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Buon compleanno, caro eccentrico

di Stefano Gulizia

Da ieri Glenn Gould avrebbe avuto 80 anni. C’è una famosa fotografia di Alfred Eisenstaedt per LIFE in cui, verso la fine della sua vita, nel 1981, il prodigioso pianista canadese cammina per le strade di Toronto con i famosi guanti di lana che usava indossare in piena estate, chinandosi per proteggere un fascio di spartiti musicali e protendendo l’orecchio, con rara efficacia drammatica, verso quello che dovette sembrargli il paesaggio sonoro della modernità: così vuota, così vile, così miserabile, così spregevole, eppure così seducente.

Difficile trovare il tono giusto, venir fuori con la giusta metafora per la sua traiettoria intellettuale, quanto meno in modi che non riproducano semplicemente la sua immagine incandescente alle porte di fama e giovinezza (un James Dean della tastiera), o interferiscano troppo con l’eccentrica argutezza che circondava il ronzio delle melodie che suonava al pianoforte. (Se si potesse trovare una formula senza precedenti, potrebbe avere a che fare con le gambe, a dispetto di quanto è in gioco con il lavoro delicato e modulare delle sue dita.)

Per molti, le incisioni bachiane di Gould sono così dolorosamente cerebrali e nevrotiche da assomigliare a una caricatura. Per altri, il suo tempismo alla tastiera è così perfettamente atomizzato da avvicinarsi al venerabile status di reliquia popolare, quasi come le salsicce di maiale si possono tritare e insaccare usando le viscere stesse. Glenn Gould è uno dei pochi artisti che sono diventati leggendari essenzialmente a causa di un album: la sua edizione delle Variazioni Goldberg nel 1955.

I 32 piccoli film su Glenn Gould del cineasta Francois Guirard suscitarono un alto grado di interesse nel 1993, e arrivarono vicini a trattare il canadese come una specie di santo laico e folle. (Non è una situazione senza precedenti per un documentario su un pianista innovativo: basti pensare a Thelonius Monk.) Il suo incredibile talento era così spettacolare che importava poco della sua trasformazione, di tanto in tanto, in puro spettacolo: i riverberi sconcertanti della sua registrazione di Sibelius, il Brahms rallentato, durante una performance dal vivo a New York, fino alla soglia del disagio spettrale.

Ci sono persone per le quali Mozart è importante solo perché è stato sardonicamente interpretato da Gould, il che, suppongo, è sia un bene che un male. C’è anche una maniera in cui il pubblico di oggi sarebbe in grado di leggere dentro e al di là delle vessazioni inflitte loro dal canadese e dall’artificiosità narcisistica che a volte lo colpiva: la giustificazione di tali rituali arcani la si metterebbe sul conto del suo desiderio di trovare un punto di fusione con la fisica meccanica dello strumento.

Glenn Gould aveva una personalità così polarizzante che ancora oggi, nel corso di una conversazione radiofonica alla stazione newyorkese WQXR dal titolo “Arriva il momento di ripensare il culto di Glenn Gould,” Brian Levine, direttore della Glenn Gould Foundation, e David Patrick Stearns, critico musicale del Philadelphia Inquirer, sono riusciti non solo a trovarsi in disaccordo, ma ad argomentare la posizione opposta circa lo stesso evento: la decisione di Gould, nel 1964, di ritirarsi dalle scene. Stearns pensa che questo abbia impedito al pianista di cotinuare a collaborare con i grandi artisti del tempo, Bernstein o Karajan, e reso le sue provocazioni musicali un po’ più sterili di conseguenza, mentre Levine insiste sul fatto che il controllo esercitato sui percorsi di registrazione del suono in studio si sia rivelato l’ambiente più adatto per una espansione della fondamentale introspezione della sua arte.

Anche nella mia esperienza, e per ovvie ragioni di tempo, Glenn Gould non è mai stato l’esecutore abbagliante dal vivo né il saggista – anche se ho istintivamente simpatizzato con la sua difesa di Richard Strauss in un momento in cui tutti erano interessati solo ad Arnold Schoenberg – , ma piuttosto il simbolo di un crepuscolo nell’attuale era della riproduzione digitale. Quando si raggiungeva lo scaffale per l’acquisto di un CD di Gould si sapeva di rivivere alcune delle stesse tecniche che evocarono In a Silent Way di Miles Davis, un album di qualità cristallina e liquida, tratto da sessioni sparse e presumibilmente turbolente presso la Columbia Records.

La Sony aveva finalmente messo a disposizione il sogno di Gould di una scatola di versioni alternative in cui l’ascoltatore, con un minimo di attrezzatura tecnica, fosse in grado di eseguire una combinazione di significati ludica, esilarante, e potenzialmente infinita, un gioco mentale simile a quello che potrebbe essere una scacchiera acustica. E io non credo che sia stato sufficientemente osservato come l’unico pianista paragonabile a Glenn Gould sia, propriamente parlando, Bill Evans. Con la promozione di una linea di “edizioni di Glenn Gould” la musica classica si è immersa in una zona di feticismo sonoro che, prima, era il dominio esclusivo del collezionista di jazz. Per quanto riguarda le tracce extra, non erano tanto l’appendice di una collezione, ma l’unico motivo per cui si sarebbe dovuto comprare il disco, alimentando lo stereo con scarti di tutti i tipi.

In ciò che equivale a uno strano paradosso musicale, senza dubbio intenzionale, la tendenza del Barocco verso la forma ciclica, evidente soprattutto in opere come le Suites francesi o inglesi di Bach, ha finito per essere sottoposta a un trattamento che era al tempo stesso minimalista e il risultato implicito di un Romanticismo sfrenato. Inoltre, Glenn Gould, l’artista che difendeva eroicamente i diritti e la libertà dell’interprete di fronte allo spartito, alla fine fu coinvolto nella creazione di uno stato psicologico di dipendenza nei confronti dell’archiviazione. Potrebbe essere doloroso ammetterlo, ma le registrazioni di Gould erano forse l’altro lato delle cosiddette edizioni filologiche: interpretazioni dittatoriali di concerti del diciottesimo secolo con ottoni stridenti, e ricostruzioni fedeli di strumenti storici, in cui l’unico modo per accedere all'”originale” era attraverso una ripetizione sistematica e la polverizzazione del suono.

8 thoughts on “Buon compleanno, caro eccentrico

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  2. Articolo bellissimo, davvero ben scritto. E che sa cogliere nel segno in quanto al fenomeno Gould. Sto leggendo un libro interessantissimo della Hafner su Glenn Gould e la ricerca del pianoforte perfetto. Bella coincidenza: tempismo.

      • Sì, credo sia uscito nel 2010. Parla non solo di Gould: della Stenway, della produzione dei pianoforti, dell’accordatore che accordò, da un certo punto in poi, lo Stenway CD 318, il “pianoforte perfetto” del titolo, preferito in assoluto da Gould e acquistato alla Stenway di Toronto, dalla meccanica leggera, dal suono nitido, cristallino, in ogni registro. Personalmente il libro mi affascima facendomi capire quale possa essere il rapporto tra lo strumento e l’interprete, l’artista. Una bella scoperta.

      • Tutto questo sembra davvero molto interessante. Tempo fa, al MoMA, avevo visto una strana performance in cui il quarto movimento della Nona Sinfonia di Beethoven (noto simbolo di valori patriottici e umanistici) veniva suonato da un buco dentro il pianoforte, che lasciava scoperte le ottave e dava un’idea, al contrario, della relazione organica tra il suono e lo strumento.

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