Inside/Out/Speciali

Dentro fuori

di Sebastiano Aglieco

Ho visitato la casa di Karen Blixen molti anni fa, nel corso di un viaggio in Danimarca. Mi stupì di quel viaggio  – era il primo di tanti intrapresi successivamente nei paese del Nord – il rapporto strettissimo tra la luce delle stagioni estive e la pochissima ombra degli interni delle case. Mi ricordavo, per contrasto, le case della Sicilia, dove invece, gli interni, a dispetto di quanto si possa pensare, si avvitano su se stessi creando le condizioni per far apparire i piccoli dei protettori che sempre dovrebbero abitare i focolari. E tutta la mia infanzia è attraversata dal ricordo di donne vestite perennemente a lutto, di anziane nerissime riunite a cerchio, le ante delle finestre abbassate, quasi per vergogna…  Ecco, mi stupì di quel viaggio la dimensione di una luce che non nasconde, che gioiosamente si celebra, invece,  nella breve fioritura dei campi estivi, e che è accolta in funzione di primitiva architettura, di naturale cerchio da abitare.

Karen Blixen riposa nel grande parco che circonda la sua casa sotto l’ombra di un grande tiglio. La semplice lapide ricorda quella degli ultimi papi nella cripta di san Pietro in Roma, ad evocare quella semplicità che è tutta un traguardo del novecento; una semplicità complessa, non naturale,  raggiunta in funzione di un’estetica che corteggia la morale; o aristocraticamente,  la moda. Un atto, diremo ancora, che non ha niente a che fare con la rinuncia alla mondanità, al lusso. E’ la dimostrazione, in forma di semplice scultura, dell’enigma irrisolvibile del trapasso, che in questo caso avviene non lontano dalle mura dell’urbe, ma, anzi, nello stesso perimetro della casa dei vivi. La casa dei vivi, nel suo negativo di luce, è diventata la casa dei morti.

Il fatto è che la Storia, la noiosa Storia, ama sintetizzare in poche righe, un gesto complesso, mai portato totalmente a compimento; renderlo sintomatico, riassumerlo davanti ai vivi, prima che tutto si faccia vento.  L’atto esemplare, quello che ricordiamo di noi, è solo la frase che la nostra mano, o più realmente, qualcuno per noi, ha selezionato a caratteri cubitali. E’ la scritta commemorativa che rimane, e che ci riassume. Noi diventiamo l’essenza di noi stessi: il nome, e una frase che ci ha rappresentati. Nelle grandi parate dei musei, della letteratura, del cinema, dei giornali, della televisione, la selezione fa la Storia e noi guardiamo in una fotografia dove il limite dei margini ci vieta di  conoscere il fuori campo,  l’imprevisto, il marginale. Questo gesto sottintende tutta la nostra vita e aspetta, silenziosamente e solennemente, il nostro compimento.

Ne “La recita” un film di Angelòpulos, il regista compie una scelta: l’uso di un’inquadratura fissa che non ritaglia l’azione ma ne sceglie il centro, permettendole  di agire oltre i bordi del quadro. Come dire: quello che avviene davanti ai nostri occhi  può avvenire solo attraverso il tramite di un gesto marginale che trama e costruisce. Il dentro e il fuori sono correlati, come nella tragedia greca dove un nunzio si fa portatore di ciò che non può essere mostrato, che non può avvenire qui ma in uno spazio oltre, conoscibile  attraverso un racconto postumo.

Ecco: visitando questa casa è possibile cogliere due diversi piani di scrittura: le stanze borghesi, il mobilio, il pavimento lustro… e poi la dimensione del ricordo, della caccia al leone  –  l’unico a poter essere ucciso vis a vis – i grandi paesaggi sterminati senza il confine del perimetro, dello spazio recintato che tiene a bada la ferocia. La ferocia della savana è lontana, eppure senza ferocia è impossibile immaginare il lustro delle case borghesi! Ed è impossibile immaginare, nel caso della Blixen, la scrittura. Guardando questa tomba semplice e perfetta, umile e dimessa, paradossalmente non posso far altro che pensare al lusso, alla patina, alla tradizione degli scrittori borghesi e dei loro deliziosi studioli calmi e ispiratori: a un’arte che in qualche modo si nutre ancora della tradizione dei vati.

Ma poi ci sono le fotografie, si vede questa figura esile, vestita con gusto, grandi occhi truccati, un sorriso lieve, movenze che fanno trasparire un’anima gentile. Si vede qualcosa di questo “fuori la cornice”, Babette e la sua arte culinaria che redime un poco gli uomini. Si vedono le ultime fotografie di una persona anziana, la pelle contratta e segnata, i capelli bianchi e finti, gli occhi, gli stessi della giovinezza, enormi, solo più truccati.  Leggo che ha incominciato a pubblicare tardi, verso i quarantanove anni, con difficoltà. Penso allora alla crescita di una scrittura nell’ombra dell’anonimato, nata per sottrazione del suono, per attrito con la luce. Rivedo la bara ai piedi del tiglio e improvvisamente, per contrasto, penso al festino di un gruppo di giovani studiosi che stappando una bottiglia di spumante, con le guance paonazze,   hanno gridato “prosit!”, in direzione della lapide.

Qui, l’ombra, non abita le case, ma le pagine dei libri. Quando arriva l’inverno questa costa così sontuosamente ventosa, aperta al ricordo e al desiderio di altri viaggi, di altri orizzonti, si ghiaccia improvvisamente, blocca il pensiero e la luce. Questi sono i luoghi degli dei del grande Nord che in altri paesaggi, qui vicini, tuonano ancora tra le pietre bianche e vuote di una scogliera di gesso: l’ultimo rifugio di Odino prima dell’avvento del Cristo.

***

Sotto il tetto della mansarda restaurata, una piccola mostra di fotografie illustra le case di alcuni famosi scrittori. “I luoghi della scrittura”. Si tratta del rapporto tra un luogo e il pensiero che si mette in movimento: il movimento della penna. Mi colpiscono subito gli ambienti poveri: la casa di Faulkner, il cottage in riva all’acqua di D. Thomas, tanto trascurato da sembrare malfamato. Di Hemingway si vedono solo degli oggetti. Niente spazi. Di Lagerlov un pennino e piccoli fogli scritti. Viene in mente la fatica dello scrivere, la concentrazione del pensiero sul foglio bianco, il suo concretizzarsi in segni. Ma ancora lo scrittoio della Blixen, quello di suo padre, ordinato e pulito, quasi da burocrate della scrittura. E fuori il mare, la linea della costa che da Copenaghen a Hillerod segna un susseguirsi di case bellissime, un’architettura dove il dentro e il fuori si confondono.

Dunque lo scrittore, su questa scrivania di fronte al mare, ha delimitato lo spazio della sua arte, separandola dall’esterno con un paravento e facendola echeggiare in una stanza interna bianca e luminosa.

Fuori, a due passi, c’è già il senso della fine.

*tratto da Scritto davanti all’acqua, quaderni di viaggio, 1995, inedito (una diversa versione di questo testo è uscita anni fa nel blog “Stylos” ora non più attivo. Il testo pubblicato qui in Samgha è una versione rivista e ampliata nel 2012). Di Sebastiano Aglieco oltre ai contirbuti pubblicati in Samgha, si veda il blog Compitu re vivi (http://miolive.wordpress.com/)

4 thoughts on “Dentro fuori

  1. Riconosco anche in questo testo l’andamento elegante e meditativo della scrittura di Sebastiano Aglieco e quella sua ricerca di luoghi e di atmosfere attraverso viaggi sia reali che mentali.
    Molto bella l’idea di questa rubrica INSIDE/OUT che non poteva essere inaugurata in modo migliore; attendo i testi successivi.

  2. Pingback: SU SAMGHA: INSIDE/OUT | Compitu re vivi

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