di Renato Grilli*
Ecco, vedi, ora ti sento. Li ho sentiti, dietro le labbra, dentro la bocca, li ho sentiti, duri, integri, pietrosi quasi, come del resto s’addice a quelli di un essere giovane. Li ho sentiti, mentre si sfiorano le lingue con cui ci stiamo baciando. Ti ho stretto un poco le labbra coi miei denti piccoli, fragili, come ti mangiassi, a piccoli morsi teneri assaporando buona carne, quel po’ d’umore di sangue che sempre gli rimane attaccata.
Te lo ricordi tu quello? Si scusava del suo digiuno, spiegando che la sua era solo inappetenza, niente lo invogliava al mordere, al nutrirsi. E che l’appetito non gli sarebbe mancato, se solo avesse trovato un cibo che davvero gli piacesse, che nello stomaco risvegliasse l’eccitazione del suo gusto. Ecco, qualcosa del genere sentono i miei denti piccoli. Assaporo per vedere se qualcosa si capisce, se l’apatia e il disgusto si saziano. Te lo ricordi anche tu come va a finire quella storia, te la ricordi la nera pantera che prende posto nella stessa gabbia? A quel punto del racconto vedo di qua, con un brivido, quell’essere tranquillo, il suo manto nero, lucido, quelle zanne lunghe, bianche. E di qua, di fronte, nella stessa gabbia, vedo il sorriso a denti gialli, tremanti e fragili, del povero digiunatore. Si guardano, i viventi, senza domande né risposte. Sono fatti così gli enigmi? Si sta solo lì a guardarsi? A dire “entrano i leoni e si bevono fino alla feccia il contenuto delle brocche sacrificali”. “E tu?” “E tu non puoi fare nulla, se non contemplare la certezza che torneranno”?
Io invece, come dopo un sano nutrimento, ora quasi mi accascio, arretro con tutte le parti molli del mio corpo intero. Mentre ancora li sento, m’accorgo di sapere che lì, proprio lì per me, la vita s’inceppa, si prostra a tutte le infinite, eterne ed indistruttibili apparenze. Come uno scienziato degli scheletri, che dai denti indovina età, dieta e incidenti del corso di una vita intera, mi sembra di giungere alla verità esatta di chi sei tu. Di chi sono io invece, che mastico senza sosta le mie protesi, come prima arrotavo notte e giorno le mandibole, che anche adesso arroto, o affilo o assaporo, quegli stessi denti, ecco su di me, non mi pare che valga la pena indagare ancora. Il trucco è palese, giù in fondo, in nota. Si dice “bruxista”? Qualcosa del genere, ma è una vera pandemia, pare, di arrotatori instancabili e inconsapevoli, che letteralmente si mangiano i denti, con qualche gusto, vista l’insistenza. Ma mi pare, guardandoti, che tu non gradisca. Forse hai ragione, non è una bella cosa parlare di quell’unica parte dello scheletro umano che sta visibile sotto gli occhi. Né gentile, né carino. Né dei propri, né tantomeno degli altrui denti si può conversare, nemmeno accennare con ritegno. La nudità delle nostre ossa, visibili agli altri, può essere più oscena della vista del sesso, imbarazzante al pari della vista delle deiezioni. Osceno e imbarazzante insieme, come ti dissi una volta, come scrivere a penna sotto gli occhi della gente che passa, o che passeggia e si sforza di non guardare. O come quello che sta fermo vicino a te che, facci caso, ora fa finta di non vederti, mentre lo fai, quei tuoi arabeschi di parole. Sotto il suo naso. Sotto i suoi occhi. Come sto facendo ora anch’io. A te, sotto i miei denti.
Hai ragione, la prendo alla larga. Ma tu, che adoro per la sottile perspicacia, lo sai. Con quella la piega dolce del sorriso dici solo che non arrivi a capire dove voglio condurti, alla fine. Che intuisci che c’è qualcosa sotto in questo mio dirti e ridirti dei denti. Ma non indovini che cosa. Se hai pazienza e mi dai tempo, te lo svelerò. Se hai fiducia e mi dai corda, ti rivelerò il mio intento, ti svelerò il mio gioco. Sarà sufficiente che tu continui ad illuminarmi col solo guardare dei tuoi occhi, a darmi vita col tuo ascoltare pacato. Tu sai che è parlandoti che mi genero, che mi resuscito a nuova vita, che mi distruggo e mi creo.
“Non è necessario che tu esca di casa. Rimani al tuo tavolo e ascolta. Non ascoltare neppure, aspetta soltanto. Non aspettare neppure, resta in perfetto silenzio e solitudine. Il mondo ti si offrirà per essere smascherato, non ne può fare a meno, estasiato si torcerà davanti a te” (F. Kafka – Aforismi di Zurau)
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*Renato Grilli è nato a Nereto (TE) il 31 dicembre 1953. A Pescara, mentre frequenta il liceo classico, incontra il teatro e debutta con Alienus, regia di Gianfranco Varetto e Ida Bassignano. Al DAMS di Bologna studia storia e critica dello spettacolo, regia e drammaturgia, con Squarzina, Gozzi, Scabia, Celati e altri. Si laurea con lode nel 1983 con la tesi Ricerche di idolatria moderna – Flipper the beautiful, relatore Paolo Fabbri, semiotico, presidente Umberto Eco. Attore e aiutoregista lavora con varie compagnie, tra cui Teatro Stabile dell’Aquila, T. Regionale Toscano, ATER-ERT, Teatro Poesia Bologna, Doppio Teatro Roma. Al cinema è il sosia muto di Kafka in “Ginger e Fred” di Federico Fellini. Negli ultimi anni ha scritto testi originali e adattamenti per la scena per spettacoli e recital. Ha partecipato a reading di poesia, presentando le sue inedite “ballate balbuzienti” e altre sillogi; ha messo in scena e in musica poesie di Leopardi, Petrarca, Carducci, Marin, S. Toma. Insegna tecnica teatrale e lettura poetica in corsi, laboratori e stage. Collabora con quotidiani e riviste. Attualmente lavora al Progetto “Canzoniere Italiano”, poesia italiana in musica, spettacolo “da esportazione” e su “Viva la poesia viva!”, laboratori didattici di poesia “giocosa”. Vive nel Salento, nei pressi di Otranto, dal 2002. E’ appena uscita una sua silloge poetica Dove passa la poesia. Autoprofezie del poeta intermittente (http://issuu.com/mmmotus/docs/15_-_spagine_-_magazzino_di_poesia_)