuto parlarne prima per esplicito divieto della madre di Simone Weil. Un’importante conferma viene anche dall’Abbé de Naurois che conferma i colloqui avuti con Simone Weil in ospedale, dando dunque riscontro oggettivo al racconto di Deitz.

“Il mio posto non è in quella mansarda”
23c0881653750aae43a021e170c96477_w_h_mw650_mhTutto quanto scritto finora desidera solo essere un’introduzione al testo di Simone Weil che, in assoluto, mi ha colpito. È senza titolo e si trova alla fine del secondo dei Quaderni che Simone non fece in tempo a pubblicare. Qualcuno lo intitola Prologo, perché Simone intendeva collocarlo all’inizio dei suoi Quaderni.
La breve narrazione, dal contenuto ermetico, ha due protagonisti: una è Simone stessa, che parla di sé al maschile, in linea con la percezione poco femminile che aveva di sé. L’altra è una persona senza nome e dal comportamento imprevedibile, misterioso, dolce e duro allo stesso tempo. Simone ha rappresentato, utilizzando il linguaggio oscuro dei mistici, un’esperienza di incontro/scontro con Gesù. Non è un fatto storico, ma un evento mistico, con delle forti connotazioni eucaristiche dal significato esistenziale. In qualche modo riecheggia anche la poesia di George Herbert che abbiamo sopra trascritto.
Fu forse pensando a questo brano che Carlo Maria Martini paragonò Simone Weil alla donna siro-fenicia che nel Vangelo di Marco (7, 24-30) e in quello di Matteo (15 21-28) viene, almeno inizialmente, ignorata e respinta da Gesù. La donna insiste fino a che, dopo un dialogo comunque difficile, Gesù l’ascolta e la esaudisce.
Scritto pochi mesi prima della sua morte, il poema di Simone è una parabola della sua stessa esistenza, del suo rapporto controverso, di odio e di amore, con la chiesa, per la quale sentiva attrattiva e repulsione allo stesso tempo. La mansarda, di cui leggiamo nella narrazione, credo rappresenti proprio la chiesa. Da essa, la mansarda-chiesa, Simone è gettata fuori dall’uomo che l’ama. Ora la scena si fa inquietante. Gesù e Simone vivono un contrasto drammatico, l’attrazione si trasforma improvvisamente in brusca rottura. Simone viene cacciata dalla mansarda proprio dal suo amato. Non sa come ritrovarlo. Anzi si rende conto che non deve nemmeno cercarlo e che non deve rientrare in quella mansarda. Il suo posto è con gli esclusi, magari in una cella di prigione, dove un giudice di Marsiglia voleva gettarla qualche tempo prima. La narrazione sembra terminare male: Simone non si sente amata e neanche degna di essere amata. Ma l’ultima parola, nonostante tutto, è un improvviso grido, è l’affermazione dell’angosciosa speranza, dell’insopprimibile desiderio di essere comunque amata.
Ma l’ultima parola, nonostante tutto, è l’angosciosa speranza di essere comunque amata.

Entrò nella mia camera e disse:
“Miserabile, che non comprendi nulla, che non sai nulla. Vieni con me e t’insegnerò cose che neppure sospetti”.
Lo seguii. Mi portò in una chiesa. Era nuova e brutta.
Mi condusse di fronte all’altare e mi disse:
“Inginocchiati”.
Io gli dissi: “Non sono stato battezzato”.
Disse: “Cadi in ginocchio davanti a questo luogo con amore come davanti al luogo in cui esiste la verità”.
Obbedii.
Mi fece uscire e salire fino a una mansarda da dove si vedeva attraverso la finestra aperta tutta la città, qualche impalcatura in legno, il fiume dove alcune imbarcazioni venivano scaricate.
Nella stanza c’erano solo un tavolo e due sedie.
Mi fece sedere.
Eravamo soli. Parlò.
Talvolta qualcuno entrava, si univa alla conversazione, poi se ne andava.
Non era più inverno. Non era ancora primavera.
I rami degli alberi erano nudi, senza gemme, in un’aria fredda e piena di sole.
La luce sorgeva, splendeva, diminuiva, poi le stelle e la luna entravano dalla finestra.
Poi di nuovo sorgeva l’aurora.
Talvolta taceva, prendeva da un armadio un pane e lo dividevamo.
Quel pane aveva davvero il gusto del pane.
Non ho mai ritrovato quel gusto.
Mi versava e si versava del vino che aveva il gusto del sole e della terra dove era costruita quella città.
Talvolta ci stendevamo sul pavimento della mansarda, e la dolcezza del sonno scendeva su di me.
Poi mi svegliavo e bevevo la luce del sole.
Mi aveva promesso un insegnamento, ma non m’insegnò nulla. Discutevamo di tutto, senza ordine alcuno, come vecchi amici.
Un giorno mi disse: “Ora vattene”.
Caddi in ginocchio, abbracciai le sue gambe, lo supplicai di non scacciarmi.
Ma lui mi gettò per le scale.
Le discesi senza rendermi conto di nulla, il cuore come in pezzi. Camminai per le strade.
Poi mi accorsi che non avevo affatto idea di dove si trovasse quella casa.
Non ho mai tentato di ritrovarla.
Capii che era venuto a cercarmi per errore.
Il mio posto non è in quella mansarda.
Esso è dovunque, nella segreta di una prigione, in uno di quei salotti borghesi pieni di ninnoli e di felpa rossa, in una sala d’attesa della stazione.
Ovunque, ma non in quella mansarda.
Qualche volta non posso impedirmi, con timore e rimorso, di ripetermi un po’ di ciò che egli mi ha detto.
Come sapere se mi ricordo esattamente?
Egli non è qui per dirmelo.
So bene che non mi ama.
Come potrebbe amarmi?
E tuttavia in fondo a me qualcosa, un punto di me, non può impedirsi di pensare tremando di paura che forse, malgrado tutto, mi ama.[10]

_____________________________

[1] Ho descritto i cristiani culturali e il traduttore di Weil in cinese in “E la Cina impara l’ABC del cristianesimo”. In Vita e Pensiero, n. 5, 2003, pp. 54-62.

[2] Simone Weil, Autobiografia Spirituale, traduzione italiana di Cristina Campo, nel sito cristinacampo.it: http://www.cristinacampo.it/public/simone%20weil%20esitazione%20davanti%20al%20battesimo%20lettera%20a%20padre%20perrin.pdf, p. 13 (accesso 24  gennaio 2015).

[3] Vedi supra, p. 13.

[4] Versione in italiano della poetessa Cristina Campo. Vedi supra, p. 14.

[5] Citato in Ludovico Grassi, “Simone Weil: la parrhēsia di una mistica”. In www.testimonianzeonline.com/pagina.asp?IDProdotto=526 (accesso 24  gennaio 2015).

[6] Vedi supra, Cristina Campo, p. 16.

[7] Le lettere a p. Perrin, in cui Simone discute questo problema, sono trascritte in italiano da Cristina Campo, vedi supra.

[8] Vedi supra, Cristina Campo, p. 18.

[9] Su questa questione vedi due studi di Eric O. Springsted, da cui si ricavano anche le citazioni dirette di questo paragrafo: www.sunypress.edu/pdf/52976.pdf (accesso 24  gennaio 2015); www.laici.va/content/dam/laici/documenti/donna/culturasocieta/english/simone-weil-and-baptism.pdf (accesso 24  gennaio 2015).

[10] Il testo in italiano è reperibile in vari siti, incluso il seguente: http://gliocchidiblimunda.wordpress.com/2010/08/30/simone-weil-quaderni/ (accesso 24  gennaio 2015).

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