a cura di Diego Bertelli
Dite è il titolo che Daniele Visentini ha scelto per una serie di suoi testi poetici (sono in tutto undici, anche se qui ne abbiamo selezionati quattro) e «si può leggere» – stando alle parole dell’autore – «come voce verbale o come sostantivo». Lo scopo è quello di lasciare in sospeso l’ambivalenza della parola: Dite va intesa sia come seconda persona plurale del verbo «dire» sia come attributo che rimanda ad Ade, divinità greco-romana preposta al mondo dei morti. La cosa interessante di quest’ultimo riferimento è che il termine, derivante da «dives, divitis», significa «ricco» ed è usato in relazione ad Ade per indicare i tesori conservati nel sottosuolo. Il rapporto tra Ade e la terra, specie attraverso la sposa Proserpina, divinità che nel mito, con il suo ritorno nel mondo, segna l’alternarsi delle stagioni e dei suoi frutti, ha valore precipuo per la comprensione delle immagini di Visentini. La presenza delle ricchezze della terra («sfascio dell’uva / nel sole che ti incarcera / verde e oro», Santo Stefano) e la ciclicità del tempo («“e non si vide se non dopo (?) anni la fine” / In attesa del ritorno non avrei / da dire altro da quelle parentesi») divengono nel poeta la versione personale di un mito. In questo senso, perfino la presenza della cagnolina Laika, cui è dedicata Muttnik – dedica in ritardo, può confrontarsi con l’iconografia di Ade in compagnia del cane Cerbero e custodire, affianco al poeta, la “confessione dei pensieri” di chi tuttavia sa che dalla morte «Indietro / non si torna, come si dice dei vent’anni. / E ogni tanto ancora ti chiamo». La richiesta di un dialogo, non solo con l’individuo ma più generalmente con il molteplice, è in Visentini una riconsiderazione vera e propria del pensiero. Dominante in questo senso è l’accostamento tra pesanteur e grace, in senso weiliano, e per tale ragione la componente filosofica è da considerare l’elemento paradigmatico più profondo di questa suite poetica.
Santo Stefano
Venne giorno
e pare fosse dolce così
da lasciarci appeso ai vestiti leggeri
l’odore del letto e stupire – sì –
di non saper dire parole
ma il mondo – sfascio dell’uva
nel sole che ti incarcera
verde e oro: viti uve acini vino
come acque mari onde spuma
per ciò che spalanca alla mia isola
la tua prigione: lo sguardo
che si fa pensiero, il pensiero
che si accontenta di dire.
*
Muttnik – dedica in ritardo
Chi sa dove. Certo più in alto
nella tana dove il tuo corpo
non aveva peso, ma aria, acqua,
occhi ce n’erano. Indietro
non si torna, come si dice dei vent’anni.
E ogni tanto ancora ti chiamo,
non angelo, non martire, non uomo:
ti chiamo stella e ti chiamo pensiero,
o titipounamu,
la cupola del nido sottile
dove un dito non entra, ma tu solo
che alla fine del mondo
resisti.
*
eppure costì finiscono i dì:
andrem nella luna,
negli astri, o nel sol? …
eppure se chiedessi che cosa
ho creduto di dirgli,
se chiedessi che cosa gli ho detto
di vero di nuovo di bello –
se io lo chiedessi o tu per me
sfilerei dalla tasca quel biglietto.
Camminando rimase incollato
alla scarpa, e non so dire il giorno –
non un nome, è un ritaglio
di pagina scolastica e si legge
chiaramente un solo appunto:
“e non si vide se non dopo (?) anni la fine”
In attesa del ritorno non avrei
da dire altro da quelle parentesi,
da quell’incognita senza pensiero –
l’arresto anelante del respiro
all’ipotesi di dire.
*
eppure
in forza d’amore
non voglio proporre fini:
ma spazio liberato dall’assedio –
né storie né nomi né stasi né azione.
Che prenda per carta la carta
se crede, per farne volo d’aereo
oppure la stracci, la getti al suolo –
eccomi qui ad ogni modo:
a sua discrezione.
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Daniele Visentini è nato a Latina nel 1985. Ha conseguito la laurea magistrale in Lettere a Roma nel 2009; successivamente ha studiato a Berlino e a Siena, dove si è recentemente addottorato con una tesi in filologia italiana. Ha all’attivo alcuni articoli di critica letteraria pubblicati su riviste quali «Paragone» e «Otto/Novecento», e una breve raccolta poetica, Ippocampiche (Perrone LAB, 2010), Attualmente vive e lavora a Padova.