di Paolo Valesio
L’italianistica negli Stati Uniti (e non solo) sta attraversando una situazione di emergenza: sembra entrata in una stagione che ha aspetti post-coloniali. Forse questa è la giusta nemesi di un passato (prima parte del secolo scorso) in cui l’italianistica americana era “colonizzata” da quella italiana – in cui cioè sembrava cosa naturale che gli studi di una data lingua-e-cultura si modellassero su quelli della madrepatria (e questa è ancora essenzialmente la situazione degli studi italiani di anglistica). Se volessimo essere deterministi, potremmo dire che l’italianistica italiana vede diminuito il controllo sull’agenda dei propri studi dapprima come conseguenza del generale appannamento d’immagine dell’Italia dopo la guerra sciagurata e perduta, e più tardi in conseguenza della fine delle illusioni sulla durata del “miracolo economico” italiano. Ma qualunque siano le cause, è venuto il momento di guardare attentamente agli effetti: sono in larga misura le università anglo-americane che dettano oggi le tematiche e i metodi della ricerca italianistica, soprattutto in campo moderno e contemporaneo. Questa constatazione non vuole essere una “lamentatio”. L’inversione di tendenza ha portato anche a sviluppi positivi: maggiore attenzione al nesso letteratura-società, interrogazioni critiche più penetranti. Che poi questi sviluppi si esprimano a volte, nella micropolitica universitaria, con qualche enfasi opportunistica (una certa gergalità nei bandi di concorso e nei temi congressuali, con conseguente ansioso allineamento dei dottorandi, italiani e non, impegnati nella ricerca di posti sempre più scarsi) – tutto ciò non dovrebbe essere ragione di particolare stupore e scandalo. L’università è, fin dall’alto medioevo, luogo di continui, delicati conflitti e compromessi tra la libertà della ricerca e il conformismo ideologico.
Allora in che consiste l’emergenza? Consiste nello sconfinamento della micropolitica universitaria in macropolitica: lo studio e l’analisi tendono a traboccare in un attivismo ideologico e semi-partitico. Regna una certa degnazione, una certa ipercritica verso l’Italia di oggi, con particolare martellamento sul tema dell’immigrazione e su quello dell’identità sessuale. Sorge allora il sospetto che tutta questa predicazione sull’Italia all’insegna della correttezza politica sia anche, in buona parte, un grande spostamento o “displacement” di problemi fortemente americani. I conflitti sull’immigrazione, infatti, sono almeno altrettanto duri negli Stati Uniti (dove la legislazione è molto più rigida); e i problemi dell’identità sessuale sono, in America, almeno altrettanto tumultuosi. Per non parlare dell’oppressività del controllo statale, del militarismo, del pulsare della violenza connessa alle onnipresenti armi da fuoco – tutti problemi molto più gravi in America che in Italia. E’ venuto il momento, per l’italianistica negli Stati Uniti, di cominciare a ripensare il proprio ruolo critico, non solo verso la cultura italiana ma anche verso la cultura del paese in cui essa opera.
Caro Valesio,
il suo articolo e’ veramente ottimo, e mi trova concorde in tutto. A questo proposito, sarebbe bello, come follow up, fare una sorta di censimento o almeno una rassegna degli studi piu’ rappresentativi del fenomeno di displacement che lei sottolinea, per mostrarlo “in corpore vili.” Sarebbe un ottimo argomento per un articolo, credo. Grazie ancora,
Enrico MInardi
E chiaro che parte di questo problema è conseguenza dell’egemonia che l’America esercita mondialmente nel campo culturale mondiale, ma pure perché le infrastrutture italiane, d’Italia, non siano state capaci di reagire ai tempi, burocratizzandosi a tale punto di perdere il senso stesso originario, entrando in una lunga fase di autoconservazione dello status quo, mancando cosi di supporto agli Italiani che non erano in Italia, persistendo in adoperare metodi tradizionali, e sedimentati, obsoleti.