Filippo La Porta ci dona un bel racconto sulla New York portoricana, scenario di un suo personale e significativo coinvolgimento nei ritmi musicali della città. Si tratta di una vera e propria guida per conoscere la vivace musica salsa e la sua ricca cultura, oltre che i locali dove ascoltarla. Ma c’è anche qualcos’altro che ci viene detto e riguarda la doppia anima newyorkese (antica e moderna). Nel recente volume Diario di un patriota perplesso negli USA (Roma, Edizioni e/o, 2008), La Porta, tra le numerose realtà americane esplorate, scrive pagine molto interessanti anche su New York. In particolare, in un capitolo dedicato alla bellezza moderna e alla bellezza classica, riporta una nostra conversazione durante la quale, seduto con lui a un diner di Brooklyn, osservavo che se una città italiana sembra essere stata concepita per durare oltre l’umano ciclo della vita (quella italiana è, infatti, spesso avvicinabile a una città ideale rinascimentale dove, se la gente sparisse, la bellezza architettonica ne risulterebbe aumentata), New York, invece, pare concepita per essere vissuta solo nell’istante (morsa, appunto: «Take a bite of the Big Apple»), e la sua bellezza quasi svanirebbe se non fossero presenti anche le persone. Tale profonda ‘natura e vocazione antropologica e antropocentrica’ di New York è ben confermata dal seguente racconto dove la città viene descritta come un luogo ‘sempre moderno’ in cui, però, una umanità antica e varia abita ogni giorno in modo nuovo e creativo.
Alessandro Polcri
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OMAGGIO ALL’ANIMA BORICUA
E MERIDIANA DI NEW YORK*
Premessa
Questa è la storia di un innamoramento creolo a 28 anni. A New York il mio cuore è stato spezzato, nel 1981, dal ritmo e dalla poesia e dalla musica di Portorico (un’isola così prossima a Cuba, di cui riproduce la identica bandiera, benché a colori esattamente rovesciati!). È lì che ho ascoltato per la prima volta le orchestre salsa di Eddie Palmieri, Willie Colon, Manny Oquendo, e poi quelle di latin jazz di Mongo Santamaria (cubano) e di Tito Puente, ed è lì che ho seguito al Nuyorican Poets Cafè, nella torbida Alphabet city dell’East Village (dove naturalmente fui rapinato, quasi come in un rito iniziatico), le letture di versi dello straordinario Piedro Pietri, scomparso nel 2004 (uno dei co-fondatori, insieme a Miguel Pinero e Miguel Algarin). Conosco invece pochissimo la narrativa portoricana: mi hanno detto che il romanzo di Luis Rafael Sanchez, La guaracha del macho Camacho (1976) è un po’ l’equivalente di Tre tristi tigri di Cabrera Infante (1967), e dunque impastato nel linguaggio di sonorità e ritmi caraibici, ma una sua traduzione in italiano la vedo assai improbabile… Mentre adoro la variegata epopea cinematografica dei portoricani di NY, da West side story a Carlito’s way.
Istruzioni di viaggio
Siete a New York, o perché ci abitate o perché avete deciso di passarci un periodo. Vi evocano qualcosa questi due nomi spagnoleggianti, misteriosi e vagamente esotici: Fonda Boricua e Julia de Burgos? No? Allora ascoltate attentamente le seguenti istruzioni di viaggio (metropolitano). Primo scenario. Vi trovate a Manhattan, di giovedì, diciamo intorno alle 19, beh, se abitate dalle parti dell’East Village infilatevi nella metropolitana ad Astor Place, prendete la linea verde (la 6) verso Nord, scendete alla 103esima Strada (East Harlem), ve la fate a piedi lungo Lexington Av. fino alla 106, qui girate sulla destra, verso la Second Avenue, e dopo 50 metri finalmente si materializza davanti a voi la Fonda Borica (“Borinquen” è il nome antico di Portorico, e “boricua” sta per portoricano, mentre “fonda” in spagnolo vuol dire osteria). Di cosa si tratta? È un piccolo ristorante di cucina portoricana tipica (rigorosamente vietata ogni prenotazione!) – dunque fagioli neri e riso a oltranza (trovate il menu in Rete) – con questa caratteristica: su un palchetto, a partire dalle 8 e fino a mezzanotte si svolge una jam session fluviale di latin jazz con un gruppo di base cui si aggiungono via via i migliori musicisti nel genere provenienti da altri club della città (il latin jazz, e mi scuso per il didascalismo, affonda le sue radici nel cuban-bop di Dizzie Gillespie e da allora, fine anni ’40, si è sviluppato attraverso innumerevoli intrecci e ibridazioni). Solo recentemente, e dato il grande afflusso di pubblico, il locale si è ahimé sdoppiato: alla Fonda Boricua si mangia soltanto mentre la musica si è spostata sul lato opposto della strada.
Secondo scenario: siete sempre a Manhattan, ma di mercoledì, allora prendete lo stesso treno, uscite alla stessa fermata ma stavolta camminate di meno, perché sulla stessa Lexington dopo 100 metri, sulla vostra sinistra c’è un edificio che assomiglia a una scuola: si chiama Julia de Burgos (che è poi il nome della maggiore poetessa portoricana, morta ad Harlem nel 1953). Entrate con 10 dollari immergendovi in una sala da ballo latina, con i migliori gruppi di salsa e charanga (flauto e violini) in circolazione. Il pubblico è eterogeneo ma perlopiù etnico: ballerini provetti, dalle forme sinuose e dalle movenze dionisiache, assai compiaciuti nella esibizione di sé, però vi accade anche di essere invitati a ballare da donne latine molto grasse e sudatissime e dalle dentature irregolari.
Il dolciastro liscio dei Caraibi…
Obietterete: ma perché la musica salsa? cosa ci trovi? non è quell’orrendo liscio dei Caraibi, musicalmente ripetitivo e stucchevole, più dolciastro della più zuccherata pagina di Garcia Marquez, che in Italia imperversa in molte discoteche alimentando corsi e scuole di ballo e tanta fasullissima, chiassosa joie de vivre? Qui sono costretto a un minimo di autobiografia. All’inizio degli anni ’80 ho conosciuto la musica salsa a New York, dove era nata almeno un decennio prima nella comunità portoricana. Si trattava della riproposizione di ritmi cubani (mambo, cha cha cha, son, guaracha) ma in una versione metropolitana, più aggressiva e più incazzata. Anche musicalmente la salsa privilegiava suoni sporchi, impuri, con la massiccia immissione di tromboni. Aggiungo che ero predisposto a quel genere da una precedente passione per il rock latino di Santana (che infatti usava percussionisti salseros). Va bene i testi erano sentimentali e ingenuamente autoapologetici, la salsa non possedeva la febbrile, modernissima ambiguità del rock, e anzi appariva come un linguaggio anacronistico, in fondo così simile alla musica dei miei genitori, alla colonna sonora della commedia all’italiana degli anni del boom. Ottusamente euforici. Però allora mi conquistò perché 1) non era cantata in inglese, lingua dell’imperialismo e del pensiero unico; 2) rilanciava il ballo di coppia dopo un decennio di tristo e solitario ballo single; 3) comunque ci provava, a riparlare di sentimenti, dopo una lunga autocensura da parte delle subculture giovanili, spavaldamente “algide”; 4) trasmetteva una sensualità impudica e una energia tellurica, che provenivano dalla West Africa. Negli anni ’70 la salsa, che a New York aveva il suo sterminato bacino di utenza (e in seguito nelle comunità latine di Miami, Chicago, Los Angeles, Toronto…) uscì solo per un attimo dai suoi confini “etnici” con un disco prodotto dalla Fania Records (c’erano dentro anche Jorge Santana – fratello di Josè – e il sassofonista africano Manu Dubango).
In seguito è rientrata nel proprio microcosmo culturale, salvo imbastardirsi un po’ con la disco e con certe contaminazioni di Gloria Estéfan. Oggi nel Caribe impazza poi l’insulso reggaeton, ma questa è un’altra storia… Tornando in Italia, in quei primi anni ’80 – già suonavo con dilettantesca passione batteria e percussioni – tentai di mettere su dei gruppi di salsa, però da noi il fenomeno esplose soltanto un decennio dopo, appunto con le discoteche e la proliferazione di scuole di ballo per coppie annoiate. Ma, a quel punto, data la mia vocazione “minoritaria”, non era un genere più davvero frequentabile. Così traghettai la passione musicale verso il latin jazz, certamente più nobile e anche più aperto alla sperimentazione, con la sua capacità di unire la tradizione ritmica dei Caraibi e l’improvvisazione sofisticata, inquieta del be-bop.
Sdoganamenti
Vorrei però sottolineare, per i più schifiltosi utenti di questa rivista che la musica salsa è stata recentemente sdoganata nella stessa controcultura americana. Due anni fa lessi sull’irriverente, snobistico Village voice a proposito di questa musica: «La sua anarchica energia è pura New York!». La rivista alternativa e fricchettona, che si trova gratis ovunque a New York in pub, locali e caffè, pubblicò un articolo, a firma di Phil Freeman, in cui per la prima volta si riabilitava una musica così popolare e «terrona», della quale si elogia la «sorprendente sottigliezza e rude energia». L’articolo delVillage voice esordisce così: «Fino a ieri se pensavo alla salsa la prima cosa che mi veniva in mente è che uno si augura di non avere vicini di casa che la amano!» (per la cronaca l’altro genere musicale per cui l’autore dell’articolo fa il medesimo ragionamento è il “merzbrow”, un filone rock minore che ignoro…). Poi però Freeman dichiara onestamente di aver cambiato idea in occasione della ristampa della mitica collezione Fania degli anni ’60 e ’70 ad opera di una etichetta di Miami (Emusica). Dopo aver ascoltato 30 CD conclude infatti che si trattava veramente di un «incredibile, selvaggio (wild-ass), variato genere fatto da un esercito di musicisti innovatori». Non solo i musicisti maledetti alla Hector Lavoe – morto per suicidio da overdose – , di cui è uscito un film molto mélo (El cantante) con Marc Anthony e Jennifer Lopez, o come il trombonista Willie Colon, che a 17 anni celebrava con spirito beffardo i “cattivi ragazzi” del barrio (la canzone El malo) ma quelli come La Lupe (una «Shirley Bass portoricana») Ismael Rivera, di Portorico, con la voce assai poco “educata” che nasce dalle viscere.
A New York la salsa è in fase discendente rispetto a quegli anni ruggenti, e a parte il tempio consacrato Copacabana (che ha cambiato indirizzo e perso smalto), e poi il S.O.B. (il lunedì) e qualche altro club sparso per i vari quartieri, da Brooklyn a Queens e fino al New Jersey, la migliore salsa si ascolta in quei due posti tra loro contigui, che ho segnalato con queste pagine, e che invano vi sforzerete di cercare su Time out o sullo stesso Village voice: La fonda boricua, 169 E. 106th St tutti i giovedì, comida del Caribe e poi il locale-discoteca Julia de Burgos, Latino Cultural Center 1680 Lexington Avenue (Between 105th and 106th Street, i mercoledì dalle 8 alle 12 pm, direzione artistica del percussionista Jimmy Delgado), per ballare fino a sfinimento e choc alcolico. Sono posti lievemente decentrati ma ne vale la pena: dietro un certo sentimentalismo un po’ mieloso e perfino un pizzico di innocente volgarità (doppi sensi e ammiccamenti) non è altro, come scrive Freeman, che «energia anarchica di New York». All’inizio ho parlato di un innamoramento. Una volta Carlo Levi, pensando soprattutto agli immigrati disse che New York era la vera capitale del Sud del mondo! Di cosa mi innamorai? Di una metropoli febbrile e ipertecnologica, proiettata nel futuro, che però in qualche suo angolo nascosto conservava dei ritmi arcaici e una filosofia di vita meridiana.
*questo testo, già uscito in Nuok, viene qui riproposto in foma leggermente rivista e aggiornata [A. Polcri]
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Filippo La Porta, è nato il 3 settembre 1952 a Roma dove vive. È critico e saggista. Lavora a contratto con varie università e istituti: per un corso di letteratura italiana contemporanea all’Università Luiss di Roma; per un master di scrittura creativa all’Università di Napoli Sant’Orsola; insegna scrittura e analisi del linguaggio all’Istituto del Design Europeo e all’Istituto per comunicatori Montecelio; insegna anche un corso di introduzione ai generi come visiting professor all’università di Cagliari (marzo 2010). Ha tenuto conferenze in varie università americane (Fordham, Georgetown, NYU, Yale) e istituti di cultura (New York, Washington). Da marzo ad agosto 2007 ha vinto una borsa Fulbright di ricerca a New York presso la Fordham University. Collabora regolarmente a Corriere della sera, Repubblica, XL, Messaggero, Riformista. Ha una rubrica su Left. È presidente del comitato editoriale della Gaffi Editore di Roma. Ha pubblicato: La nuova narrativa italiana, Bollati Boringhieri (1995 e nuova edizione 1999); Non c’è problema. Divagazioni morali su modi di dire e frasi fatte, Feltrinelli, 1997; Manuale di scrittura creatina, Minimum Fax, 1999; Narratori di un Sud disperso, L’Ancora, 2000; Pasolini, uno gnostico innamorato della realtà, Le Lettere, 2002; L’autoreverse dell’esperienza. Euforie e abbagli della vita flessibile, Bollati Boringhieri, 2005; Maestri irregolari, Bollati Boringhieri, 2007 (vincitore del premio De Lollis di Chieti); Dizionario della critica militante, Bompiani, 2007 (con Giuseppe Leonelli); Diario di un patriota perplesso negli Usa, Edizioni e/o, 2008; È un problema tuo, Gaffi, 2009; Uno sguardo sulla città, Donzelli, 2010 (23 interviste a scrittori italiani sulla loro città); Basta con la letteratura!, Bollati Boringhieri, 2010; Pasolini. Profili di storia letteraria, Il Mulino, 2012; Un’ idea dell’Italia. L’attualità nazionale nei libri, Aragno, 2012.
““Diari newyorkesi” (rubrica di poesie e prose su New York): �L’anima boricua
e meridiana� di Filippo la Porta |” was in fact a superb posting, can
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Time to waste several time on-line lol. Thanks for your time ,Cruz