Se anche la lingua italiana avesse sviluppato una sola forma per le parole “sonno” e “sogno”, l’applicazione di una logica di tipo simmetrico all’ultima raccolta di poesie di Francesca Matteoni sarebbe potuta svolgersi già a livello fonolemmatico. Nel sonno è infatti un libro dove non c’è contraddizione alcuna tra lo stato di riposo e il fenomeno psichico, a partire dalla loro pronuncia: «Sonno e sogno sono lo stesso suono in Russia». Il risultato di un’associazione del genere determina quell’antitetica complementarietà di emozione e pensiero che Ignacio Matte Blanco ha definito “bilogica”. Essa si rivela nella serie di oggetti unheimlich, luoghi non soltanto geografici, lingue madri e acquisizioni linguistiche, esseri reali e fittizi che agiscono sostituendosi al soggetto nella sua regressione-maturazione: «Ogni volta che sono stata bambina ho amato solo genti fantastiche, che parlavano lingue animali […]. Mentre sono nel sogno tu mi stai nel sangue come terra, come luce toccata sott’acqua». Nel Sonno è il compimento di un passaggio tra «due mondi» che sono al di fuori delle comuni relazioni spazio-temporali: «Uno dove tutto è in superficie […]. Un altro dove l’acqua si alza notturna sopra i pontili, porta navi cariche di spiriti. Uno dove si procede tirandosi dietro inconsapevoli le reti del passato, l’altro dove si perde il nome e l’identità e perdere è non toccare più un corpo nella forma conosciuta». Ogni simmetria inconscia determina giustificabili mutazioni di stato, una caduta un processo un viaggio per mare (come specifica l’ininterrotto sottotitolo del libro), implicando lo smarrimento di fronte a quella superfice riflettente che più di ogni altra dovrebbe impedire la crisi: lo specchio. È la possibilità del suo attraversamento e la conseguente esperienza della caduta down the rabbit hole che producono sdoppiamenti e sovrapposizioni coincidenti: «Smarrirsi / è un’arte opposta al tempo / viene dal vicolo dietro la casa / dallo sbrano di rete sul muro. […] Dalla rete lo spazio è diviso / tra il bucato e le mattonelle. Lei ha una piccola bambola, / un quaderno / un sacchetto di dolci. / È più grande di me, più alta / il gatto le sta tra le braccia – / non conosce il mio sangue dei sogni […]». Le infinite possibilità del simbolismo psichico, instaurando una corrispondenza biunivoca tra l’insieme e ogni altra sua parte, rappresentano la struttura portante dei processi metaforici e metonimici che Matteoni applica alla lingua poetica: si passa così dallo specchio in senso proprio allo specchio d’acqua, dalla sua superficie al fondo invisibile, dal mare aperto al lago e da quest’ultimo alla palude, alla foresta, alla terra, al corpo. Allo stesso modo, lo specchio di Carroll si riflette simmetricamente nello “zerkalo” di Andrej Tarkovskij, i “sonni” e i “sogni” di Alice nel Paese delle meraviglie e di Aleksei nella sua Russia «terra madre» divengono sia gli spazi “vigili” di Chihiro nella Città incantata di Hayao Miyazaki sia quelli di Jeliza-Rose (il cui primo nome rievoca foneticamente quello di Alice in inglese) in Tideland di Terry Gilliam. Di ognuna di queste “riflessioni” si appropria Francesca, il personaggio delle fotografie e dei disegni infantili che accompagnano il testo (non importa che si tratti del suo volto di bambina o di un pastello della «faccia della paura»): «Come è possibile che tutto questo sia “mio”? […] Io so che non esiste la tua vita, ma una vita nella quale ci ripetiamo, simili e distanti». Proprio perché lo specchio e la sua qualità “superficiale” si fanno simbolo di un passaggio che è biografico e biologico, la metamorfosi/possessione della “figlia-madre-madre-di-sua-madre” (il libro è dedicato infatti alla madre Tiziana e alla nonna Nicla) sono qualcosa che trascende la mitografia e si fa rituale del sacrificio. Si tratta di un processo creativo che coinvolge il linguaggio e la sua funzione magica, nel senso che ad esso ha dato Toshihiko Izutsu in quella relazione iniziale che l’autore definisce “spontaneous magic”, mutuando l’aggettivo da Malinowski, ossia «un tipo di rapporto che di basa sulla risposta dell’essere umano a un sovraccarico di tipo emotivo o a un desiderio incontrollabile, a una deflagrazione di un’emozione attraverso parole e gesti che possono esprimersi in un flusso continuo di parole nella forma di una maledizione e nella riproduzione simulata del risultato desiderato»: «Prendere una bottiglia, una bellarmina, raccoglierci l’urina della vittima di un maleficio – aggiungere capelli, pezzi d’unghia, brandelli di stoffa del vestito tagliati come un cuore. Stiparla di spilli, spine, chiodi, ferri curvi. Sigillarla e seppelirla – oppure scaldarla sul fuoco. […] La bottiglia della strega è un corpo che, senza volerlo, ne sopporta un altro al suo interno: lo infiamma e lo dissecca, gli dà sepoltura fino alla ruggine – lo manifesta».
Leggendo altri testi precedenti di Matteoni, ciò che mi ha sempre affascinato è la capacità di dissolversi nell’ambiguità dei diversi piani semantici, confondendosi con oggetti, animali, immagini che provengono da sfere opposte e si raggiungono per ritrovarsi nella fantasia, il filo che cuce, la mappa che esplica.
Questo convegno del proprio vissuto da ogni angolo della memoria scrive i testi di Matteoni, dispiega la ricerca non di un oggettivo definitivo, bensì di una trama che di essere umano in essere umano ci passiamo per continuare a leggere ogni eventualità di ieri, oggi, domani.