Narrativa italiana/Recensioni

“Da grande voglio fare il poeta” di Giancarlo Consonni

di Giorgio Morale*

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Dallo zenith della vita… il cammino non è verso l’oblio… anzi verso la memoria… verso l’infanzia, la casa, la prima terra”. Così Cristina Campo ne Gli imperdonabili dà voce all’attrazione che suscita in noi l’infanzia. E se, parafrasando Tolstoj, possiamo dire che le infanzie sono tutte uguali, nel senso che uguali sono l’incanto e le scoperte di questa età – gli elementi naturali e il ciclo della vita, il sesso e la morte, le relazioni umane e le leggi della società – diversi sono gli spazi, i contesti, i tempi, le atmosfere e i colori, le forme che tali scoperte assumono, e i modi della narrazione, che esprimono, appunto, quanto in ogni infanzia c’è di singolare.

Con Da grande voglio fare il poeta  (La Vita Felice, 2013) Giancarlo Consonni ci affida un libro che merita di essere accolto nello scaffale dei più cari tra i libri sull’infanzia. Qui il luogo è la campagna dell’alto milanese, a Verderio, un hortus conclusus dove era possibile “essere padroni dello spazio e del tempo”; al tempo della storia qui narrata ancora uguale alla campagna dell’Ottocento, per lo più la stessa in Lombardia come in Russia. Il tempo è quello che dagli anni Cinquanta si spinge fino alle soglie del boom economico, che distruggerà quella costruzione di secoli in pochi decenni. Si tratta di un luogo e “un tempo in cui l’affabulazione era la regola”, poiché svolgeva una funzione educativa, sociale e terapeutica che l’autore pare voler riprendere con la sua opera; e in cui “il paesaggio era insieme condizione del vivere, cultura materiale e bellezza”.

Il libro che racconta questo luogo e questo tempo, insieme alla formazione del protagonista dall’infanzia all’adolescenza fino alla scoperta del gusto della lettura (con Pinocchio) e poi della vocazione poetica, conta poco più di un centinaio di pagine, ma con la sua ampia architettura si dilata a comprendere amorevolmente tutto un mondo. La storia personale è infatti armoniosamente inserita in una rappresentazione corale, aperta all’ambiente e alla società, con una vastità di sguardo tipica degli scrittori russi citati (Gogol, Turgenev, Tolstoj), così amati dal protagonista e i cui ambienti, egli dice, “spesso coincidevano o si fondevano con quello che potevo osservare alzando gli occhi”. Soprattutto colpisce la dimestichezza dell’autore con la natura, con piante e animali, e la capacità non comune di chiamarli per nome. Come per nome sono chiamati le fasi del lavoro dei campi e gli strumenti del lavoro, i mestieri, i materiali, gli alimenti, con un’attenzione alla lingua che è rispetto e cultura senza mai essere sfoggio o erudizione, nella consapevolezza che “veniamo al mondo non solo in un luogo ma anche in una lingua”.

L’amore per essi rende una vera delizia le rievocazioni dei luoghi, “di una  bellezza inimmaginabile per chi non l’ha conosciuta“, quelli naturali e quelli umani, a partire da quelli della prima formazione: l’osteria, la stalla, “il silenzio che si respira nei conventi”. E dai luoghi si distilla il lirismo contenuto di tanti momenti, come ad esempio la descrizione del granoturco e del frumento (“il frumento – se accosti l’orecchio – il suono di mille violini”), gli efficacissimi flash dedicati al saluto e al luogo (“il posto che ti è riservato nel mondo, il centro della vita”), i carri che quasi spariscono sotto i carichi di fieno, la scoperta della bellezza dei fiori e l’afasia susseguente: episodi che assurgono al rango di vere e proprie epifanie e ci ricordano che Consonni è autore di intensissime raccolte poetiche (Lumbardia, Viridarium, Vûs, In breve volo, Luì, Chiarìe).

La storia si conclude con il trionfo di trasformazioni e contraddizioni indotte dall’industrializzazione e con l’emergere delle incoerenze e “falsità della comunità”, che dai quindici anni in poi porteranno il protagonista a imbroccare la strada della critica e della ribellione destinate a diventare coscienza politica. Suggestive anche le anticipazioni con cui il narratore si spinge più in là dell’infanzia, al se stesso giovane e poi adulto, concludendo con il senso di un esilio che “si rivelerà alla fine come il disagio per tutte le situazioni in cui l’umano non è sorretto dalla tensione verso il suo compiersi”. Il libro diventa così da una parte “un canto di gloria alle opere e ai giorni”, come quello dell’allodola nel bel mezzo del lavoro agreste; dall’altra un commosso saluto da parte dell’adulto a un passato ormai inattingibile e a un senso del sacro alla cui disintegrazione si assiste nelle pagine finali.

La scrittura è sostenuta, sicura, meditata, nondimeno, come abbiamo visto, con dei picchi densi d’emozione; la narrazione tutta cose, rapida ma distesa e pacata nel dire e nella lingua. La sintassi, assai mobile, asseconda l’andamento della memoria: a volte secca e paratattica come per un’istantanea; a volte complessa e con ampie volute come per trasportare l’onda dei ricordi. Le riflessioni, che affiorano dal racconto senza nessuno scarto linguistico e totalmente narrativizzate, contribuiscono a dare oggettività alla voce del narratore. Il quale narra in prima persona e coincide con l’autore, ciononostante assume uno sguardo per nulla intimistico, interpretando l’invito di Robert Walser ne La rosa, che “in un libro in prima persona l’io debba apparire, dove gli è possibile, con la modestia di un personaggio, non con i modi di un autore”. Ciò avviene non per obbedienza tutta esterna a una poetica, ma per la spontanea adesione al senso condiviso della comunità, con cui l’esperienza personale è in perenne dialogo.

Un narratore-autore padrone della materia ed efficace nell’evidenziare problematiche storiche e culturali, quindi, facendosi di volta in volta geografo e geologo, urbanista, botanico e linguista. Nonché antropologo nel definire confini e rapporti tra città e campagna e una precisa idea di appartenenza; e storico nell’illuminare il tema della fine di un mondo: tema che riguarda anche noi, ora, perché l’indagine è condotta a partire dal presente e dal giudizio su di esso, dominato da “una motor city fracassona, sregolata, dissipatrice di energia e di energie”.

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jp*Giorgio Morale è nato ad Avola (Siracusa) nel 1954 e dal 1972 risiede a Milano, dove si è laureato in Filosofia e ha lavorato nel giornalismo, nel teatro e nella promozione culturale. Dal 1989 insegna Lettere negli Istituti di Istruzione Secondaria Superiore. Nel 2005 ha esordito nella narrativa con Paulu Piulu (Manni editori). Sempre per Manni, nel 2009 ha pubblicato Acasadidio. Fa parte della redazione de La poesia e lo spirito, per cui cura la rubrica settimanale vivalascuola.

 

 

 

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