-Ci sei mercoledì prossimo?
-Sì, penso di sì… e tu, ci sarai?
-Mmmmhhh, sì, penso di sì… allora te lo dico mercoledì…
-Va bene, mercoledì, allora…
-Sì, a mercoledì, ciao.
I due personaggi, al contrario, non si vedranno mai più. Sanno poco e nulla l’uno dell’altro e non si sono neanche presentati per nome. L’unica cosa che hanno condiviso per quattro mercoledì consecutivi è stato il «gusto del cloro».
Con questo titolo, nell’originale francese Le goût du chlore (Casterman 2008, ma in Italia l’opera è stata distribuita nel 2010 da Black Velvet), Bastien Vivès racconta una storia lieve e liquida, fatta di ricerche e silenzi subacquei, che si svolge quasi esclusivamente tra le corsie di una piscina.
Sin dal principio, il delicatissimo graphic novel di Vivès riesce a mimare l’acqua, non soltanto con un tratto volutamente tremolante e per via dei colori usati, che tendono alla bidimensionalità; variando lentamente, ma in modo inesorabile, come se ciò dipendesse da una qualche irregolarità interiore, sembra che anche il flusso delle azioni dei due personaggi della storia non riesca a seguire esattamente il proprio corso.
Nel rumore bianco dell’acqua che rimbomba tra lo spazio chiuso della piscina, in mezzo alle voci degli altri, lo sguardo del protagonista si fissa su un corpo silenzioso che si avvicina al bordo della vasca per entrarvi piano. È lì che avviene la metamorfosi: quel corpo immergendosi, si fa tutt’uno col suo elemento. Nient’altro, se non quel momento in sospeso, e un taciuto desiderio.
All’inizio la loro interazione non è delle migliori: i movimenti del ragazzo non sono fluidi; lei, poi, con lo sguardo cerca di ritrovare l’amico del protagonista, che in acqua non le era sembrato avere le stesse difficoltà. È necessario che il protagonista maschile alleni bene i polmoni e sciolga i muscoli; le sue parole seguono i miglioramenti compiuti nuotando, grazie anche alle indicazioni di quel corpo, che nel frattempo si è fatto voce.
Quella di Vivès è in tutto e per tutto la storia di una riabilitazione, il superamento di una impasse non soltanto fisica, ma anche emotiva: quella di chi, non riuscendo ad esprimersi con il corpo, non riesce a farlo neppure con le parole.
Nonostante gli avvicinamenti funzionino, come funzionano le braccia e le gambe, un peso che non permette al ragazzo di “stare a galla” viene fuori in una volta sola: «Ti sei mai domandata se ci sono cose per cui moriresti e a cui non rinunceresti mai?». Lei non sa trovare una risposta sul momento, ci deve pensare e si mette a nuotare, mentre lui si porta lentamente sul fondo della piscina e da lì la saluta.
Soltanto laggiù, il protagonista sembra finalmente sereno: nel gesto della mano e nel suo sorriso a bocca chiusa si propaga una forza che attrae la ragazza e la fa scendere. Avvicinandosi sott’acqua e guardandolo, lei sa finalmente risponde alla sua domanda.
È una parola mimata con il labiale, che lo coglie d’improvviso e non gli permette di comprendere qual è quella cosa per cui lei morirebbe e a cui non rinuncerebbe mai. Il respiro che si fa necessario dopo quella discesa cela nuovamente la risposta tra frasi comuni e tentativi di comprensione.
Fuori dello spogliatoio, infine, proprio quando sembra che i due ragazzi si siano ormai “incontrati”, il dialogo breve: un semplice appuntamento alla prossima volta e la promessa che la muta rivelazione subacquea prenda voce:
-Ci sei mercoledì prossimo?
-Sì, penso di sì… e tu, ci sarai?
-Mmmmhhh, sì, penso di sì… allora te lo dico mercoledì…
-Va bene, mercoledì, allora…
-Sì, a mercoledì, ciao.
C’EST-L’A-M-OUR.