[Con la librazione di gennaio dedicata a Gilda Policastro si chiude per me un’esperienza di scrittura molto importante, cominciata nel febbraio 2012. Le recensioni che ho proposto, apparse prima su Tono Metallico Standard e in seguito su Samgha, hanno rappresentato in tutto e per tutto un percorso di lettura e scrittura indipendenti, reso possibile dalla libertà concessa dai redattori di questi due litblog. A modo mio ho parlato di prosa e poesia, senza obbedire a niente altro che a me. Ed è questa la cosa che ha reso le librazioni delle storie in cui i libri e la mia testa hanno oscillato per rivelare la loro parte nascosta. Grazie a tutti coloro che mi hanno letto, condiviso e scritto in questi due lunghi e brevi anni. D. B.].
Non come vita di Gilda Policastro (Aragno 2013) è una raccolta di «testi scritti, eseguiti in pubblico, editi su rivista, in plaquette o su litblog […]» ma anche un libro i cui componimenti «si ritengono […] inediti nel loro nuovo percorso». In questa sua veste rinnovata, basta cominciare il volume per incappare in un’espressione tedesca che lascia da subito in sospeso il lettore: «unheilbar Krebs». Arrivando poco oltre la metà della poesia d’apertura, queste due parole messe insieme impongono una pausa forte, che va al di là della pertinenza linguistica o della struttura del testo. «Unheilbar Krebs» vuol dire in apparenza «inguaribile cancro» e il modo in cui il tedesco e il corsivo dissimulano ed enfatizzano insieme l’espressione non lascia dubbi sulla sua importanza. Ma la cosa che più colpisce è il fatto che «unheilbar Krebs» è un errore così come è scritto. Se volessimo far svolgere all’aggettivo «inguaribile» la sua piena funzione grammaticale, «unheilbar Krebs» si trasformerebbe per mezzo di un suffisso specifico in «unheilbarer Krebs» al nominativo o meglio ancora, dato il genitivo espresso nella frase, in «des unheilbaren Krebses».
Seppure la sovrapposizione di italiano e tedesco rendano vana ogni aderenza morfologica, una traduzione letterale imporrebbe in questo caso l’uso di un avverbio; per cui la resa più aderente di «unheilbar Krebs» dovrebbe essere «inguaribilmente cancro». L’errore, pensabile o impensabile, voluto o non voluto che sia, toglie e aggiunge qualcosa all’interpretazione, lasciando incerto il senso. Lo stesso fa il titolo, Non come vita, emistichio in corsivo della poesia I cari altri, testo d’apertura della sezione omonima — e conclusiva — del libro. Anche in questo caso dovremmo completare i termini di paragone del verso «non come vita, ma più di dormire o meno» almeno con un verbo di sostegno. Dovremmo, appunto, ma solo se al linguaggio non volessimo concedere la possibilità di rapprendere anche in modo inaspettato, sentendolo franare infine sotto i piedi. Perché il linguaggio è come un minerale: ha un volume e un rilievo che a seconda della struttura cristallina ottenuta non permette ad altro di convivere al suo interno: non al suffisso di un aggettivo, non a un verbo. Il linguaggio assume, per dirla con Simone Weil, grace et pesanteur definitive che vanno ben oltre categorie morfologiche e logico-sintattiche; più di questo, tuttavia, non gli è concesso; non gli è concesso in buona sostanza che il rispetto o l’infrazione alla regola.
È dunque necessario arrendersi per poter dire, specie se la volontà è quella di dire la morte: «Il peso dell’unheilbar / Krebs non ci sta / nella foto che parla / Di gialle foto in cerca su bianchi lenzuoli / obitori in feste di fiori come a macabri party». Nel contesto più ampio dell’immagine descritta, in cui il peso del cancro non può esser retto dallo spessore sottile della carta fotografica né tanto meno l’inganno delle tre dimensioni intrappolate sul piano basta a risolvere la questione dell’assenza, «il peso dell’inguaribilmente / cancro» è allora una constatazione del modo di agire della malattia. Come se il cancro, anche in questa occasione, fosse stato ancora una volta, nel modo più atteso e deludente, se stesso.
Non c’è alcun dubbio sul fatto che in Non come vita il cancro è un male capace di occupare inguaribilmente la scena, confondendo la patina gialla del passato con quella della pelle invasa dalla chemio: «Vent’anni e bionda, e tu solo gialla / per i prodigi dell’erbitux»; il cancro, inguaribilmente, non lascia neppure che la storia prenda un’altra piega, nonostante il dubbio corrisponda a una speranza ingenua, come è quella che si prova di fronte a chi soffre: «Chissà se ci arrivi a Natale, / di malattia incurabile si muore / (forse il cuore, sì, è stato il cuore che non ha retto) / ma solo dopo, / dopo l’estate». Ciononostante non è mai veramente possibile consolare un paziente, ma compatirlo casomai, ossia esercitare la capacità di “essere sofferenti insieme”: «È adesso che arrivano e schiude la cassa, si sceglie la foto, alcuni dicono condoglianze Si proseguiva con la cura di tre settimane Facciamo in modo che ancora non sappia Eppure mi sento meglio, oppure mi sento male, o non sarebbe meglio morire, e perché non posso vivere in pace».
Personalmente ho sempre pensato che debba toccare a chi soffre il compito di farci sentire meglio per il fatto di rimanere vivi, perché la cura del dolore, come preoccupazione e rimedio, è rituale cui ci avviciniamo con attenzione e cautela, sulla base di un divieto:
Al malato che poi muore
la cura è come in natura
riguarda le ripetizioni, le serie
i cancri non sono tutti uguali,
uno ha più foglie,
se è pieno di metastasi
l’altro è come un fiore
che lo stesso ti muore
Non calpestare
non calpestare
non calpestare
tra le sbarre dei letti
le sacche di sangue
che pendono come stami
e come tubi, gli steli
Non calpestare
non calpestare
i fiori
nelle aiuole.
Ma non si creda che sia soltanto il cancro l’argomento di Non come vita; di un certo modo di intendere il dolore e la perdita quel male è certamente la prosopopea più evidente; ma nel libro, in cui il poeta dipana — come scrive Andrea Cortellessa — «una sequenza di lutti» si compie la verifica de facto di una considerazione leopardiana posta in esergo e contenuta nelle Operette morali. Il passo, tratto dal Dialogo di un fisico e di un metafisico, è un momento cruciale del testo; il metafisico sta tirando le fila del suo ragionamento rispetto all’idea, sostenuta dal fisico, che la «vita è bene» e il vivere di meno non sia mai da preferire: «la vita infelice, in quanto all’essere infelice, — ribadisce il metafisico — è il male; e atteso che la natura, almeno quella degli uomini, porta che vita e infelicità non si possano scompagnare, discorri tu medesimo quello che ne segua». L’affermazione assiomatica impone al fisico di glissare; ciò mostra quanto mai la debolezza di questo interlocutore, che reputa la chiusa del metafisico «malinconica», liquidandola senza una vera argomentazione.
Gilda Policastro parte esattamente da dove si conclude questa parte di discorso affidata al metafisico; attraverso una storia che leggiamo nella forma di dialogo con un’assente, la questione dell’infelicità della vita è una smentita più che mai concreta alla domanda successiva del fisico: «rispondimi sinceramente: se l’uomo vivesse e potesse vivere in eterno; dico senza morire, e non dopo morto; credi tu che non gli piacesse?». Non serve allora vivere in eterno per rendersi conto che il dolore spetta dunque a chi resta. Per questo chi non è più ha il dovere di farci sentire meglio per il fatto di rimanere vivi; soltanto chi muore e non vive senza mai morire conosce il piacere che deriva da quello che Leopardi ha chiamato, con espressione felice, il «solido nulla»:
[…]
non si sente dolore, non si sente niente
Così vivono quegli altri, strisciando:
senza illusioni, già pronti al ritorno È così bello qui:
non si deve andare da nessuna parte
Si può rimanere fermi, e aspettare
oppure anche solo rimanere fermi
Stare così senza illusioni Già pronti al ritorno
È bello qui
Non si deve andare
da nessuna parte Si può rimanere fermi,
e aspettare
Si sta così bene
Non si sente dolore,
non si sente niente
Ma a chi lo dice il poeta di Non come vita tutto questo? Alla madre, che avendo provato sulla pelle quanto il cancro sia inguaribilmente cancro può adesso consolare — in un rovesciamento vertiginoso — l’infelicità dei vivi e il loro desiderio di ritrovarsi ancora con i suoi «cari altri»:
Mamma ti vengo a prendere, alzati,
dai aria alla stanza e, soprattutto,
fatti trovare.