Interviste/Narrativa italiana

Il “Manga” di Lietta. Intervista inedita ad Amelia Antonia Manganelli

2. Giorgio Manganelli durante l'esame di Giornalista (5 marzo 1977)

di Luca Barbirati*

Una email, un messaggio in segreteria ed una telefonata. Così, quasi per caso mi ritrovo a Pisa, dove abita Lietta, la figlia dello scrittore Giorgio Manganelli. Fino a pochi giorni fa, il Manga, come lo chiamavano gli amici, era solo un insieme nemmeno tanto nutrito di dorsi sui ripiani della mia libreria; oggi, invece, è qui di fronte a me. Mi fa da tramite la figlia che, umile e generosa, mi ha concesso questa chiacchierata. Chiedo venia allo specialista perchè leggendo quanto segue non troverà l’esperienza dell’intervistatore, nè il criterio del saggista, né tanto meno la pazienza dell’esegeta. Non sono nulla di tutto questo. Forse sono solo un curioso inesperto ed è già molto se assomiglierà alla mia conversazione con Lietta.

4. Lietta Manganelli a Pistoia durante un incontro di manganelliani (21 giugno 2013)

Lietta Manganelli

[L.B.] Scorrendo la biografia di Giorgio Manganelli, fin dalla prima maturità, emerge quasi una predestinazione alla scrittura. Lui stesso ricorda, scherzosamente, che durante il servizio militare prese coscienza della sua incapacità perfino ad allacciarsi le scarpe. Nell’”Intervista con Mangiafuoco” del 1981, diretta da Mario Monicelli, disse: «Cosa può fare uno che non è assolutamente niente?». Scelse la letteratura perché non avrebbe potuto fare nient’altro?

[L.M.] No, non perché non potesse fare altro, ma perché fu la scrittura a scegliere lui, e mio padre non riuscì a fuggirle. Fu la scrittura a sceglierlo come strumento.

[L.B.] La storia di tuo padre assomiglia tanto ai suoi racconti. A ventitré anni fu capocellula antifascista e si innamorò di Fausta Chiaruttini, tua madre, che proveniva da una famiglia “fascistissima”. Si può dire un caso, o la contraddizione e il paradosso sono la cifra che hanno segnato tutta la sua vita e la sua opera?

[L.M.] Sì, il paradosso è stato certamente la cifra di tutta la sua vita, fin dall’inizio. Nasce maschio da una madre che desiderava, anzi di più, era certa che questo secondo figlio sarebbe stato femmina. La madre lo costrinse a indossare abitini femminili e leziosi fino a sei anni. Credo che un tale inizio sia sufficiente a spiegare tutto il resto. A tre anni o poco meno aveva già trovato la sua difesa, la sua “muraglia cinese”, e non se ne distaccò mai più.

[L.B.] Ora ti chiedo delle “sue” donne. Le relazioni che ha avuto tuo padre sono state dei veri e propri drammi affettivi. Penso al rapporto con la madre Amelia, a quello con la moglie durato solo pochi mesi, a quello con la suocera. Puoi raccontarmi qualche aneddoto?

[L.M.] Il suo rapporto con le donne fu falsato da quello con la madre. Mio padre ebbe sempre l’impressione, da piccolo, che sua madre non lo amasse; impressione tra l’altro falsa, solo che mia nonna lo amava nel solo modo in cui era capace e, così, ha passato l’infanzia a cercare di conquistarla e a rimanerne deluso. Da allora il mondo femminino è stato sempre misterioso e nemico.

[L.B.] E con te?

[L.M.] Il suo rapporto con me? Credo si concentri in una frase: «Pensa che strano, riesco a volerti bene nonostante tu sia mia figlia… e soprattutto tu sia una donna…». Serve altro?

[L.B.] No, ma permettimi un’altra domanda sull’argomento. Nel 1950 ebbe una relazione con Alda Merini. Che rapporto aveva con la Poetessa?

[L.M.] Alda fu estremamente importante sia per lui che per me, anzi, dopo la fuga di mio padre a Roma, molto di più per me. Conobbi Alda quando avevo poco più di due anni e lei ne aveva diciassette. Mi innamorai subito. Per mio padre era la prima donna che lo guardasse e lo facesse sentire un dio. Mia madre, invece, non l’aveva mai amato e glielo aveva sempre rinfacciato. Mio padre si sentiva colpevole nei confronti di Alda e, dopo un po’ di tempo, non riuscendo a sopportare il loro rapporto, parole sue, l’abbandonò in preda alla follia. Tuttavia, Alda, fu la prima persona a cui telefonò dopo il nostro incontro dopo 15 anni di silenzio. Per me fu come una madre, mi chiamava “figlia” e il nostro rapporto non si interruppe mai fino alla sua morte, e, sinceramente, continua anche adesso.

[L.B.] Pietro Citati, nel suo “La malattia dell’inferno”, lo ricorda insegnante di inglese a Roma, conoscitore della letteratura anglosassone e di quella italiana, ma dotato di uno stile incerto, lento e affaticato. Per timorosità e diffidenza di sé stesso lo considerò «una copia più giovane dell’ingegner Gadda». Credi che abbia avuto ragione Citati ad usare queste parole? Come mai aspettò di avere 42 anni prima di pubblicare il suo bellissimo “Hilarotragoedia”?

[L.M.] I motivi sono molteplici. Prima di “Hilaotragoedia” aveva scritto qualche racconto, ma soprattutto poesie, pubblicate postume. Ha iniziato a scrivere “Hilatragoedia” su suggerimento e spinta del suo psicanalista che lo convinse a mettere su carta i suoi sogni, i suoi incubi e le sue nevrosi. Da ultimo, ma non meno importante, nessuna casa editrice voleva pubblicarlo. Ci volle quel “folle” di Giangiacomo Feltrinelli a far sì che il libro vedesse la luce. In quanto al “giovane Gadda”, forse solo le nevrosi li rendevano simili.

[L.B.] Nel 1979 pubblica “Centuria”, suo vero e proprio successo editoriale. Ottenne il Premio Viareggio e seguirono varie ristampe in pochi anni. Secondo te perché proprio questi racconti fantastici, e non altri, ebbero così seguito in Italia?

[L.M.] Penso che “Centuria” ebbe il successo che ebbe perché è il libro più facilmente fruibile dal grande pubblico. Bellissimo, ma nulla a che vedere con “Hilarotragoedia” o con “Sconclusione”, libri altrettanto belli, ma contorti e di non immediata comprensione.

[L.B.] Italo Calvino, grande stimatore di tuo padre, in occasione dell’uscita in Francia di “Centuria”, nel 1985, scrisse che la psicologia è la materia prima delle presunte astrazioni manganelliane. Non è un segreto che alla fine degli anni ’50, su invito di Cristina Campo, entrò in analisi con Ernst Bernhard, da cui andavano, tra l’altro, Federico Fellini, Natalia Ginzburg e Roberto Bazlen. Cosa cambiò nella vita di Giorgio Manganelli dall’incontro col famoso psicoanalista junghiano?

[L.M.] Cambiò completamente. Bernhard è l’uomo che, secondo la stessa ammissione di mio padre, gli insegnò a mentire. Ciò non significa semplicemente che gli insegnò a dire bugie, bensì gli insegnò proprio a inventarsi un’altra vita, diversa e a lui più congeniale, permettendogli di scacciare i suoi “cadaveri nell’armadio”  o almeno di tenerli sotto controllo.

[L.B.] Giorgio Manganelli fu scrittore, studioso di lingue straniere (o meglio: “strane”!), professore, traduttore, giornalista, critico ed autore di testi teatrali. A cosa di deve questa sua grafomania?

(La domanda viene elusa e, superando il silenzio, proseguo con la successiva)

[L.B.] Milano e Roma furono le principali città intricate alla vita di tuo padre, così come Parma e Torino. Tuttavia, nel 1982, scrisse che solo a Firenze divenne, o volle diventare italiano. Ti ha mai parlato di questa città a cui ha dedicato molto articoli, distante 3 ore sia da Roma che da Milano, ma che visitò a fondo solo per merito di Pinocchio?

[L.M.] Firenze era una città che gli faceva paura, e le paure di mio padre erano paure cosmiche. Troppo bella, troppo perfetta, troppo Italia. Io con lui visitai Parma, Roma, Milano, perfino Barcellona, ma non mi portò mai a Firenze!

[L.B.] Viaggiò molto anche all’estero. Sono famosi i suoi resoconti giornalistici dalla Cina, dall’India e dal Sud Africa (per citare i più noti) anche se visitò moltissimi altri paesi. In che modo riuscì a trasformare i suoi reportage in opere di alta e fine letteratura?

[L.M.] I viaggi, iniziati tardi, dopo i 50 anni e non più abbandonati, per mio padre non erano un pretesto per visitare paesi sconosciuti, ma un motivo per lasciare a casa se stesso e diventare altro. Norvegese in Norvegia, cinese in Cina e così via, lasciando il suo se stesso, a cui spediva cartoline, a casa ad aspettarlo, con le sue paure e le sue nevrosi.

[L.B.] Tuo padre fu anche un ottimo bongustaio. È vero che rifiutò l’invito a diventare professore al neonato DAMS perché i downloadristoranti bolognesi non erano di suo gradimento?

[L.M.] Divenne bongustaio quando se lo poté permettere, dopo aver passato lunghissimi periodi di “fame”. Sorridi, ma non è una battuta. Comunque sì, è vero, rifiutò la cattedra a Bologna, perché, citandolo, «a Bologna si mangia male e si beve peggio!».

[L.B.] Nell’intervista che hai rilasciato a Il Giornale, il 19 giugno 2012, hai detto che Giorgio Manganelli non vedeva l’ora di andare all’inferno e che il suo obiettivo in terra era il raggiungimento dell’atarassia, la sospensione dei sentimenti. Puoi raccontarci quali erano le sofferenze che ha dovuto sopportare?

[L.M.] Manganelli ha avuto un’infanzia infelice e si è portato dietro questo trauma per tutta la vita. Mia nonna, sua madre, era fortemente nevrotica con lati di pura isteria e questo lo ha reso insicuro, spaventato e “adediretto”.

[L.B.] Nel 1986 ha pubblicato con Rizzoli la raccolta di racconti “Tutti gli errori”. Mi ha colpito molto il suo congedo, che ora ti leggo. «Signori, il frastuono che mi viene addosso alle spalle ormai mi assorda; per la prima volta i miei occhi sperimentano il buio; addio, io cado, io vi perdo, io nasco». Quale rapporto aveva con la morte?

[L.M.] Il suo rapporto con la morte era riposante e amichevole, molto migliore di quello che aveva con la vita. Nascere, per mio padre, voleva dire perdere tutte le certezze; nascere voleva dire avere paura.

[L.B.] Durante gli ultimi anni confidò all’amica Giulia Niccolai che non aveva più voglia di vivere. Che ricordo hai degli ultimi mesi di vita di quel fatidico 1990?

[L.M.] Fu un periodo devastato dalla morte di mia madre, avvenuta il 28 di marzo dello stesso anno. Mio padre morì il 28 maggio. Non si vedevano da 40 anni, ma per lui fu la chiusura del cerchio. Faustina non c’era più, e lui non aveva più motivo di esistere. Nonostante gli altri amori e le vite lontane, lei, mia madre, era rimasta nel suo cuore e nella sua mente; e poi … c’era un legame-colpa comune: io

[L.B.] È  da molti anni che ti occupi dell’eredità letteraria di tuo padre?

[L.M.] Ho cominciato ad occuparmene dalla fine degli anni ’90, quando venni in possesso di carte disperse, ricordi, documenti e quant’altro. È servito molto tempo per districarmi in quei meandri, poi ho imparato a muovermi sempre meglio, credo!

[L.B.] Nel 2010, in occasione dei vent’anni dalla morte del Manga, permettimi di chiamarlo così, hai voluto fondare il “Centro Studi Giorgio Manganelli”. Puoi raccontarmi questo progetto?

[L.M.] Mi sono resa conto che molto del Manga era rimasto sommerso, che lui aveva ancora molto da dire a estimatori e non, e che le sue intuizioni, le sue invenzioni, non dovevano e non potevano andare perse. C’era un vero tesoro nascosto e io “dovevo” scoprirlo … era il mio compito. Anche la biografia del Manga a cui lavoro da anni e che sembra non interessare nessuno, editorialmente parlando, fa parte dello stesso progetto. Non farlo dimenticare, Luca. Naturalmente tutto questo ha dei costi e non parlo solo di costi economici. Combatto contro la cecità delle istituzioni, creo eventi dal nulla, cerco in improbabili archivi manoscritti che altrimenti resterebbero sepolti. È molto difficile la gestione del tutto, anche perché io sono da sola a tenere in piedi questo “colosso”, non del tutto figurato. Ma ora il problema principale è la raccolta di fondi, abbiamo aperto una raccolta su buonacausa, visibile anche sul sito del Centro, altra “creatura” per poter portare avanti i progetti, gli eventi e gli happening sul Manga.

[L.B.] Hai ricordato più volte, sia su interviste che su articoli, l’ammonimento paterno: «Vuoi fare cultura? … bene, fai pure, ma ricordati che sarai punita». Alla luce, o all’ombra, dei tuoi sessant’anni, e se non sembro troppo indiscreto ti chiedo l’età effettiva, cosa risponderesti al tuo Manga?

[L.M.] Dall’alto dei miei 66 anni, 67 il 20 Maggio, gli direi: Mi avevi avvertita, papà, non ti volevo credere, ma avevi ragione … cosa vuoi che ti dica, sarò masochista, ma io a questa punizione non rinuncio!

(A questo punto Lietta, assorta e seduta scomodamente sul divano, risponde ad una domanda fattale in precedenza)

[L.M.] Riprendo una domanda che mi hai fatto sulla sua “grafomania”. Deriva dal fatto che mio padre si sentiva tranquillo e riusciva a esprimere i suoi pensieri e sentimenti solo davanti ad un foglio bianco.

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Luca Barbirati presso la trattoria Alla Cerva (Vittorio Veneto, Treviso - Maggio 2014) (1)*Luca Barbirati nasce a Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, il 6 marzo 1990. Diplomato al Collegio Vescovile “Dante Alighieri”, frequenta a Udine, senza laurearsi, la facoltà di giurisprudenza. Vive a Firenze.

 

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