di Carlo Celebrin*
Non è facile addentrarsi in Tenera è la notte. Secondo i critici (tra cui la nostra Fernanda Pivano, l’americanista che più di chiunque altro ha fatto conoscere al pubblico italiano la gloria della letteratura statunitense, e che nello specifico ha curato la traduzione delle principali opere di Fitzgerald), l’ultimo grande romanzo che l’autore è riuscito a portare a termine rappresenta il culmine della carriera letteraria di quel mostro sacro che Francis Scott Fitzgerald è stato per i posteri; non tanto, o non solo, per la qualità della produzione artistica in sé, quanto per quello che il libro ha significato all’interno del percorso umano di Fitzgerald in quanto scrittore.
Spesso è la storia compositiva/editoriale di un libro a dirci molto sul suo valore – ed è per questo che scegliere (seppur a buon diritto) di approcciarsi ad un romanzo come ad un qualcosa di dato, autoconclusivo e irrelato è da sciocchi: perché ci si perde un mondo intero, e soprattutto si perdono le radici che l’opera lascia tronche, come quelle di un ciuffo d’erba strappato malamente, nel suolo dell’esperienza biografica. E ce lo dimostra Tenera è la notte: figlio di un impegno durato almeno una decina d’anni, il primo materiale del romanzo comincia ad essere imbastito da Fitzgerald subito dopo quella strana esperienza che fu Il grande Gatsby (lavoro acclamato dalla critica, ma con un successo commerciale inferiore alle aspettative dell’autore, il quale ha trascorso lunghi periodi della propria vita alle prese con dissesti finanziari dovuto principalmente a ciò che qualche professoressa di lettere definirebbe con l’eufemismo “stravizi” – alcol, feste, lusso e viaggi, perlopiù). Si può quindi affermare che le prime ispirazioni per la trama di Tenera è la notte, e la prima struttura della storia, vivono del clima languido, magnifico e fumoso dell’opera più celebre dello scrittore del Minnesota: i personaggi sono costruiti sempre con la stessa cura nei dettagli, e la stessa sottile finezza del decidere cos’è opportuno rivelare a pagina 10 e cosa merita di rimanere ignoto a pagina 100, tutt’al più forse presagito nell’aura di magnetismo fascinoso in cui Fitzgerald immerge gli attori del proprio teatro; anche gli spunti meramente narrativi che spingono innanzi la storia sono i motivi tipici dei ricevimenti, delle vacanze, dei tradimenti, delle conversazioni brillanti, dei malumori e delle lacrime interrotte. Qualcosa dunque dello spirito “gatsby” rimane tra le pagine della versione definitiva di Tenera è la notte (la quinta, e l’unica a venire effettivamente pubblicata, a parte una sesta edizione – postuma e largamente rimaneggiata dal critico Malcolm Cowley, amico dell’autore), ed è servito a Fitzgerald soprattutto a delineare i profili della moltitudine di facce che affollano la mondanità in cui i protagonisti (la starlet Rosemary e la coppia dei coniugi Diver, Dick e Nicole) sono tuffati, dondolandosi tra isterismi, solitudine, misantropia e dolce vita. E l’ombra lunga de Il grande Gatsby si può intravvedere anche nel gusto per i drammi sospesi e tremendi che costellano il romanzo e ne piegano le svolte.
Ma in Tenera è la notte c’è dell’altro, c’è un elemento alieno che è poi l’anima del libro e la sostanza con cui sono modellate le parole di cui è composto: una materia oscura e vibrante che è l’Io di Fitzgerald. O meglio, il suo ego inteso non come punto di vista, ma piuttosto come orizzonte visivo. Nel romanzo vi è ciò che l’autore vede attorno a sé: una rete di amicizie che si sfalda tra gente che si è persa, relazioni interrotte tra l’Europa e l’America, delusioni; lo spettro dell’alcolismo – convivenza subdola sempre estetizzata e osservata con accondiscendenza; i demoni che agitano la moglie Zelda, vittima della propria fragilità; qualche importante affaire extraconiugale, e quindi l’inconsistenza dei legami socialmente sanciti. Ecco, in Tenera è la notte l’elemento che sfugge alle mani e al bisturi del lettore è magari semplicemente lei, Zelda, e tutto ciò che rappresentava per il marito in quegli anni difficili del loro matrimonio. Coppia iconica per tutto il ventesimo secolo, per influenza sull’immaginario collettivo seconda forse solo a John Lennon & Yoko Ono, Francis Scott e Zelda si sono sposati molto giovani nel 1920, e la loro vita insieme è stata tutt’altro che semplice: continuamente sul bilico del tracollo economico a causa di uno stile di vita vorace, l’equilibrio tra l’estrosa e prorompente personalità di lei e l’affumicato e discontinuo impegno nella scrittura di lui subisce un definitivo processo di disgregazione quando si aggrava la precaria situazione psicologica di Zelda, affetta da una grave forma di schizofrenia, la quale avrà delle cadute significative, e dei conseguenti ricoveri in clinica, già dai primi anni trenta. La sostanza di Tenera è la notte non poteva quindi non essere autobiografica in qualche modo: in alcuni passaggi solo idealmente, in altri in modo più calcato (il personaggio di Nicole e la sua storia, per esempio, hanno molto a che vedere con il carattere di Zelda, e nel raccontare le vicende più simili alla vita reale Fitzgerald dà spazio alla propria frustrazione e alla propria dignità attraverso la voce di Dick, che nel libro ha una sorta di ruolo da eroe, nonostante tutto). Anzi, pare che il logorarsi dei rapporti nella coppia d’oro dei roaring years sia dovuto in gran parte ai reciproci rancori per aver parlato troppo l’uno dell’altra al bel mondo e al pubblico editoriale – Francis Scott proprio con Tenera è la notte, Zelda con un romanzo parzialmente autobiografico completato all’interno dell’ospedale psichiatrico.
È per tutta questa serie di motivi che il romanzo di Fitzgerald appare davvero come una porta che dia direttamente sul suo mondo, sulla sua vita, senza troppi filtri, senza alcun manierismo (a meno che qualche verista neghi un po’ d’indulgenza a certi toni, distaccati nel raccontare il dramma e accoratissimi nel penetrare l’ennui dei personaggi), sempre comunque senza retoriche moraliste e senza cadute di stile, il quale viene mantenuto alto, purissimo e levigato come i cieli della Costa Azzurra sotto cui si apre il romanzo invitandoci a conoscere la bella società dei Fitzgerald. Inoltrarsi nel libro significa avvicinarsi scientemente alla trappola che sappiamo l’autore ha preparato per noi, quasi come se si trattasse per lui ormai semplicemente di sfruttare le proprie esperienze per divertirsi alle spalle di noi poveri ingenui, che non proveremo mai gli slanci metallici di un Novecento ancora acerbo, né la malinconia agrodolce di un’intelligenza dissipata tra amori, sbronze e segreti.
*Contributo edito su deSidera, anno II, Primavera 2013; http://desidera2012.blogspot.it/
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*Carlo Celebrin nasce a Treviso nel 1989. Dopo una formazione classica e la laurea a Venezia, si trasferisce a Bologna per proseguire gli studi in Geografia. Canta in un coro da camera, vende cappuccini, guida una bici con un pedale rotto. Appassionato di narrativa in tutte le sue forme, ha collaborato, fin dagli esordi del progetto, alla sezione letteraria di deSidera, rivista culturale nata in seno all’Università Ca’ Foscari.