di Diego Bertelli
Mi sono trovato recentemente in macchina con Marco Simonelli per una ragione ben precisa: partire insieme da Firenze per andare a vedere Lydia Lunch, un pezzo di storia della No Wave newyorkese degli anni Ottanta. Il concerto è a Bologna, ma non facciamo in tempo a lasciare piazza Puccini che già si parla di poesia. Stavolta tocca a Paolo Maccari, perché lo voglio recensire. Appena faccio il nome di Maccari, Simonelli dice una cosa sacrosanta: «Quello che più mi colpisce di Paolo è il modo in cui riesce a essere spietato con se stesso». Marco sta parlando in questo caso di Fuoco Amico, la raccolta pubblicata da Maccari per Passigli nel 2009, in cui la figura del prigioniero apre a un serrato racconto della sopravvivenza: aspirando all’arresa della detenzione, egli accarezza l’oblio nella speranza di poter ridurre lo spazio della cella alla bidimensionalità di una pagina bianca.
Grazie a Marco e alla sua frase, in quel preciso momento mi rendo conto di una cosa: nessuno aveva saputo più nulla di quel prigioniero. Solo adesso, a distanza di quattro anni, intuisco che il prigioniero (di) Paolo Maccari è sopravvissuto, vive in questa nuova raccolta, Contromosse (Con-fine, 2013), con prefazione di Luca Lenzini e postfazione di Giuseppe Di Bella. Probabilmente è stata anche la ricorrenza del linguaggio militare a suscitare in me un’ulteriore associazione tra queste due raccolte. Nella fattispecie, soltanto in macchina ho capito quanto fosse importante leggere l’ultima parte del libro, Pensieri in piazza, alla luce dell’Ultima voce, la sezione diametralmente opposta di Fuoco amico, messa ad apertura della raccolta. Sono parti centrali ben al di là della struttura dei due singoli libri e formalmente antitetiche: dall’«incastonatura» verbale del sonetto Maccari è passato adesso alla prosa.
È inoltre possibile che nella mia mente sia stata anche la Canzonetta iniziale a segnare la continuità tra le due raccolte. Al di la della leggerezza della forma (un po’ come nel Risorgimento di Leopardi), il testo pone il lettore di fronte alla questione del responsabilità e del ritorno: «Chi ha in mano il tuo destino / – salvezza o dannazione – / raramente lo sa».
L’altra cosa che ho pensato è stata questa: forse, sempre come in Leopardi, anche in Maccari è presente tutta la nostalgia della parola dopo un’esperienza di morte come quella suscitata dalla solitudine e dal silenzio. In questo senso, la rivincita nei confronti del dolore è canticchiata per non dover pesare con tutto il suo carico sull’io. Sulla base di queste associazioni ho riletto Contromosse, cogliendo in modo opportuno il senso della spinta ascensionale di Verso l’alto, i versi di Riepilogo di un’amicizia, il «posato, affabile discorso / intorno a quel che si placa e resta» di Ritorno all’ordine.
Nella raccolta di Maccari la consapevolezza della sopravvivenza, intesa come sensazione fisica, è allo stesso tempo la ragione di un rancore che non riesce a consumarsi facilmente. Covato come la paura, il pensiero interiore fa il suo ingresso attraverso il corsivo di due prose bellissime e lancinanti, I modi della volpe e Un banchetto. Qui l’io poetico parla a se stesso, riconosce il bisogno dell’aggressione: «Riuscissi a entrare in un pollaio, sgozzerei senza misericordia tutte le galline, per poi mangiarne una. Mi lascerei dietro, soddisfatto, la gratuità del massacro». (I modi della volpe). Non c’è più misericordia, ma solo «un po’ di onnipotenza» che nasce dagli istinti. La sfera religiosa non conta, la pietà viene esercitata da un punto di vista completamente biologico. Ecumenica è quindi la solitudine del branco; da un punto di vista miseramente umano la storia famigliare coincide con l’insegnamento della sopravvivenza: «”Non ho più fame” disse il figlio. “Ma devi mangiare” rispose il padre, “se vuoi diventare come me, forte e grande e rispettato da tutti”. “Lo so, me lo dici sempre, e io mi sforzo; però, davvero, non riesco a mangiare un boccone di più”. “Va bene, per oggi non insisto. Scostati allora, e fai mangiare gli altri”. Il lupacchiotto, dopo aver strappato un ultimo piccolissimo brano di cuore, tirò fuori il muso rosso dal costato del montone. Tre suoi coetanei si avventarono sul cadavere. Al capobranco scintillarono gli occhi quando notò il suo erede poco lontano scosso da conati di vomito» (Un banchetto).
Le due prose mettono in primo piano il carattere universale della solitudine. Soltanto in questa dimensione penetrale è concesso una qualsiasi relazione affettiva, come Negli oscuri rifugi, in cui l’incipit dei tre movimenti del testo sembrano una variazione del silenzio sul tema della solitudine: «I. Se tu zitisci, tutto tace intorno», «II. Tutto, se taci, a tua imitazione / rimane attonito» «III. Quanto silenzio, amico, intorno, quante indecise prove di voce / sommerse dall’assenza di vento. Ti aspetto. Aspettami.» È sul limite dell’attesa metafisica, quella che non deve concludersi in un incontro, a consumarsi la vita; nessun gesto d’amore seguirà, nessun sacrificio materno e filiale, la parola non deve più diventare carne: «Esiste in lei, che lo adora, / un nuovo sentimento. / […] A suo modo, silenziosa, a noi, umana / gente, ci saluta. / […] Ci ama ancora, ma abbiamo l’aspetto / di innumerevoli bambini, e lei ne aspetta uno di tutt’altra natura / che non somigli a nessuno, / e che mai s’incarni. / È tutta intenta alla nuova creatura / che non nascerà, ma che già creata / le chiede insieme abbondante alimento / e serena sepoltura» (Una che se ne va).
Fine delle illusioni? La parola «sepoltura» alla fine ricorda ancora tantissimo Leopardi. In questo caso abbiamo tuttavia a che fare con una vita che non vuole e deve cominciare, interna e prenatale: il ventre che custodisce l’aborto va ben oltre la Silvia leopardiana, assume una carica sacrale, nel senso primitivo di esclusione. Anche il «concentramento» finale dell’io nel pensiero e nella piazza, nel momento in cui il libro si apre definitivamente alla prosa, replica una gestazione della morte. Il tempo della sopravvivenza segna la vera consapevolezza: non si può essere più vivi come gli altri. La reazione con l’esterno, specie nel caso della circolarità della piazza, diviene una sorta di schermo ideale al contatto: «Paura e dolore non sono in questa piazza» (Ouverture senza pudore lirica).
Maccari fa attenzione a ogni particolare di questo luogo: forma, ritmi, tempi. In quello spazio circolare sembra che l’io poetico trascorra un anno intero tra persone che lo popolano di tanto in tanto, la statua in corso di restauro. Lo sguardo delll’io poetico sulla statua chiusa «tra le sbarre» (Restauri di monumenti (in special modo di statue)) fa pensare che egli abbia scelto, senza neanche rendersene conto, un’altra prigione. Se non è facile riconquistare il contatto con la libertà, ancor meno facile è assolversi se si è stati prigionieri. Incredibile pensare che la colpevolezza imputata dagli atri arrivi a pesare come un giudizio personale; Maccari tuttavia era sotto un fuoco amico quando è stato catturato e forse non è stato riconosciuto dai suoi stessi compagni. Mi viene in mente la scena conclusiva del Pianista, quando Władysław Szpilman esce dal suo nascondiglio e la prima cosa che gli accade è quella di esser quasi ucciso dai colpi di fucile dei soldati polacchi. Perciò le mie domande sono queste: quali abiti sono rimasti addosso all’io poetico? Quando si è visto preso di mira dai fucili dei suoi compagni? Ancora: quante sono le cicatrici rimaste sotto i fori delle cartucce? Come si sente adesso al contatto con gli altri?
Nella piazza l’osservatore non riserva uno sguardo benevolo allo studio della vita; specie laddove sembra indulgere verso gli altri, l’io poetico attacca subito se stesso: «Continuava a scusarsi, si scusava col mondo intero. Anch’io sorrisi: mi scusai di far parte del mondo, dei suoi nemici» (Un vecchietto traversa la strada); «Vorrei portarti in questa piazza. […] parlando, mi vedresti sdoppiare in due tranquille figure: il bambino che si ripara all’ombra della tua smisurata maternità e un giovane uomo pieno di forza, carico di idee nere ma con in fondo l’incancellabile cupidigia di partecipare allo stupore delle cose» (A mia madre (liricamente)); «Mi guarda sbalordito dimenticandosi. Ecco come sei, con i tuoi occhietti inconsistenti e il muscolo tremante sotto il naso! “Che scuola fai?” Ma si è già alzato e si allontana spaventato girandosi ogni tanto a guardarmi. “Un’ultima cosa – concludo dentro me –: impara a distinguere gli sconosciuti dai fratelli”» (Un giovanottone). Il bene e il male appaiono qui sotto una luce asintomatica: «al tempo della mia paura questa piazza mi avrebbe terrorizzato» (Come mi sarebbe apparsa la piazza quando stavo male); è questo l’effetto del trauma: riaprire gli occhi dopo la speranza della morte. Solo chi ha provato a uccidersi sa quale dolore sia risvegliarsi vivo.
Leggendo Contromosse, mi sono infine chiesto dove potesse essere questa piazza circolare, con la statua in mezzo in corso di restauro, con un possibile studio notarile vicino; mi sono chiesto dove potessero vivere il vecchietto, il giovanottone, o le altre figure descritte: il padre borghese col figlio ventenne, un po’ metallaro ma non troppo; il venditore napoletano che grida «cerase» e «patane» e le vende per un euro. Mi piace pensare che questa piazza, nella geografia di Maccari, appartenga soltanto a Firenze, ai suoi piccioni, che la popolano e vi muoiono. Io me la sono immaginata in un punto preciso, ma l’ho detto soltanto a Marco Simonelli in macchina, mentre andavamo a vedere Lydia Lunch. A proposito, il concerto è andato benissimo, anche se Lydia ha suonato solo un’ora. LA cosa bella è che lei ha riconosciuto Marco e non il contrario soltanto; ma questa è un’altra storia. Io, per me, ho visto per la prima volta Bob Bert, storico batterista dei Sonic Youth degli esordi, scoprendo che abbiamo in comune due cose: la prima è appunto lo strumento che suoniamo; la seconda è il cognome, visto che all’anagrafe di Hoboken, New Jersey, il suo nome è Robert Bertelli.
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