di Diego Bertelli
– si dice che io sia uno come me –
Giorgio Cesarano
Marzo è il mese delle infrazioni, perché non si parla di libri recenti; si parla, invece, dei libri che mi spedisce Marco Simonelli. La data di pubblicazione del testo, in questo frangente, non conta più.
Il caso ha voluto che a distanza di un anno, Simonelli mi abbia mandato per posta elettronica le scansioni di due volumi di poesia quasi introvabili, consigliandomene vivamente la lettura. La prima volta si era trattato di Shells di Craig Arnolds; questa volta è toccato a Romanzi naturali di Giorgio Cesarano (Guanda, Milano, 1980).
Di Cesarano, come già era accaduto per Arnolds, mi ha da subito colpito un fatto: lo stretto rapporto tra scrittura e vita. In un intenso ricordo del poeta e amico, apparso sul Corriere della sera il 23 dicembre 2000, Giovanni Raboni ha espresso una considerazione per me essenziale, in occasione della ristampa della sua sua ultima opera in senso stretto, questa non più poetica, ma definitivamente politica: «Il libro-testimonianza di un artista passato nel ’68 alla politica, senza sapersi adattare alla realtà, la rivolta del poeta che rinunciò ai versi, Giorgio Cesarano pubblicò Manuale di sopravvivenza (riproposto ora da Bollati Boringhieri con un utile saggio introduttivo di Gianfranco Marelli) nella primavera del 1974, un anno prima di togliersi la vita. Fra le due cose, s’intende, non c’è alcun nesso preciso; ma non c’è nemmeno, temo, alcuna contraddizione». È innegabile: quella di Cesarano è una scrittura di enorme interesse, che sembra reagire più che mai se messa in relazione alla (sua) vita.
In un lavoro incredibilmente fecondo come La cultura e l’esplosione, Jurii Lotman ha scritto: «The purely literary problem of the ending is, in reality, analogous to the problem of death. The beginning-end and death are inextricably linked [...]. Thus, just as the concept of art is linked to reality, notions of text / text boundary are also inextricably incorporated into the problem of life / death». Proprio perché la scelta di Cesarano è volontaria – parlo in questo caso di quella che lo porta nel 1968 ad abbandonare la poesia – considerare il 1974 un anno decisivo, perché conclusivo, risulta essenziale alla comprensione del libro che ho ricevuto in scansione da Simonelli. Nel momento in cui esce Manuale di sopravvivenza, Cesarano sta definendo inoltre la parte conclusiva della sua produzione poetica, che uscirà postuma, a distanza di cinque anni dalla morte, col titolo di Romanzi naturali. L’intenzione iniziale è quella di pubblicare Romanzi naturali su «Paragone», a mo’ di commiato poetico e, retrospettivamente, esistenziale. Il progetto non si realizza, ma Cesarano è spinto a tal punto dalla necessità di una conclusione che l’8 ottobre 1974 invia ad Anna Banti la sua Introduzione a un commiato, esemplificando in una pagina il percorso che lo ha portato a chiudere i conti con la poesia: «Da vari anni, ormai, versi non ne scrivo e non ne leggo (tranne quelli di Zanzotto, tanto oltre la miseria cantata). Questi che pubblico, ultimi, credo forniscano una spiegazione sui generis. Ad Anna Banti devo l’occasione di chiudere così i miei conti con la letteratura, senza residui e senza rimpianto. Giacomo Debenedetti mi rilasciò patente di poeta, in uno scritto che mi è ancora caro. Ma tale brevetto, cui avevo molto ambito, ho poi disatteso, per concentrare ogni mio sforzo nella critica radicale, dove, sono certo, la parole mette in campo la sua estrema guerra contro una langue fattasi di catene e d’armi. Rimando ai volumi Apocalisse e rivoluzione (scritto con Gianni Collu) e Manuale di sopravvivenza [….]».
Oltre al 1974, l’altra data entro cui riportare la tangenza tra l’inizio e la fine della scrittura e la vita di Cesarano è il 1968, non soltanto per il passaggio dalla poesia alla politica, ma anche perché a quel periodo risalgono i prodromi della definizione “redazionale” dei «romanzi» raccolti in volume nel 1980, che si sviluppano dal 1964 al 1969, con una proposta di pubblicazione rivolta a Mondadori nel 1970, ma subito rifiutata. Romanzi naturali è infatti un insieme collettivo così ripartito: I centauri, Il sicario, l’entomologo (questi due usciti prima su «Nuovi Argomenti») e Ghigo vuole fare un film (rimasto inedito).
Cesarano spiega nella sua Introduzione a un commiato che il plurale del titolo, “romanzi”, cancella una precedente indicazione, “«fittiziamente» unitaria” di romanzo (sul quale, proprio tra la fine degli anni Cinquanta e per tutti i due decenni successivi, molto si discute, cercandone più che mai una forma attraverso proposte fra loro molto diverse, da Elio Pagliarani a Maurizio Cucchi, ad Attilio Bertolucci, anche se in quest’ultimo caso con un lieve slittamento temporale), per cui la serie tripartita raccolta va seguita distintamente nel suo sviluppo. Inoltre, l’autore riconosce e sancisce una continuità tra questi tre «romanzi» e il suo lavoro precedente, La tartaruga di Jastov (1966), le cui due ultime sezioni, intitolate Pastorale, sono riproposte integralmente da Raboni nella seconda metà del volume del 1980, per via della pesante censura subita allora in veste editoriale. Tuttavia, la consapevolezza del titolo Romanzi naturali nasce a posteriori in Cesarano (romanzi sono definiti anche i testi che compongono la Tartaruga di Jastov), per cui una riflessione sul valore rematico espresso è necessaria (volendo essere precisi, Genette parlerebbe in questo caso di un “titolo misto”, dato che l’elemento tematico entra in gioco attraverso l’aggettivo “naturale”).
La componente romanzesca, nel caso di queste tre narrazioni di Cesarano, si determina senza dubbio sulla base di una narrazione eterodiegetica, grazie alla quale una certa vicenda si svolge. Anche se molto meno riconoscibile nel caso de I centauri, in cui il risultato è un’azione di tipo teatrale (e dunque in questo caso sarebbe più opportuno parlare di funzione autodiegetica dei soggetti), il plot è romanzesco nel senso più vicino all’origine del termine, ossia quello di una narrazione avventurosa, con esiti e sviluppi imprevisti, che fa uso del verso. L’aggettivo “naturale”, a sua volta, determina una continuità di fondo con l’elemento realistico del testo, che Cesarano porta alle sue estreme conseguenze formali attraverso un uso sapientissimo delle variatio (poliptoti, anadiplosi, figure etimologiche) e delle figure di superamento (dall’anstrofe all’iperbato, dall’epifrasi alle parentetiche alla sinchisi): «Dall’uno all’altro – alberi / trafori ombre – bacio / di questi nuovi intrecciati, allampanati. / La pista già segnata seguono, sua, / dall’uno all’altro bacio ombra séguito. | Séguito seguito. / Non pedinato (pedinatore) ma / dai rossicci occhi. Così / che quando stesi i due / – di splendidi colori esemplari / contro di legno argentea e che si sgrana / staccionata (d’orto / botanico, recinto nido) –» (26. Persona B. in Il sicario, l’entomologo). Ha scritto giustamente Raboni: «Pochi altri, nella sua generazione, possedevano la sua immaginazione ritmica, capace di fondere in modo veritiero i tempi distesi della narrazione e quelli spasmodici dell’accensione lirica; nessuno uguagliava, a mio avviso, il suo talento figurativo, non obbediente ma spontaneamente affine a quello dei migliori artisti della pop art».
Alla pop art appartiene senza dubbio la tecnica di Cesarano, specie per l’esasperazione narrativa a cui il dato reale è sottoposto. Ne Il sicario, l’entomologo, in particolare, l’avvicendarsi continuo tra la storia della “Persona A” e quella della “Persona B” si sviluppa per mezzo di sequenze montate come fotogrammi e descritte da una serie precisa di didascalie, le quali vengono annullate da una lingua poetica ad altissimo contenuto iconico: «1. Persona A. (Treno) Si trasferisce da un paese del centro-Europa, da una milizia rivoluzionaria tradizionale, verso un bersaglio. È ammalato?»; «2. Persona B. Sistema un coleottero in collezione. Considera il luogo in cui si trova». In modo ancora più esplicito, la qualità cinematografica della narrazione avviene in Ghigo vuole fare un film, che formalmente sembra una versione scheletrica dello schema compositivo di appunti usato da Pier Paolo Pasolini in Petrolio, soprattutto per via della moltiplicazione continua a cui ogni punto della narrazione soggiace in potenza: a), b), c)… e), e/2)… g), g/2), g/3)… L’intento di Cesarano è specifico, si tratta di mostrare «come il film diviene il racconto, mentre il racconto entra nel film. L’impianto dell’intiero scritto mima quello di una sceneggiatura».
Siamo, a quest’altezza (mi riferisco, nello specifico, alla fase compositiva), entro il nuovo dominio di interessi di Cesarano, che è a poco a poco passato alla critica radicale del capitale. Così infatti inizia Ghigo vuole fare un film: «o il reale come lingua / in debito di rivoluzione o della lingua / come il debito, l’espropriazione». La lingua poetica è «enunciazione che si denuncia, enunciato / che si rinuncia». Credo sia da condensare in questo passo, che Cesarano riprende da Lacan scandendolo in versi, il senso dell’operazione del suo ultimo romanzo. Sembra infatti che ogni momento della sceneggiatura, per quanto possa aprirsi potenzialmente nella descrizione e nei dialoghi, resti casomai un trattamento, con tutta la sua tensione inespressa, sia per quel che riguarda gli avvenimenti sia per quel che concerne i personaggi (del resto il film si vuole fare ma di fatto non si fa, mentre a farsi ancora è la lotta): «”Sindacalisti di merda.” / Alta / benissimo vestita nell’istante / prima che verbalmente la coitino i latranti. / Si vedrà poi che zoppica. / Si deve già capire che si vedranno / molti e contraddittori scorci di lei / amorosamente, anche». La dimensione individuale perde così di senso per rimettersi all’unione dei «Mondi di tutto il Proletariato»; essa si fa adesso «misura illusoria / come si può capire correndo / disarmati nel rosso allacciati per le braccia / a compagni diversi divisi…». È questa una acquisizione decisiva, che caratterizzerà “politicamente” il Manuale di sopravvivenza, specie nella sua seconda parte, dedicata al tema dell’Insurrezione erotica. Cesarano conduce in tal sede una complessa valutazione della fisicità e del coito sulla base di un annullamento dell’individuo (con pieni risvolti politici e di «critica radicale» del capitale), in quanto ogni sua possibile insorgenza si oppone al flusso stesso della vita: «38. [...] l’Io fallimentare che vive di credito, erogando la propria presenza devalorizzata al riscatto di una riscossione sempre fuggente – come non vedere, in sintesi, nel flash mirabile, l’autoritratto del cristiano e l’identikit del capitale fittizio? – finché « la morte, annunciando il mio ritorno alla purulenza della vita », rende così possibile « presentire (e vivere nell’attesa) quella purulenza moltiplicata che, per anticipazione, celebra in me il trionfo della nausea. » Ecco che cosa, orripilato, seppellisci. La vita pullulante dei vermi, dalla dissoluzione del tuo corpo, ti appare melanconicamente come l’irrisione oscena a tanto perdurare in aspettativa, cumulando meriti valorizzati dai dubbi. […]. 39. Eccola, la vita, brulicare quando l’Io è dileguato. […]. Il disordine ferino, o il brulicare purulento: contro questo, l’«ordine», la regola. Per non vedere, in quel transire di animali in vita, la coerenza impietosa ma rigorosa del bios, il limine da superare traversando, vincendo angustia e orrore, l’ordine insufficiente all’agognata signoria di sé, cui opporre, in un lungo corso di messe a prova, sanguinose e temerarie architetture di disordine, verso la sortita al sommo, nell’ordine superiore della coerenza totale conquistata». La questione di una vita che si oppone all’ordine, alla regola, e di un “io” che debba dileguarsi nel brulicare purulento del bios, con la sua coerenza impietosa e rigorosa, nega l’idea di morte tradizionale, per arrivare allo scontro, alla lotta collettiva: «47. [...]. E’ l’aver visto la morte sopra tutto, la morte come fine, è questo che ha vibrato gli uomini, in un movimento non di ripulsa e di fuga, ma di aggressione armata, di volontà di superamento».
Siamo ben lontani dall’erotismo biologico e animalesco di Pastorale («Flesse / le ginocchia tremanti a stornato / il capo a spiare a destra / e a sinistra lui si scuote arcuato / caninamente, nel ventre / di lei scivola continuamente), così come lo siamo da quello passivo («Vede e non vede. / Le carnagioni miste. / I pallori. Fosforici. / Le opache negrità»), voyeuristico («Lo scaffale dei trattati, in linea / con lo spioncino, raggio / nella coda dell’occhio, laccio. Acccelera / dissimulato batticuore») e violento (Decapitata conculcata sus / sultante disarticolata stran / golante smembrata fatta quarti. / Crepe polpe dentate) de Il sicario, l’entomologo. Lo scarto testimoniato dall’Insurrezione erotica mette in gioco, in modo esplicito, considerazioni sulla vita e sulla morte che sono il portato di una riflessione maturata all’altezza di Ghigo vuole fare un film, a conferma di una complementarietà tra il piano politico e quello poetico, che si compie tra 1968 e 1969, nel momento in cui Cesarano decide di abbandonare la poesia: «Per un istante intiere / con una strangolante rabbia voglia di vivere voglia di non morire / molto banalmente così, siccome è così banale / voler vivere voler non morire». Sono questi i versi che chiudono idealmente (anche se non di fatto) l’ultimo dei tre Romanzi naturali. È qui, nell’agonismo della lotta, nell’annullamento dell’io, che avviene la volontà di superamento; qui, la dialettica fra soggetto e storia trova infine la sua sintesi più compiuta. Così è stato anche nel caso della (sua) vita.
Grazie per questo pezzo molto interessante!
Grazie molte, Valentina, per averlo apprezzato.