Poesia/Saggi/Traduzioni

Il proprio spirito in un altro corpo

di Cristina Annino*

Conobbi la poesia di César Vallejo in occasione del primo esame di letteratura ispanoamericana all’Università di Firenze. Dovevo fare una comparazione tra lui e il nicaraguenze Rubén Dario. Poeti estremamente distanti tra loro, e non solo per i trent’anni di differenza anagrafica. Si trattava insomma di ripetere quel che avevo letto nei tanti saggi su Rubén Dario (ritenuto il fondatore del Modernismo e il più grande poeta di lingua ispanica, fuori dalla Spagna) tradotti in Italia e nell’unico volume disponibile, all’epoca, di tutte la produzione poetica di César, a cura di Roberto Paoli, pubblicato da Lerici nel 1964. In lingua spagnola, il volumetto di Luis Monguiò sulle opere e  vita di Vallejo, compreso nell’esame, esisteva già dal 1952.

C’era dunque, tra i due poeti, un’enorme sproporzione di notorietà che in parte continua anche oggi, per lo meno nel nostro paese. L’ultima riedizione dell’opera completa di Vallejo curata sempre da Roberto Paoli, per le edizioni Gorèe è stata pubblicata nel 2008 con la prefazione dell’ispanista Antonio Melis che, negli ultimi anni, ha scritto svariati saggi tenendo viva l’attenzione sul lavoro del poeta peruviano. Non mi sembra certo il caso, né potrei farlo in maniera competente, parlare qui criticamente di questo poeta. Darò dei brevi cenni solo per spiegare quale fu la mia reazione di allora al primo ed ultimo incontro con la sua poesia.

Egli aggancia a una potente scrittura il senso del proprio Io vasto e profondo. Un  Io che gli permetterà di rimanere “indio” in tutte la parti del mondo dove si trovò a soggiornare e poi a vivere mai contaminato da altre anime geografiche. Tale costante soggettività è, a tutti gli effetti, un io ecumenico che riesce a espandersi talmente da assumersi gran parte dei drammi del mondo, a cominciare dai  singoli umiliati dall’ingiustizia umana. Questa è la sola realtà che gli interessa, tanto che anche la drammatizzazione della propria persona fisica sarà per lui l’unico modo di partecipare  all’hermandad con il genere umano. Il suo corpo fragile, porterà fino alla morte l’enorme valigia del travaglio cosmico come un abito pesantissimo. Tale dolore senza consolazione, ha inglobato, nella sua opera, quasi tutta la contemporaneità di allora:  gli operai delle fabbriche peruviane, i rivoluzionari russi, la sciagura della guerra civile spagnola. Il suo io restando sempre  portatore di croce.

Attraverso il cuore, il corpo e le reazioni artrosiche del suo scheletro piangeranno di volta in volta due parti almeno della coscienza sociale europea. Leggendo per la prima volta César Vallejo, per me fu come vedere il proprio spirito nel corpo di un altro. Per certe soluzioni stilistiche, intendo.  Scrivevo ormai da tanti anni e seppi reggere l’urto, comunque mi turbò il fatto di condividere una sicura radice emotiva, e il modo di tradurre in poesia le piccole cose della vita quotidiana. Ritenni (come hanno affermato alcuni poeti e critici americani) che Vallejo fosse il più grande poeta dopo Dante, e al pari che in Dante,  vidi in lui  quella qualità di “porta chiusa”; di poeta cioè che non fa scuola, non genera; si può solo imitare. Quindi, da subito e doppiamente,  lo vissi come una sorta di rischio.

Cominciai allora a precisare ciò che avevo già realizzato nel mio cammino poetico; era ovvio che non potessi fare i conti con quelle due affinità (forse immaginate solo da me). Quasi tutto dell’opera vallejiana  mi era lontanissimo: ragioni storiche, proposito del progetto poetico; lui a suo modo poeta epico, visionario e quant’altro, eppure quel taglio di sguardo verso le cose apparentemente “basse” dell’esistenza, sua e altrui, quella compenetrazione quasi fisica di sé con esse che aveva caratterizzato un mio modo d’essere infantile, poi adolescenziale, riconfermatosi anche nella mia scrittura fin dall’inizio, ecco, ritrovarlo lì, in quelle pagine, mi sembrò un orgoglioso colpo di autentica sfortuna.

Iniziai, dunque, a guardare Vallejo solo dal punto di vista linguistico. Il flusso del linguaggio( pur tenendo presenti i moduli narrativi della tradizione poetica ispanoamericana) cominciò a sembrarmi ripetitivo; ebbi insomma la sensazione che il lessico, in alcune parti, girasse le sue figure retoriche in senso analogo a un suicidio verbale. Da un po’ nel mio progetto di scrittura si stava consolidando l’idea di un distacco o lontananza da ogni emozione; miravo cioè a rappresentare questa attraverso altri soggetti. Ora, ciò obbliga a togliere il più possibile patos psicologico esclusivamente personale a vantaggio dell’autonomia dei singoli personaggi. In  primo luogo decisi definitivamente che i sostantivi “morte, dolore”, in qualsiasi evento negativo,  non dovevano essere nominati. Era lastruttura dell’evento, a costruirne il senso e pertanto a nominarli; non viceversa.

Avevo inoltre considerato l’ironia come possibile elemento generatore di una  costruzione anche tragica. Non per eludere la verità comune che quasi sempre tragica è, ma per condurre questa, in un’operazione seria, a liberarsi della minaccia di un pensiero troppo opprimente. Quindi nel  percorso del mio lavoro parallelo alle letture vallejiane, mi convincevo sempre più che, per entrambe le mie esigenze, l’io doveva essere, in misura possibile, nascosto, perché costituiva una specie di specchio tra me e il testo. Intendevo con ciò separare l’esempio dall’idea, e finalmente non essere più il proprietario esclusivo della parola. Qualsiasi poesia, in tal modo, si rivelava più “vera”; come dire, finché si pensa una cosa, questa non esiste realmente in quanto sono io, a pensarla.

Considerando dunque l’ironia portatrice sana di due elementi: soggettivo e oggettivo, il linguaggio doveva ubbidire a delle articolazioni ogni volta diverse. Era dunque importante impiegare un idioma, cioè il materiale di un altro linguaggio, che non contraddicesse  le certezze della lingua definita primaria, ma fosse pieno di incertezze grazie anche alla perdita quantitativa del tradizionale sé. Sappiamo bene che dietro a  qualsiasi distacco esiste il nostro io nascosto, perciò ciascuna situazione descritta conteneva tutta la mia  forza emotiva, prosciugata però dell’eccesso di individualismo.

Pian piano dunque riuscii a  formalizzare quella che in anni successivi sarebbe diventata definitivamente una poetica. Altro rapporto di unione-distacco  è quello relativo all’amore filiale di Vallejo verso la madre.  Per César la madre è l’hogar, diventando in seguito hogar de los hogares,  sempre per quella espansione umanitaria più forte di quella personale. Quest’ultimo sentimento mi sembrò il più intenzionalmente sociale nell’identità ecumenica del poeta peruviano, in quanto non prevedibile. Mi parve addirittura una strumentalizzazione dell’accessorio. Mi sembrò che la tragedia non potesse avere gli stessi effetti su un mondo diversamente tragico. Se è vero che la coscienza propria del dolore dell’umanità, è personale e oggettiva insieme, a seconda di come viene gestita, l’amore materno è, a mio giudizio, ingestibile perché assolutamente privato. Non riuscivo pertanto a trovare variazione alcuna di senso tragico, nell’intera opera vallejiana. In questa infatti, la passione materna sale fino a ricoprire una territorialità etnica, perde ogni personalismo per diventare patria, radice, funzionale comunque al sistema tragico della sfera oggettiva,  privandosi pertanto,  di ogni connotazione intima. Egli ha finito col rendersi orfano sempre, per eccesso di passione umana; il suo gigantesco io lo priva alla fine di ogni soggettività, tanto che anche la sua l’orfandad reale, confondendosi nei connotati, viene  travolta  dall’ identico flusso linguistico. Il suo linguaggio e l’io mi parvero, così, ugualmente compressi da una immutabile estasi mitica.

Non ho mai ritenuto l’io di per sé assertivo o antagonista, e mai, tranne alcune occasioni, assolutamente necessario; l’io è un soggetto abbastanza debole, sminuito dal peso retorico del protagonismo o da  sensi colpa, e che c’entra ben poco con le vicende del mondo. Queste esistono quanto esiste la sfera intima di un autore, e il linguaggio deve, a mio giudizio, seguirle più che assumerle in sé, dando maggior spazio alle varie transazioni del pensiero. Se non si vuole, come nel mio caso, che il pensiero diventi mitologico.

Con ciò non voglio dire che Vallejo avesse cambiato in me, peso o grandezza, cosa impossibile essendoci tra noi una grande disparità di forza e differenze tematiche, ecc, ecc. Affermo solo che egli, dalla stretta e unica fessura possibile da cui potevo osservarlo in maniera distaccata, rappresentava in grado elevatissimo, qualcosa che da sempre, prima inconsciamente, poi  grazie a lui in tutta consapevolezza, tendevo ad eliminare: la misura in cui l’Io entra nell’ambiguità di simulacro quasi onnipotente dei fatti. Non saprei dire se la mia poetica, o parte di essa, si sarebbe sviluppata comunque così o invece sia dovuta alla ricerca di una sempre maggiore distanza tra Vallejo e me. Come oggetto per la tesi di laurea scelsi tuttavia di esaminare la parte prosastica del poeta peruviano, a mio giudizio la meno risolta, ma dove l’io era secondario alla descrizione di fatti reali, quali, per esempio, alcune situazioni narrate nei  racconti e il breve romanzo sulle miniere di Tungsteno.

Questa, in sintesi, è la lezione che César, malgré sois, mi ha concesso.

***

Los Heraldos negres (da “Los Heraldos Negros”, 1919)
Hay golpes en la vida tan fuertes…Yo non sé!
Golpes como del odio de Dios; como se ante ellos,
la resaca de todo lo sufrido
se empozara en el alma….Yo no sé!
Son pocos, pero son…Abren zanjas oscuras
En el rostro más fiero y en el lomo más fuerte,
Serán tal vez los potros de barbaros atilas;
O los heraldos negros que non manda la Muerte.
Son las caidas hondas de los Cristos del alma,
de alguna fe adorable quel el destino blasfema.
Esos golpes sangrientos son las crepitaciones
de algún pan che en la puerta del horno se nos quema.
Y el hombre….Pobre…pobre!  Vuelve los ojos, como
cuando por sobre el hombro una palmada;
vuelve los hojos locos, y todo lo vivido
se empoza, come un charco de culpa, en la mirada.
Hay golpes en la vida, tan fuertes….Yo no sé!

***

Gli araldi bruni

Ci sono colpi nella vita, così forti….Che so io!
Colpi quasi Dio ci odiasse, quasi dinanzi a loro
la risacca di quanto si è sofferto
ristagnasse nell’anima…Che so!
Sono pochi ma sono…Aprono solchi scuri
sul volto più gagliardo, sulla schiena più forte:
Sono forse i corsieri di Attila barbarici
o i messaggeri bruni che ci manda la Morte.
Sono dei Cristi dell’anima le cadute profonde,
di una fede adorabile che il Destino bestemmia.
Questi colpi cruenti sono le scoppiettate
di un pane che ci brucia sulla soglia del forno.
E l’uomo….sventurato! Gira i suoi occhi come
quando sopra le spalle ci percuote una mano;
gira i suoi occhi folli e tutta la sua vita
ristagna, in una pozza di colpa, nello sguardo.
Ci sono colpi nella vita, così forti….Ché so io!

***

El alma que sufrió de ser su cuerpo (da “Poemas Humanos”, 1938)

Tú sufres de una glandula endocranica, se vé,
o quizá,
sufres de mí, de mi sagacia  escuta, tácita.
Tu padeces del diáfano antropoide, allà, cerca,
donde está la tiniebla tenebrosa.
Tú das vueltas al sol, agarrándote al alma,
extendiendo tus juanes corporales
y ajustándote el cuello; eso se ve.
Tu sabes lo que te duele,
lo que te salta al anca,
lo que baja por ti con soga al suelo.
Tú, pobre hombre, vives: no lo niegues,
si muore; no lo niegues,
si muore de tu edad ay! y de tu epoca.
Y, aunque llores, bebes,
y anque sangres, alimentas a tu hìbrido colmillo,
a tu vela tristona y a tus partes.
Tú sufres, tú padeces y tú vuelves a sufrir horriblemente,
desgraciado mono,
jovencito de Darwin,
alguacil que me atisbas, atrocísimo microbio.
Y tú lo sabes a tal punto,
que lo ignoras, soltàndote a llorar.
Tú, luego, has nacido; eso
también se ve de lejos, infeliz y cállate,
y soportas la calle que te dió la suerte,
a tu ombligo interrogas: dónde? Cómo?
Amigo mío, estás completamente,
hasta el pelo, en el ano treinta y ocho,
nicolás o santiago, tal o qual,
estés contigo o con tu aborto o con
migo
y cautivoen tu enorme libertad,
arrastrado por tu hércules autónomo….
Pero si tú calculas en tus dedos hasta dos,
es peor; no lo niegues, hermanito.
Que no? Que sí, pero que no?
Pobre mono!….Dame la pata!….No. La mano, he dicho:
Salud! Y sufre!.

8 nov.1937

***

L’anima che soffrì di essere il proprio corpo

Tu soffri di una ghiandola endocrina, si vede,
o, forse,
soffri di me, della mia schietta, tacita sagacia:
Tu patisci del diafano antropoide, là, vicino,
dove sono le tenebrose tenebre:
Tu giri intorno al sole, afferrandoti all’anima,
estendendo i tuoi calli corporali
e aggiustandoti il colletto: lo si vede.
Tu sai cosa ti duole,
cosa ti salta all’anca,
cosa ti scende per la corda al suolo.
Tu pover’uomo vivi; non negarlo,
se muori; non negarlo, se -ahimè-
della tua età tu muori e del tuo tempo.
E, pur piangendo, bevi
e, pur sanguinando, nutri la tua ibrida zanna,
la tua candela mesta e le tue parti.
Tu soffri, tu patisci e soffri ancora orribilmente.
disgraziata scimmia,
giovinetto di Darwin,
sbirro che mi stai spiando, microbo atrocissimo.
E tu lo sai così bene
che lo ignori, mettendoti a piangere.
Tu dunque sei nato; anche
questo si vede da lontano, infelice e…taci!,
e sopporti la vita che ti ha dato la sorte,
al tuo ombelico chiedi: dove? come?
Amico mio, tu sei completamente
fin sopra ai  capelli nell’anno trentotto,
tu sia giacomo o pietro, tizio o caio,
tu sia con te, col tuo aborto o con
me
ed in tua enorme libertà recluso,
trascinato dal tuo ercole autonomo…..
Ma se conti le dita fino a due,
è peggio; non negarlo, fratellino.
No? Sì; ma no?
Povera scimmia!……Dammi la zampa!…..No. La mano, ho detto:
Salute! E soffre.

8 nov. 1937

(traduzione di Roberto Paoli, in Poesie di César Vallejo, Lerici, 1964)</>

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*Cristina Annino, nata ad Arezzo, vive e lavora a Roma. Si laurea in Lettere moderne a Firenze (dove svolgerà un brevissimo assistentato) con una tesi su César Vallejo. Scrive già nella prima infanzia, suscitando la stima dell’allora vecchissimo Corrado Govoni e di Giuseppe Ungaretti. A Firenze frequenta i caffè letterari Paszowski e il San Marco sede allora dei giovani avanguardisti del Gruppo 70, entrando in anni successivi in contatto con Franco Fortini, Giovanni Giudici, Guido Alamansi, Giovanni Raboni, Antonio Porta, Elio Pagliarani ed altri. Dal 1969 ad oggi pubblicherà 10 libri di poesie e un romanzo; attualmente si dedica anche alla pittura. Dopo Chanson Turca, edito nel 2012, sta lavorando al prossimo libro di poesie.

22 thoughts on “Il proprio spirito in un altro corpo

  1. Vallejo, un poeta che ho iniziato a scoprire da poco, grazie a un volumetto del Corriere della Sera, sembra strano ma a volte la buona poesia corre su binari imprevisti e imprevedibili. Mi sembra ovvio che la compenetrazione dell’opera di un altro autore in qualche modo, conscio o inconscio, arricchisca la poetica dell’altro autore, in questo caso se pure da lettore di provincia e con tutti i limiti del caso, questo studio non può non averti arricchita. Complimenti per l’articolo, chiunque lo leggerà son certo, se non lo conosce già, andrà a scoprire un autore che è stato grande.

  2. Il percorso di lettura tracciato da Cristina Annino lungo la poesia di Vallejo, le sue linee principali – l’Io vasto e profondo, la coerenza al proprio “essere indio”, la centralità di hermandad e orfandad, la madre come hogar de los hogares – così come la coraggiosa e scomoda visuale scelta, dopo il riconoscimento di un “orgoglioso colpo di autentica sfortuna”, costituisce robusto conforto per chi vuole avventurarsi nel viaggio di scoperta di un grande autore che è stato tradotto, in Germania, da un altro grande autore, Enzensberger.

  3. Non sorprende che un poeta come Annino abbia dovuto lottare incontrando la scrittura di Cesar Vallejo (con Dante dobbiamo farci i conti tutti, e la lotta speciale di Annino contro Dante sarebbe un altro discorso che qui non si puo’ aprire). Nei testi di Vallejo c’e’ un Io che distorce e deforma e manipola, sotto la maschera della compassione universale, e in tal senso controlla la scrittura e il lettore. E Annino giovane, scoprendo la propria maturita’, o per meglio dire diventando consapevole che la propria scrittura era *nata matura*, come deve essersi sentita imbattendosi in un’altra voce che aveva raggiunto una analoga maturita’, quella della eliminazione del lirico e dell’intimo in poesia? Dante era abbastanza ingombrante in tal senso, ci mancava pure questo moderno! Eppure un paradosso del mondo in 3D come lo conosciamo e’ c’e’ sempre spazio per la grandezza (sono i poeti piccoli che sono di troppo per quanto poco spazio prendano). Il pensiero va al resto di noi tutti che ora dobbiamo fare i conti con Dante (passi), Vallejo (possiamo farcela, perlomeno chi non scive in Castigliano) e ora pure Annino! Che ancora scrive!

  4. è davvero raro che Cristina affronti criticamente in rete un tema o un autore a lei cari. Questa sua lettura è preziosa appunto perché ci aiuta ad entrare ancor più nel suo laboratorio assai originale e complesso, tanto che Bertoni, nella sua ultima antologia sulla poesia italiana, non l’ha compreso! Come si fa ad ignorare una poetessa come la Annino, il cui percorso è unico, ma centrale e sta nutrendo le nuove generazioni molto più di quanto sembri.

    un caro saluto a tutti

  5. Ecco quella che considero un modello di lezione in poesia (lezione magistrale?) perché proveniente da un poeta (lascio il genere maschile prediletto dall’autrice) come la Annino, che con grande autoironia addirittura mi dice di non leggere poesia contemporanea per noia e per evitare influenze…(cosa cui mi permetto di non credere, preferendo pensare che faccia una ferocissima necessaria selezione delle sue letture poetiche) ma che qui generosamente descrive il processo di perfezionamento del proprio cammino, realizzatosi proprio nel confronto con l’opera del grande Vallejo, in cui s’imbatte da giovane.
    Dai fuochi comuni che lei riconosce nell’opera del grande sudamericano, emergono temi cruciali per ogni cammino poetico, percorsi con grande spessore di riflessione, come l’io ecumenico, la presa in carico del dolore cosmico, quella predilezione per le”cose basse” dell’esistenza, il distacco dall’emozione, la decisione di rappresentare pensiero e realtà nascondendo l’io, attraverso altri soggetti… Sono tutte pietre miliari, snodi che ogni autore di poesia dovrebbe fortissimamente meditare prima di congedare la propria scrittura come definitiva. Grazie allora per questo dono, Cristina (e dunque leggere altri, per caso o elezione, non è temp perdu…)
    Annamaria Ferramosca

  6. Grazie Annamaria e grazie a tutti per la qualità dei commenti. Mi permetto di intervenire per fare chiarezza, spero definitiva, sulla mia condotta diciamo, di lettore. Io non leggo libri di poesia dei miei contemporanei, se non quando decido di prefarli o recensirli, cosa assai rara, o quando un amico che stimo molto mi consiglia di leggere un suo testo. Non leggo per lo stesso motivo per cui non vado al cimitero, essendo questo l’unico luogo in cui sono certa di non trovare nessuno. Le persone amate stanno altrove, nella vita; così anche la poesia che io cerco non sta nella poesia altrui. Ciò non esclude che esistano attualmente grandi poeti, però non saprei cosa potrebbero darmi. Loro restano grandi, io vado per la mia strada.
    Precisato questo, Anna maria, io Vallejo non l’ho letto, l’ho studiato perché testo obbligatorio di un esame. Terminata la prova, non ho più rivisitato le sue poesie e la tesi di laurea decisi di farla sulle prose, come ho spiegato sopra. Quindi il mio atteggiamento di “non lettore” non nasce da una pretesa di originalità o snobismo, bensì da un preciso “atto di fede”. La poesia non la cerco dove non sta, ripeto di proposito, la poesia mia si risolve tra me, il mondo e la vita.
    Nell’età formativa, dai 14 ai 30 anni, ho letto molte pagine di poeti classici, preferendo però la prosa. Poi ho deciso che tutto ciò che ancora potevo leggere sarebbe stato -per quanto riguardava la “mia” sfera creativa- infinitamente inferiore a ciò che il cervello mi poteva far capire pensando ed elaborando la realtà a modo suo. Tutto qui; non vedo come una scelta di questo tipo irriti o non venga creduta o sembri un atteggiamento di superiorità.

    Grazie a tutti.

  7. Per il poco o niente che può interessare, ma per rendere più corretta la risposta, vorrei aggiungere a “Terminata la prova”, la frase ” e stabilitasi ormai la mia poetica…” Inoltre, sostituire “infinitamente inferiore” con “decisamente meno utile”.
    Grazie di nuovo e un caro saluto.

  8. Io tra i 14 e i 20 mi son letto l’odissea, poi per disintossicarmi un’intera collana di urania e qualche rivista porno, adoravo Claudio Lolli ma non disdegnavo Rocky Balboa, penso che per gli ignorantoni del mio calibro un articolo come questo sia un bel dono per cui ringraziare l’autrice e chi ha messo a disposizione lo spazio. Non è mai troppo tardi…

  9. A prima vista e superficialmente qui parrebbe di trovarsi di fronte a un poeta che trovando poetico il mondo non sente bisogno di leggere la poesia dei poeti. La poesia dei poeti però viene anche quella dal mondo attraverso il loro cervello (o forse viene dal loro cervello, che comunque del mondo fa parte). Allora perché non averne interesse?

    Leggendo meglio, il problema apparente nasce dal fatto che per questo poeta la lettura e la scrittura sono legate a filo doppio. Ogni lettore legge ciò che ama – eccetto quando si legga per dovere (studenti) o per professione (critici) e qui anche questo poeta non fa eccezione, dato che ci dice d’essere stato studente, e che legge poesia per scrivere recensioni o prefazioni o commenti) – ma non tutti i lettori sono scrittori. Lo scrittore Annino però ci dice anche d’essere avido di letture che nutrano la sua poesia e che per questo decide di leggere il mondo, direttamente osservando e vivendo e poi magari anche leggendo, magari agiografie, enciclopedie, enigmistica o cataloghi, o minute o racconti o liste o romanzi (queste cose me le immagino io), ma non poesia. Lo scrittore Annino quindi non è un lettore che legga poesia per diletto. Legge poesia per professione. E non è il solo a farlo anzi probabilmente chi legga poesia per diletto è una minoranza. Per me è plausibile.

    La sola domanda però che mi resta è al riguardo di quel dice un personaggio di Kid, uno dei racconti (inediti) di Annino apparsi in

    http://www.anteremedizioni.it/node/2157/contro_lo_spirito_del_tempo_il_sostegno_di_anterem_0

    “Finché, per esempio, stimerai un grande architetto, ecc, qualunque fenomeno che ti sembri sul serio un fenomeno, non farai grande letteratura. Devi spellarlo vivo per guardargli bene le bucce e quando gli avrai trovato il punto debole sarai sulla buona strada. Ogni grande talento è un bravo scassinatore. Il più abile scassinatore delle proprietà altrui è il più grande artista.”
    (…)
    “Il Metodo è ogni metodo degli altri. Qualsiasi attività altrui è la tua professione. La letteratura è ciò che sanno fare gli altri, ma tu devi farlo meglio di loro perché sorvegli anche tutto il resto e contemporaneamente.”

    E la domanda è: fino a che punto possiamo ignorare la moderna distinzione tra l’autore del racconto e il personaggio del racconto? E cosa ci dice allora il racconto riguardo alla tradizione e al talento individuali, per rubare un titolo a TS Eliot? Chiediamolo all’autore!

  10. Chiarissimo, ora, Cristina. “la poesia che io cerco non sta nella poesia altrui. Ciò non esclude che esistano attualmente grandi poeti, però non saprei cosa potrebbero darmi. Loro restano grandi, io vado per la mia strada.”
    Devi scusarmi, ma non avevo compreso questa tua scelta, che rispetto, ma che non condivido. Per quel che può interessare, sento da sempre di voler leggere poesia per le universali note ragioni di esigenza di bellezza e di assoluto e per altre misteriose e inconsapevoli, tra cui forse anche la speranza e la sorpresa , come a te è accaduto, di “trovare il proprio spirito in un altro corpo ”. Avverto poi forte l’essenza comunicazionale della parola poetica… Ma forse questo non è lo spazio per dibattere questo tema, meglio lasciar spazio alla riflessione sulla tua– per noi molto preziosa – lettura di Vallejo.
    Un caro saluto a te e a tutti di samgha,
    annamaria

  11. Basta leggere anche solo parte dei versi di Vallejo per capire cosa ha attratto Cristina e qual è la sostanza profonda che li fa fratelli: è la passione e lo sgomento di fronte a le terrible object, non della morte, ma del dolore, della crudeltà e ferocia interconnessi con la vita e il mondo…è di fronte a tale (ricerca di) misura che l’identità soggettiva va oltre l’Io, si scioglie e ha bisogno della con-fusione con l’altro, dall’amore pù intenso alla fraternità più adiacente, che non annullano la specificità ma la esaltano e spingono a trovare il proprio linguaggio (che è un singolare plurale, perché il linguaggio algoritmico che traduciamo sulla pagina distilla i tanti linguaggi che ci costituiscono) come pelle del proprio corpo – che è corpo del Sé, già molteplice e non tendenzialmente monadico come l’Io.
    Centralizzando il Sé – cercando di superare i limiti dell’Io, guai se eludessimo la domanda quale soggetto scrivente?, qual è l’operatore della scrittura che con essa incarna l’esperienza e i bisogni umani che la generano? E’ la molteplicità dei linguaggi del Sè che impone – per me – di dare pari dignità, fraternità e accoglienza a ciascuno di tali linguaggi (dei sensi, delle emozioni, dei sentimenti e della luce raziocinante), per cui da anni ho parlato – non so quanto trasmesso – di Adiacenza, intra e inter soggettiva, sorta di messa a fuoco tra distanza e vicinanza, ai fini di quel percorso di “comunicazione non di linea” di cui parlava Antonio Porta.
    Scommessa necessaria quanto difficile, che è la misura messa in atto dalla grande poesia con la complessità e col tragico. L’alternativa – sempre per me – è garanzia di cadere in vaneggiamenti misticheggianti o in ornamenti dolciastri, in esercizi di pasticceria o di gelidi laboratori. Rive che tanti amano, ma che evitano quella misura.
    Cristina, come sa chi ha provato a interagire con i suoi testi, cerca altro, dando forme alla necessità di aderire alle pieghe del suo corpo. Offrendo aperture che sollecitano il moto di conoscenza, come con questo racconto della sua interazione con la poesia di Vallejo – che esercita una forte spinta a conoscerlo di più. In ogni caso, il confronto con lei, come persona e come testi, ha sempre prodotto spinte ad aderire meglio al mio. Anche o soprattutto per merito delle differenze con la sua impostazione, che qui non è sede adeguata per discuterne. Ma le differenze, se non sono declinate con hybris e arroccamenti, diventano salto amoroso e lievito di virtude e conoscenza, prima di tutto del proprio Sé. E questo deve fare, per me, la poesia.

  12. @ Ringrazio Stefano Guglielmin, uno dei maggiori conoscitori della mia poesia e grande poeta, a mio giudizio e non solo mio. Al suo libro “Bufera dentro la madre”, ho fatto la prefazione, studiandolo, quasi quanto l’opera vallejana. Grazie, Stefano, del commento altamente gratificante.

    @Adam Vaccaro, che con il suo libro “Ricerche e forme di Adiacenza” del 2001, tocca il punto focale dell’epistemologia contemporanea. (Sono orgogliosa di esere uno degli autori presi in esame). Anch’egli poeta di calibro soprattutto con “La piuma e l’artiglio”, poesia di acuta forza morale oltre che stilistica. Ti ringrazio per essere stato così penetrante nella lettura del mio saggio.

    Sono grata ad entrambi e li ho uniti nel mio ringraziamento, perché a loro mi lega fortunatamente un’ amicizia decennale, ma anche perché entrambi, con impegno esemplare, portano avanti, in modo diverso ma eccellente, una rigorosa militanza critica.

    Cristina.

  13. @adam vaccaro
    Magnifica sintesi! apprezzabilissime conclusioni, prfino sostinuendo il termine ‘poesia’ con quello di ‘arte’. Ho trovato decisivo principio della ‘con-fusione’ e puntuale la distinzione operata da Adam:Scommessa necessaria quanto difficile, che è la misura messa in atto dalla grande poesia con la complessità e col tragico. . Nella poesia che non tiene conto della possibilità di deriva, per la quale la confusione creativa può degenerare in manipolazione di significati, vedo anch’io i rischi di una degenerazione espressiva in cui la ‘fusione’ , o compenetrazione reciproca delle diversità, può scantonare in ‘contaminazione’ ,cioè nell’appiattimento dei significanti su un modello indotto o imposto. Ciò accade in genere quando la poesia si allinea ai parametri omologanti e alle accezioni suggerite dall’ideologia. E poi c’è chi dice che la letteratura (poetica) non sia discriminabile in senso qualitativo.

    • Senza ciu-ciu dolciastri, sono felice di quanto confermato da Cristina (compreso l’abbinamento con Stefano) e di quest’ultima condivisione così ben articolata da Fabio Painnet. Sappiamo bene che la moltitudine odierna di coloro che scrivono, spesso si legge e comunica ben poco al proprio interno. Senza poi un pubblico, il circuito tende a svolgersi in termini intimistici, autoreferenziali e monadici, tra arroccamenti di singoli e di gruppi, con relative code epigonali e sgomitamenti autopromozionali. Naturalmente parlo delle tendenze prevalenti, in cui non è certo facile evidenziare la poesia che mi auguro rimarrà, Ma il tutto tende a produrre meno l’immagine di ricchezza di specificità autentiche che interagiscono moltiplicando sensi e rete di una società letteraria viva, di più quella di una confusione (questa volta senza trattino, di cui parla anche Fabio), povera di conoscenza condivisa. E’ uno dei problemi dello stato attuale. E sono perciò preziosi coloro che riescono a farlo con passione e impegno serio.

  14. A prima vista e superficialmente qui parrebbe di trovarsi di fronte a
    un poeta che trovando poetico il mondo non sente bisogno di leggere la
    poesia dei poeti. La poesia dei poeti però viene anche quella dal
    mondo attraverso il loro cervello (o forse viene dal loro cervello,
    che comunque del mondo fa parte). Allora perché non averne interesse?

    Leggendo meglio, il problema apparente nasce dal fatto che per questo
    poeta la lettura e la scrittura sono legate a filo doppio. Ogni
    lettore legge ciò che ama – eccetto quando si legga per dovere
    (studenti) o per professione (critici): e qui anche questo poeta non fa
    eccezione, dato che ci dice d’essere stato studente, e che legge
    poesia per scrivere recensioni o prefazioni o commenti) – ma non tutti
    i lettori sono scrittori, questo è il punto! Lo scrittore Annino ci dice anche
    d’essere avido di letture che nutrano la sua poesia e che per questo
    decide di leggere il mondo, direttamente osservando e vivendo e poi
    magari anche leggendo, magari agiografie, enciclopedie, enigmistica o
    cataloghi, o minute o racconti o liste o romanzi (queste cose me le
    immagino io), ma non poesia. Lo scrittore Annino quindi non è un
    lettore che legga poesia per diletto. Legge poesia per professione. E
    non è il solo a farlo, anzi probabilmente chi legga poesia per diletto
    fa sempre parte di una minoranza. Per me quel che dichiara il poeta riguardo le sue letture è dunque plausibile.

    La sola domanda però che mi resta è al riguardo di quel che dice un
    personaggio di Kid, uno dei racconti (inediti) di Annino apparsi sul sito di Anterem:

    “Finché, per esempio, stimerai un grande architetto, ecc, qualunque
    fenomeno che ti sembri sul serio un fenomeno, non farai grande
    letteratura. Devi spellarlo vivo per guardargli bene le bucce e quando
    gli avrai trovato il punto debole sarai sulla buona strada. Ogni
    grande talento è un bravo scassinatore. Il più abile scassinatore
    delle proprietà altrui è il più grande artista.”
    (…)
    “Il Metodo è ogni metodo degli altri. Qualsiasi attività altrui è la
    tua professione. La letteratura è ciò che sanno fare gli altri, ma tu
    devi farlo meglio di loro perché sorvegli anche tutto il resto e
    contemporaneamente.”

    E la domanda è: fino a che punto possiamo ignorare la moderna
    distinzione tra l’autore del racconto e il personaggio del racconto? E
    cosa ci dice allora il racconto riguardo alla tradizione e al talento
    individuali, per rubare un titolo a TS Eliot? Chiediamolo all’autore!

  15. Grazie, Pietro, per questo riferimento al mio racconto. E’ un preciso alibi a quanto sostenuto in risposta al leggere o non leggere poesia.
    Premettendo che non mi diletto degli esempi da te riportati (mai fatto), anch’io sfoglio qualcosa è ovvio, ma di diverso. Sono convinta che il lettore anche colto, cerca nella poesia la gratificazione di ciò che lui è, o una certa bellezza in cui fondersi. E fa bene, desidera inoltre perdersi nella supposta fratellanza e riconferma di parola. La fratellanza di parola io la cerco in chi non ce l’ha, tentando di sovvertire una priorità di cui non si degna il mondo appunto “cattivo”. Non credo affatto che il mondo sia poetico, il mondo per me è ciò che accade, nient’altro. E quel che accade è sotto gli occhi di tutti. Né ritengo che chi scriva a un certo livello abbia il proposito di trasferire su carta, la convinzione di una “realtà” vissuta come poetica. Cosa vuol dire, poi, quest’aggettivo tanto ambiguo e direi scorretto; cosa significa”poetico”?

    Allora, tutto il problema, se vogliamo chiamarlo così, si risolve tra “identità” ed “estasi”. Lascio la seconda ai lettori anche colti, mi prendo la prima; ciò presuppone, essendo io un autore, lo scardinamento dei metodi altrui cui acennavi e che affermo nel racconto. Ogni racconto si sa, arrotonda, non puoi metterci dentro una cruda idea di poetica, ma già in Kid, parlo dei vari metodi altrui (degli “altri”, cioè, non degli altri poeti) che mi interessano, tra i quali quello della montatura dei film, persino del sistema lavorativo delle api, dell’arte figurativa, aggiungo dello sport, -tu che hai letto il racconto- di quelli cioè che chiamo “modi”, (la lista sarebbe infinita), insoma di tutto ciò che riesco a vedere vivendo. La vità, cioè quel pezzo di realtà concessaci, questa sì, va “scassinata” bene per imparare a conoscere se stessi e il mondo. Senza però mai estasi, che genera comunicazioni banali, secondo me, intime, non interessanti a livello di elaborazione artistica; se sei un autore e non un lettore colto. Ed ecco l’identità come alternativa all’estasi, e che fa la differenza. E che anche risponde alla tua domanda finale. L’ideantità è per me una somma di furti legali che hanno per oggetto la vita altrui e i meccanismi ecologici che governano il mondo. I libri, almeno nel mio caso, non c’entrano un bel niente. L’autore è sempre individuabile, nessuno “ruba” con lo stesso metodo e le stesse sostanze vitali.Di che potremmo parlare altrimenti, in poesia: di altra letteratura? Formulare cioè un pensiero secondario e non proprio?

    Grazie del tuo intervento interessante.

  16. -Dalla replica di C. Annino ad A. Ferramosca-
    La capacità ” evoluta” di -non imparare la storia, compresa quella della letteratura, –
    dà forza e rende necessario il contributo di C. Annino alla comprensione di queste.

    Bella lezione su César Vallejo
    ” L’io è un soggetto abbastanza debole, sminuito dal peso retorico del protagonismo o dai sensi di colpa.”
    Mi vien voglia di conoscere più a fondo la sua opera.
    Grazie.

  17. Prendo sempre nota, leggendo, sulla sorpresa che la Annino è, in poesia sempre, e non solo. Non conosco l’opera di Vallejo – il suo “orfanismo” (l’estasi mitica) ritrovato nel testo del(la) poeta e dal suo sguardo a “fessura” attentissimo – e non all’io poetico, per l’appunto, magari a ciò che lo incontra – e tocca – o forse irrimediabilmente sorprende, anch’esso e fa riflettere – anche sulla “direzione” non tanto sul “senso”. Leggerò Vallejo, grazie all’Annino e la sua tesi. Saluti, Giampaolo Dp

  18. Affascinante e denso di implicazioni psicoanalitiche e filosofiche il contributo di Cristina Annino. La poetica di Vallejo da una prospettiva perturbante e un occhio critico estetico acuto e acuminato. Molto interessanti le riflessioni sull’ironia come cesoia del linguaggio confortato e consolidato dal pensiero “forte”. La condizione di orfano, senza alcun riparo emotivo, esistenziale, trovo sia l’intima essenza per un’empatia vera, senza filtri e costruzioni ideologiche, che un vero artista può conoscere al di là del riscontro biografico.
    Saluti a tutti, Luigi

  19. Gli araldi neri

    Ci sono colpi nella vita, così forti… Che ne so!
    Colpi come dall’odio di Dio; come se davanti a loro
    la risacca di tutto il sofferto
    s’appozzasse nell’anima… Che ne so!

    Sono pochi, ma sono… Aprono solchi oscuri
    sul volto più fiero e sulla schiena più forte.
    Saranno forse puledri di barbari attila
    o gli araldi neri inviati dalla morte.

    Sono le profonde cadute dei Cristi dell’anima,
    di qualche fede adorabile che il destino bestemmia.
    Quei colpi sanguinosi sono crepitii
    di un pane che sulla bocca del forno ci si brucia.

    E l’uomo… Povero… povero! Gira gli occhi, come
    quando sopra le spalle, una manata ci chiama;
    gira gli occhi folli, e tutto il vissuto
    si appozza, come stagno di colpa, nello sguardo.

    Ci sono colpi nella vita, così forti… Che ne so!
    (da “Poeti ispanoamericani contemporanei” a cura di Marcelo Ravoni e Antonio Porta, Milano, Feltrinelli, 1970)

    A te cara Cristina fare un confronto, amalgamare le traduzioni, trovare il ritmo dallo spagnolo all’italiano, da poesia a poesia.
    (Comprendo perché Antonio ti leggeva con molta molta attenzione – e aveva ragione)

  20. Ah, Rosemary! indubbiamente la traduzione di Antonio è “quella degna”, per
    Vallejo; ma quando osai dire (qui posso osare) in sede di discussione di tesi, che Paoli non aveva mai penetrato i testi, spesso non li aveva neppure capiti, mi abbassarono il voto di laurea. Che vuoi farci? Non vorrei ora tirare giù il cielo, ma ne sono ancora convinta.

    Grazie del tuo inervento che compensa i pesi.

    Cristina con affetto.

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