di Antonello Fabio Caterino*
«Lo studio del gergo può divenire qualcosa più che una semplice ricerca di curiosità erudita»: così Rodolfo Renier nei suoi Svaghi critici concludeva il suo saggio sull’antico furbesco[1] , che – per quanto non privo di imprecisioni – è un nodo cruciale (e spesso sottovalutato) per lo studio di tale lingua. Il furbesco, detto anche semplicemente gergo o lingua zerga, era la lingua utilizzata storicamente dai furbi[2], e cioè dei vagabondi, dei ladruncoli, di coloro che dovevano giorno dopo giorno aguzzare l’ingegno per sopravvivere, ed hanno avuto per questo chiaramente bisogno di cifrare la loro comunicazione. Per di più, a seconda delle categorie di pitocchi, il gergo oscillava, pur conservando una struttura più o meno stabile. Alcuni gerghi sono giunti alle soglie del ventesimo secolo, altri sembra abbiano lasciato tracce nei dialetti e nelle parlate locali, ma per determinare con maggior precisione le cronologie servono ancora studi approfonditi. Il funzionamento di tale linguaggio è in teoria semplice: il gergo per lo più conserva grammatica e sintassi del volgare, mentre ne stravolge completamente il lessico, criptando il significato di nomi, aggettivi e verbi, non senza creare espressioni complesse, usate in sostituzione dei termini originari.Si prenda, ad esempio, il campo semantico del sostantivo Dio. Nell’antico furbesco Dio si dice sant’Alto, il sole è detto ruffo di sant’Alto (ruffo sta per fuoco), mentre la luna è la mocolosa di sant’Alto (mocolosa è la candela); il cielo è il cosco di sant’Alto (cosco si traduce casa), mentre gli angeli sono detti calcagni di sant’Alto (calcagno è compagno). Il sole diventa dunque il fuoco di Dio, la luna la sua candela, il cielo la sua casa, gli angeli i suoi compagni. Pur di oscurare il lessico, il furbesco non teme certo complicazioni. La tradizione ci tramanda alcuni dizionari, ovvero liste di parole appartenenti ai vari gerghi antichi tradotte in italiano. Si aggiungono a ciò diversi repertori lessicografici, ricostruiti in epoca recente, inerenti a gerghi sopravvissuti nel tempo e spesso legati a luoghi specifici e specifiche professioni.[3]. Eppure, nonostante tramite questi repertori sia possibile interpretare i testi in furbesco conservati dalla tradizione, la maggior parte degli studi focalizzano principalmente sulla formazione del lessico e sul funzionamento prettamente linguistico di tale linguaggio[4], senza dare il giusto spazio ad un aspetto interessantissimo e fondamentale: l’uso letterario e poetico del gergo (specialmente in ambiente rinascimentale). Gli approfonditi studi linguistici non sono, dunque, controbilanciati da altrettanti contributi critico-letterari. A questo proposito, non può essere ignorato ulteriormente il canzoniere contenuto nel codice Modena BEU Campori γ.X.2.5, forse il più grande esperimento poetico interamente costruito in furbesco, di cui al momento non esistono edizioni o commenti di sorta. Antonio Brocardo, all’inizio del cinquecento, è di certo l’autore di quel fortunatissimo libretto anonimo, dalla tradizione assai complessa, intitolato Nuovo modo de intendere la lingua zerga, vocabolario volgare-furbesco e furbesco-volgare comprensivo di alcuni componimenti poetici esemplari, esaminati ed interpretati da Franca Ageno[5]. Non è certo il primo ad aprire la propria produzione letteraria a toni ed inserti fuberschi, ma – come si evince dallo stesso titolo – il suo è di certo un approccio innovativo verso il gergo: rendere la lingua zerga un vero e proprio linguaggio poetico, col quale costruire interi componimenti o addirittura canzonieri.
I testi poetici presenti nel Nuovo modo sono traditi anche dal manoscritto Campori, contenente a sua volta una raccolta di lemmi furbeschi ed un intero canzoniere in lingua zerga. Se è complesso stabilire il rapporto filologico tra il libello e il manoscritto per quanto riguarda la parte lessicografica, è impossibile non notare in quest’ultimo due sonetti polemici nei confronti di Pietro Aretino, col quale Brocardo fu coinvolto in una pesante querelle nel 1531. Per di più i componimenti sono tutti stilisticamente e linguisticamente simili, tanto da far pensare ad un unico autore. Non sarebbe, dunque, così azzardato attribuire l’intero canzoniere alla persona di Antonio Brocardo. Ciò premesso, leggere un sonetto del canzoniere Campori non è di certo leggere un testo, per esempio dello Strazzola[6], con qualche lemma gergale, ma comunque d’impianto volgare: ci si trova di fronte ad un componimento integralmente costruito in furbesco, dove le allusioni e i prestiti lessicali cedono il passo ad una composizione pensata e scritta totalmente in gergo. Questo è il primo sonetto contro Pietro Aretino.
La ludovica calca vil baccone
masca che il capuan Pietro Aretino
con il suo canzonar vago e divino
l’altri fama imbrunisca da Marone.
Amor, perchè il cavato e ver dragone
d’ogni osmo di campagna pellegrino
fratengamente travaglia e il lodesino
al sfoglio di grandi s’il rippone.
Però di salso lui canzona e frappa
di maggi soi ch’hanno già smarrita
la calca d’ogni virtude e fatti goi.
Acciò ch’a più fratenga et onta vita
ritrucchi ognun li loffiosi suoi
errori imbianca con la mista unita.
La traduzione dovrebbe essere, all’incirca, questa: La brutta gente dice che, coi suoi versi alti e delicati, Pietro Aretino, quel porco, oscuri ogni altro, quasi fosse Virgilio. Amore, tieni però presente che il buon dottore è al servizio di ogni uomo, mentre quello malvagio è al soldo dei ricchi. Eppure quello canta solo i suoi signori, che da tempo hanno smarrito ogni virtù cristiana. Si ritorni, ordunque, a vita migliori: ognuno riconosca i suoi errori.[7] Come è chiaramente visibile la quasi totalità del lessico è di natura gergale, eppure è possibile affrontare una traduzione soddisfacente. Ad oggi, a parte i testi presenti anche nel Nuovo modo (traduzioni però solo funzionali alla descrizione della semantica gergale), nessuno ha mai pensato di tradurre il canzoniere in questione. È vero che i vari dizionari d’antico furbesco, presi singolarmente, non contengono tutte le entrate necessarie per ricostruire il testo da cima a fondo, eppure usando tutti i repertori in nostro possesso sinotticamente possono essere sanate non poche lacune[8]; ciò che rimane può essere semplicemente dedotto analizzando i meccanismi di creazione lessicale del gergo, ampiamente studiati. E’ possibile, per di più, sfruttare le raccolte lessicografiche dei gerghi più recenti, poiché comunque sono evoluzioni di linguaggi precedenti. Essendo, per di più, il gergo per eccellenza la lingua dei vagabondi, per quanto si possa specializzare come linguaggio professionale o locale, un minimo di struttura comune è logicamente la conserva. Nel sonetto succitato, per esempio, ci si imbatte nel termine loffo, che in buona parte dei gerghi conosciuti significa brutto, cosa brutta, ma che è assente dal Nuovo modo. Nello Speculum cerretanorum di Teseo Pini, altro dizionario di gergo in nostro possesso, tradito dal Codice Vaticano Latino 3486 (cc. 72v-77v), il termine loffedate è tradotto malum. Il termine loffio è poi anche attestato nel gergo fiorentino, e dei vagabondi e della malavita, sempre indicante qualcosa di brutto o turpe. In conclusione, tradurre il canzoniere Campori e ricercare altri testi scritti totalmente in antico gergo (se il Nuovo modo ha avuto una così grande fortuna, questi tipi di composizioni non dovevano essere poi così isolate) potrebbero essere un primo passo per restituire all’antico un giusto spazio poetico e letterario, oltre che storico-linguistico, nel panorama storico della letteratura italiana.
• Questo breve contributo non ha affatto la pretesa di risolvere una questione letteraria di ampia portata; va considerato – piuttosto – come un momento di riflessione teorica, che tracciando uno status quaestionis, si prepara ad affrontare, nel prossimo futuro, il problema con ordine e metodo.
[1] R. Renier, Svaghi Critici, Bari, Laterza, 1910 pp. 29-30 (liberamente consultabile all’indirizzo http://tinyurl.com/cfcx2f7 ).
[2] Cfr. l’etimologia gergale dell’aggettivo furbo all’interno del Vocabolario Online Treccani (http://tinyurl.com/chelxwv).
[3] Raccoglie magistralmente i corpora lessicali traditi sull’uso del’antico furbesco P. Camporesi, Il libro dei vagabondi, Torino, Einaudi, 1973. Molti vocabolari utili, di gerghi antichi e recenti, sono comunque disponibili online all’indirizzo http://tinyurl.com/cef2jxy
[4] Ripercorre i vari studi L. Cerretini, Il gergo nella letteratura del Cinquecento: definizione e nota storica http://tinyurl.com/d43x5u8
[5] Cfr. F. Ageno, A proposito del “Nuovo Modo de intendere la lngua zerga”, Giornale storico della letteratura italiana, 135, 1958, pp. 370-391, Un saggio di furbesco del Cinquecento“, Studi di filologia italiana, 17, 1959, pp. 221-237 e Ancora per la conoscenza del furbesco antico, Studi di filologia italiana, 18, 1960, pp. 79-100. Per quanto riguarda la tradizione del novo modo rimando a A.F. Caterino, Nuovo modo de intendere la lingua zerga, scheda TLIon, http://tinyurl.com/bn6g57j
[6] Cfr. V. Rossi, II canzoniere inedito di Andrea Michieli detto Squarzola o Strazzola in Giornale storico della letteratura italiana, n. 26, 1895, pp. 1-91. Il testo è interamente disponibile online all’indirizzo http://tinyurl.com/nvltl9q
[7] Traduzione di chi scrive.
[8] Un ottimo esempio di armonizzazione di quanto trasmessoci dalla tradizione lessicografica furbesca è l’opera di Marco Bassi, interna ad un sito internet utilissimo e davvero ben fatto sui gerghi italiani. Il tutto è consultabile, tra l’altro, in pdf (http://tinyurl.com/ozdwz2l).
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*Antonello Fabio Caterino (San Giovanni Rotondo, 10/12/1988) è attualmente dottorando di ricerca presso la Scuola Dottorale Internazionale di Studi Umanistici dell’Università della Calabria. Laureato alla Sapienza, con due tesi (triennale e specialistica) riguardanti la tradizione poetica umanistica e rinascimentale, ha scritto contributi su Antonio Brocardo, argomento del suo progetto dottorale, e Tito Vespasiano Strozzi. I suoi campi di interesse includono la storia intellettuale rinascimentale, la filologia umanistica e le digital humanities, con particolare riferimento al rapporto tra ricostruzione del testo e nuove tecnologie, come dimostrato dal progetto «Filologia – Risorse informatiche» (http://tinyurl.com/ch84t7a), da lui ideato e curato.
Complimenti, un lavoro agli esordi ricco di speranze.
Spero di poter leggere ancora e ancora.