di Renato Grilli*
Ecco, vedi, ti ho ascoltato. A lungo, senza interromperti. Ed ora che hai finito ti dico. Ti dico: niente. Perché davvero niente, dopo quello che hai detto, posso aggiungere. Perché tu ci ragioni e dici: ma chi è dunque quel lui che dice, chi l’altro, o l’altra, che stanno ad ascoltarlo. Scusa, ma posso solo dirti che non lo so, non me lo sono mai chiesto. Se a te sembra importante saperlo, o indovinarlo, bene, ti dico, ma sono problemi tuoi, io non ho davvero niente che possa farti luce, che sappia guidarti nel tuo mistero. Per me è tutto più semplice, uno parla e (forse) uno ascolta. Erano in due, d’accordo, ma non so chi, è solo che ci vogliono entrambi, quando una voce dice. Io che penso e parlo so? No, io trascrivo solo. Entro e dipingo con parole quel mondo, in cui sono appena capitato. Piuttosto, se senti l’affetto con cui lo dico, è a te che chiedo: quali fantasmi ti si sono svegliati dentro? E ancora: che cosa volevano quei fumi d’ansia, quelle carcasse d’amore, da te? Che tormenti vani e falsi volevano proporti, come a un bel gioco? Ci sei cascato? Scusami, lascia che ti dica, allora. Se quelli si sollevano ancora dai comodi, benefici depositi dell’oblio, tu non tremare. Mettiti tranquillo e parlagli, spiega loro tutto, se ti serve usa la tua stessa fantasia contro di loro. Ma senza contrastarli, anzi porgi loro con cura e grazia la Grande Consolazione, la tua, la nostra, Certa Salvezza.
… Ma no, credimi, non c’è altra strada. Non dirlo a me di quel perfido gusto impaziente che ti prende di chiamarli e chiamarli ancora e ancora interrogarli. Lo conosco, non dirlo a me, che ho provato così bene a fondo il folle piacere che la strenua lotta, il continuo conflitto con loro ti regala. Te lo ripeto: rinuncia. E tu ripetilo a te e ripetilo a loro. Rinunciate. Lasciali perdere quei messaggeri perduti, quei pedanti avversari. Canta loro la gioia fine che le certezze conquistate ti hanno dato, la vita dolce e ariosa, il sorriso pieno, il cuore sollevato e libero che oggi, da allora, corrono a balzi sulle cime del tuo montuoso paesaggio.
Sì, ecco, lo vedo, va meglio ora. Qualcosa nel movimento lieve del tuo volto me lo dice. Anche se non so bene descrivere che cosa esattamente. Forse lì, quegli angoli delle narici, lì sotto il naso, che s’arricciano un poco. Molto meno di un sorriso, va bene, ma sembra proprio che lì, da lì nasca il segno del tuo nuovo sentire. Proprio sotto il naso, chi l’avrebbe mai detto? E ora vuoi che ti racconti ancora. Vuoi davvero che lo faccia? Va bene, ascolta allora, solo pochi minuti.
Saranno state le tre di notte, l’ora dei morenti. E, come spesso succede, ero ancora sveglio. E se sei ben sveglio ed esci di casa a quell’ora t’assicuro che la provi davvero, dentro quel profondo e largo silenzio del mondo, quella strana sensazione che tu sei quel qualcuno che sta vegliando, perché bisogna che qualcuno lo faccia il lavoro di vegliare sul mondo. E nel silenzio quieto s’era ad un tratto alzato un sibilo, un rumore. Era il vento, un alitare
sostenuto, uno di quegli zefiri incostanti che fanno mulinare cartacce e foglie e suonare le fronde degli alberi e oscillare le luci dei lampioni, flebili e lontane. Ed ecco che d’improvviso al silenzio di una piccola piazza deserta si udirono passi, affrettati e incerti, lontani. Nessuna ombra li accompagnava e, per quanto rivolgessi lo sguardo ad ogni angolo, niente appariva. Qualcosa, mi dissi, bisogna pure che si mostri, e mi fermai sospeso in ascolto. Allora lo scalpiccio si fermò anch’esso, e dopo poco riprese più lento e guardingo. L’ombra apparve infine nell’angolo più scuro e remoto della piazza, ma l’ombra sola, solo quella, osava affacciarsi da uno spigolo. Non comparve
nemmeno appieno, ma io la sentivo. Percepivo da quell’ombra di quel nascosto vivente persino lo sguardo, teso e pieno di timore. Un altro sonnambulo, un collega, un fratello, dunque? O peggio un suicida, un furente bestemmiatore, schiavo di amara vita e di biechi fantasmi? Chi sei, pensai senza chiedere. Mi giunse in risposta un pensiero, mi raggiunse come un odore fin sotto il naso, un che di acre di sudore e di umido del bosco. Il pensiero diceva qualcosa, ne decifrai pian piano il senso. Stai lì fermo, stai quieto, diceva, rinuncia al tuo voler sapere. Queste parole mi pareva scandisse nella mente. Allora acconsentii: respirai a lungo il vento che mi veniva addosso, allungai un poco le braccia tese, mi misi a sedere e distesi le gambe. Chiusi gli occhi e, come un pensiero buio, risposi, come una voce più forte della voce, senza parlare. A che altro? Azzardai. A te, a te. Io rimasi muto, che altro potevo fare? Non sei qualcuno, non sei nessuno. Se vuoi libera il tuo pianto, lascialo andare, ma non c’è fiume che non abbia corrente, che non conduca infine al mare aperto. Che potevo fare? Dissi sì, e ancora sì. Allora l’ombra si ritrasse, e quello che mai avevo visto si rivelò, scomparendo. Mi rimase forte tra le narici e il labbro solo il sapore sottile di una scintilla di sudore. Poi più niente e meno ancora tornando a casa, nessun pensiero m’accompagnava nella notte. Ero solo e sollevato. Tremavo e non temevo nulla.
Sentinelle e nient’altro. Messaggeri di nulla, chi vuoi che sappia, chi pensi che possa ascoltare davvero? Solo sentinella dunque, a custodia di che, questo solo tu puoi saperlo. A te tocca custodia e messaggio. Ma ti prego non rivelarlo, non è tempo di allievi, se mai c’è stato, non è tempo di maestri, se mai è tornato. Non hai nulla da gridare, da dire ad altri, da far giungere a chi ami. Le sentinelle sono sole, non per scelta o maledizione, ma per insondabile ambiguo destino. A loro tocca guardare lontano, senza perdersi d’animo, anche se può accadere che, intenti come sono allo sguardo verso il mondo, capiti loro di dimenticare quello che, alle spalle, difendono. Viene allora una strana, profonda malinconia, che toglie loro le forze, al punto che anche voltarsi per tornare a vedere, per abbeverarsi nuovamente alla fonte, diviene un’impresa titanica. Sentinella, non badarci, non voltarti! Potresti rimanere delusa, ti dice una voce. Oppure peggio: potresti rimanere accecata, persino potresti – e sarebbe la catastrofe – rimanere così, senza più la forza di tornare alla tua vita, al conforto triste della tua missione eroica di sentinella … Ma non senti come la voce cambia tono, dicendolo? Non senti che ti sta come prendendo in giro? O sfidando ancora? Che in fondo si vuole una sentinella che sappia essere lieve, che sappia anche sorridere, che, se capitasse a qualcuno di guardarle il viso, possa vedere intatto quel mezzo sorriso, quella piega viva della bocca, quell’incerto sguardo, che ha imparato dalle immagini degli angeli?
E adesso vieni, avvicinati. Siedi qui accanto a me, alla mia destra. Non pensare a nulla, saluta la tua, così la chiami, anima. E sciogli i brividi che ti percorrono il corpo. Abbandona la tua testa qui, sulla mia spalla, e chiudi gli occhi. Vorrei tanto sentire il tuo respiro placarsi pian piano, fino a che dal profondo del busto giunga a farsi sempre più rado quassù, sul petto, sul collo, sulla bocca. E quando il più fine sospiro t’avrà raggiunto sotto il naso, allora, solo allora io ti bacerò. Labbra su labbra, lingua più lingua, sereni e assenti come cieli stellati, immensi e bui come galassie infinite.
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*Renato Grilli è nato a Nereto (TE) il 31 dicembre 1953. A Pescara, mentre frequenta il liceo classico, incontra il teatro e debutta con Alienus, regia di Gianfranco Varetto e Ida Bassignano. Al DAMS di Bologna studia storia e critica dello spettacolo, regia e drammaturgia, con Squarzina, Gozzi, Scabia, Celati e altri. Si laurea con lode nel 1983 con la tesi Ricerche di idolatria moderna – Flipper the beautiful, relatore Paolo Fabbri, semiotico, presidente Umberto Eco. Attore e aiutoregista lavora con varie compagnie, tra cui Teatro Stabile dell’Aquila, T. Regionale Toscano, ATER-ERT, Teatro Poesia Bologna, Doppio Teatro Roma. Al cinema è il sosia muto di Kafka in “Ginger e Fred” di Federico Fellini. Negli ultimi anni ha scritto testi originali e adattamenti per la scena per spettacoli e recital. Ha partecipato a reading di poesia, presentando le sue inedite “ballate balbuzienti” e altre sillogi; ha messo in scena e in musica poesie di Leopardi, Petrarca, Carducci, Marin, S. Toma. Insegna tecnica teatrale e lettura poetica in corsi, laboratori e stage. Collabora con quotidiani e riviste. Attualmente lavora al Progetto “Canzoniere Italiano”, poesia italiana in musica, spettacolo “da esportazione” e su “Viva la poesia viva!”, laboratori didattici di poesia “giocosa”. Vive nel Salento, nei pressi di Otranto, dal 2002.