Marco Simonelli ha all’incirca sei anni quando i Righeira presentano uno dei pezzi più celebri del loro repertorio al Festivalbar. Siamo nel 1985 e la canzone di cui stiamo parlando è L’estate sta finendo. Il brano, che approfitta di un noto adagio proverbiale, celebra una serie di immagini collettive: il tempo che passa, la necessità di diventare grandi e il ricordo di quegli incontri estivi che sono per tutti noi dei veri e propri riti di passaggio. 3:41 minuti di musica, il cui ritornello, sentito una volta, non te le scordi più. Non conosco persona che avendo ascoltato anche solo una volta il pezzo non si ritrovi a canticchiarlo non appena qualcuno se ne esce con quella frase. Come ogni icona che si rispetti, la canzone incarna lo spirito degli anni Ottanta italiani. Perché dei Righeira c’è poco da dire: a modo loro, sono stati uno dei prodotti migliori del loro tempo: pop, nel vero senso della parola. Lo ha capito bene Marco Simonelli, che ventisei anni dopo, approfittando di quel titolo, pubblica L’estate sta finendo (Leconte, Roma). Il libro, uno spin-off, o forse la quintessenza della raccolta Firenze Mare (XI Quaderno di Poesia Contemporanea, Marcos y Marcos), parla a distanza di anni di un tempo passato, di come si è diventati grandi, e del ricordo di incontri estivi che sulla soglia tra infanzia e adolescenza sono stati dei riti di passaggio: 32 pagine che lette una volta, vuoi “riascoltare”. Proprio così: L’estate sta finendo è una plaquette breve e ripetibile, di sole 8 poesie: sembra una tracciatura da LP. E quel che vale per i Righeira, si può dire di Marco Simonelli e della sua poesia: pop, nel vero senso della parola; basta leggersi l’inizio di Pretty Picture, poesia che apre la raccolta:
Si sciolsero i Soft Cell nel millenovecentottantaquattro
e questo è confermabile, lo dice wikipedia, è un fatto vero
come è vero che il synth-pop negli anni ‘80 contendeva
le vette d’ hit-parade ad internazionali megalomani melodici
ed è vero come è vera la tequila, il lemon soda, il tuo bicchiere
uno schermo di ghiaccio, di bottiglia da cui mi vedi a tratti
come dietro al vetro zigrinato di una doccia con qualcuno –
ed è vero come è vero che accendo una sigaretta dietro l’altra
solamente quando percepisco nell’ambiente un’insolita tensione.
C’è però un fatto, o forse dovrei dire un elemento, che interferisce: è quel «vetro zigrinato», proprio quello, da cui si intravede qualcosa, la proiezione non mediata del soggetto, intorno al quale la dimensione lirica prende a poco a poco forma, senza mai separarsi dall’accumulo simbolico di persone e oggetti che lo circondano: è questo che determina lo scarto rispetto alla definizione precedente. Anche perché, come dice Simonelli, le definizioni sono un «vizio che penalizza solamente il lettore». È questa una delle considerazioni “poetiche” contenute nell’intervista acclusa a L’estate sta finendo, la cui funzione paratestuale nel libro è tutt’altro che scontata, dato che apre la raccolta. E il modo in cui è strutturato il testo è altrettanto significativo, perché iconico: anche se, stavolta, senza «vetro zigrinato». Eppure il limite tra espressione poetica e semplice risposta è a volte difficile da cogliere, perché la proiezione non mediata del soggetto emerge in Simonelli tanto nell’intervista quanto nei versi. Faccio un esempio che spero non risulti ingiusto. Una risposta come «Me la immagino come la madre di “Profumi e balocchi”: egoista e ingioiellata, si accorge dei suoi figli solo quando è troppo tardi» (la domanda era Siamo figli dell’epoca ma l’epoca com’è?) ha la stessa consistenza del verso. Potrei andare avanti: Preferisci cosa?
Preferisco Dylan Dog a Tex Willer, Cyndi Luper a Madonna, i gatti ai cani. preferisco pensare alla scrittura a alla lettura come a qualcosa di inscindibile. Preferisco scrivere di cose che conosco. Preferisco leggere a letto piuttosto che in poltrona. Preferisco scrivere su un computer e non sprecare carta: preferisco i boxer agli slip.
Non si faccia, ovviamente, di questo specifico caso, aiutato per di più da una struttura anaforica evidente, una regola assoluta, né tanto meno la dimostrazione di qualcosa. Se è vero che la poesia richiede una «buona dose di genuino artigianato» e che la differenza tra verso e prosa è “preferibile” evitarla, allora è vero che in Simonelli è la cadenza del numerus a rendere possibile l’esperimento proposto. Ciononostante, se Pasolini aveva ragione a dire che la «prosa è la poesia che la poesia non è», L’estate sta finendo, con il suo verso lungo come prosa, con la sua prosa così versificata, consuona esattamente con una tale definizione. Si può tornare dunque al testo e vedere naturalmente come il ruolo del verso sia quello di potenziare una struttura ritmico-sintattica che misura le sue parti sul valore «predefinito» di una scrittura passata sempre al vaglio della lettura a voce alta:
All’ombra dei fanciulli che bulli ci fiorivano dappresso
abbuiati dai Cure e dai Bauhaus, soundtrack dei giorni insieme
se n’andava la speme a farsi benedire. Soffrire non serviva:
lasciva quella morte c’attirava, e bastava ascoltarla
commerciale in cassette duplicate, lasciarla musicale
che fosse look per intellettualoidi liceali e depressi come noi.
(Epicedio)
Il riferimento proustiano è qui rovesciato, perché la ricerca del tempo perduto si rapprende in Simonelli attraverso una serie di eventi traumatici: dei giochi innocenti di gelosia tra Marcel e Albertine non resta infatti nulla; i ricordi de L’estate sta finendo sono composizioni funebri. Si tratta di un medley del tempo che fu, il soundtrack verbale dell’«io» che si confronta con gli altri, vivendo in quel ricordo la propria morte: la dimensione corale si riduce infatti a un’esperienza da scontare. Ciò vale a dire che in quel «vetro zigrinato» non ci si può specchiare, perché Narciso muore innamorandosi degli altri che tenta di guardare. Il dolore inutile è quello provato da chi sa che la funzione dello schermo non deve nascondere, ma rivelare: se gli altri non riescono a vedere nulla più che il contorno del ragazzo nudo dietro la doccia, è proprio su quella soglia, laddove ci si spinge divenendo sagoma, contorno, che risiede l’unica possibilità di incontro: è il segreto degli spazi chiusi e bui, in cui si confonde l’identità di ognuno: «In realtà i pini sono solo una parte degli alberi presenti. Più d’una volta, insieme, si erano scambiati le mutande, guardandosi, il costume» (da L’ultimo giorno d’estate).
PS: Anche se non era esattamente il 22 settembre, mi assicura mia cugina che ancora quest’anno, al suo stabilimento balneare, dagli speaker del bagno la direzione ha messo su L’estate sta finendo per salutare la stagione. Saranno state le sette di sera. In Versilia, ossia nei luoghi della poesia di Simonelli. A quell’ora è ancora giorno. E come dice l’autore sulle «Cose da fare in pieno giorno»: «Di giorno si può anche scrivere: prima o dopo i pasti, fa lo stesso». E per il lettore? Diremmo noi: la stessa cosa, ma al contrario: «Di giorno si può anche leggere: prima o dopo i pasti, fa lo stesso». L’estate sta finendo, verso le 7, va bene.