di Giulio Maffii*
Questa breve riflessione è tratta dal saggio Le mucche non leggono Montale, edito da Marco Saya Edizioni, collana Graffiature, dove il discorso qui intrapreso e accennato è sviluppato in maniera più approfondita.
Nei moderni Social Network è un florilegio di versi ma la cosa che più colpisce è che alcuni personaggi oltre al proprio nome e cognome aggiungono “poeta” o più modestamente “scrittore”. “La poesia è l’arte tecnicamente alla portata di tutti”. Montale in un suo scritto certamente ironico descrive così, sintetizzando al massimo, un concetto tautologicamente chiaro. Un foglio e una penna e il gioco è fatto. Il poeta, un dilettante in ogni caso, è pronto; pronto ad inondare di parole il prodotto del disboscamento e a causare un intasamento delle linee internet mondiali. Mi viene da pensare ad un piccolo paragone che già Gardini ha colto. A chi verrebbe l’idea di diventare violinista, arpista o suonatore di corno senza una adeguata preparazione, senza conoscere la musica e le sue regole, senza aver ascoltato quello che intere generazioni di compositori e studiosi hanno lasciato in eredità ? Eppure il foglio e la penna sopperiscono ad un preciso, o impreciso che sia, percorso di formazione poetica. Se il declino della poesia si collega al processo iperproduttivo del business legato in particolare al sottobosco poetico, al narcisismo puro ed ovviamente ad una mancata sistematizzazione della critica degli ultimi quaranta anni, il declino del poeta è dato, e parlo per paradossi, dalla figura stessa del poeta.
La poesia è fondata sull’uso del linguaggio, non sull’autoreferenzialità come succede a partire dalla fine degli anni sessanta. Se l’antipoesia ha mostrato una strada interessante e innovativa, non voglio utilizzare l’abusato e improprio termine “sperimentale”, l’imborghesimento intellettuale dei post-nuovi poeti ha indirizzato il tutto verso un’autopoesia in cui l’attore è il poeta. La poesia sopravvive a se stessa, come nota Berardinelli, e concordo con questa affermazione: il poeta è inutile. Riprendo e ricordo il concetto di malentendu saliniana, di rigenerazione continua e spontanea dei versi. Il poeta è altro. La poesia soffre la crisi umana lacaniana: è un trauma del linguaggio che deve comunicare, arrivare, giungere, essere significante. Il problema è individuare l’io narrante. Il narcisismo è troppo elevato, l’io autoreferenziale avviluppa i testi, c’è un nobiliatro di teste pensanti. Luzi – il saggista in questo caso – mirabilmente illustra il concetto di vanità e di modestia. Il poeta deve essere naturale, usare la voce per altri non per essere egli stesso attore princeps. Deve combattere una sorta di petrarchismo che sembra affliggere generazioni intere, orgogliose, troppo, delle qualità personali a discapito della vera natura e naturalezza poetica.
Riprendendo il discorso iniziale su chi si auto pone la corona di alloro, si nota che il non-poeta lo si riconosce subito dai primi versi. Il parrocchiale, chiamiamolo così al pari dei pittori della domenica, non conosce varietà di dettato, di espressione. Valori connotativi e denotativi. Il linguaggio questo sconosciuto. Lo sguardo sarà sempre obliquo, i pensieri muti, insomma scrive sempre in poetichese, non ha uno stile personale che nasce da una ricerca e da uno studio continuo. Le similitudini e i paragoni sono sempre introdotti da un “come”, inzeppa di aggettivi la pagina scritta, non scopre parole, non osa, forse non conosce. E così si susseguono anima, vita, malinconia, pensieri, destino. In alcuni casi sparisce l’articolo determinativo o compaiono plurali poetici. La mancanza di solide letture pare evidente in ogni scritto. Talvolta appaiano pure degli orribili troncamenti, ognor, cuor, ben, cose di altri secoli. Il linguaggio evolve, evolve con noi, con la storia, con il parlato. Fa piacere vedere serie accademie che tentano il recupero di forme arcaiche in un tentativo spesso goffo di ritorno al neoclassico, o dal sapore di restaurazione, ma il contenuto è più importante del contenitore. La forma è un elemento basilare ma non è tutto. Sull’uso della metrica si potrebbe dire molto. Sulla conoscenza esatta di essa ancora di più. Se il ritmo è la base principale di una poesia, non è detto che il contenuto debba essere rappresentato ancora oggi da una forma chiusa. Tantomeno da un casuale vadoacapo. Il dato oggettivo che forse infastidisce di più è un uso smodato del termine IO. Il poeta deve vivere il linguaggio, si deve nutrire di esso. Ci deve entrare dentro, esplorarlo, fecondarlo, dargli vita. Penetrarlo fino a sviscerarlo, essere lui stesso le viscere trovando così la propria e personale via d’espressione secondo il concetto di mimesi. Per questo il ruolo della cosiddetta lirica è fondamentale. Mimesi non tanto nel concetto aristotelico di imitazione, ma in quello di Agnolo Segni, citando ancora Gardini, imitazione come creazione di immagini.
Nel 1926 Majakovskij pubblicava un piccolo saggio a memoria delle generazioni future, Come fare versi. Una riflessione, un trattatello autobiografico, ma solido sulla potenza creativa e su come si scrivono i versi. Anche qui il poeta grida A piena voce i suoi intendimenti poetici. Il poeta non inutile può trovarci suggerimenti validissimi di cui fare tesoro. Scrivere, buttare, scrivere, buttare ancora, tenere ed infine riscrivere. Questa è una pratica così semplice e che tutti dovrebbe seguire. Majakovskij sostiene che interminabili sono i metodi di elaborazione tecnica della parola, del linguaggio e che il basamento del lavoro poetico si trova appunto nell’ideazione di questi procedimenti. Argutamente osserva “I talmudisti della poesia che amano indicare ricette poetiche preconfezionate contorceranno forse la bocca per questo mio libretto”.
Nel mondo poetico è raro trovare l’umiltà di imparare e migliorarsi, ma altissima è la superbia di insegnare e di detenere la formula perfetta, di possedere il “dono” di essere gli unti di Erato. Majakovskij trae alcune conclusioni sul metodo attraverso la propria esperienza vulcanico-creativa. La poesia è creazione ed è creazione molto complessa che passa attraverso un vero e proprio apprendistato. Ci sono ancora oggi poeti che hanno intenzione di fare questo viaggio iniziatico di apprendimento o il foglio e la penna sono strumenti sufficientemente onnicomprensivi? L’innovazione del materiale e del procedimento, scrivere versi ogni giorno, avere un quaderno di appunti. Il poeta deve costruirsi un proprio mondo fatto di tante cose. Rinunciare alle frivolezze poetiche, vivere il centro delle cose e degli avvenimenti a lui intorno, il poeta deve combattere. Nicola Vacca ha parlato in maniera molto interessante di poeti in stato di vigilanza, pronti ad entrare dentro le problematiche, che siano sociali, politiche, esistenziali. Non solo osservazione quindi ma anche risposte pregnanti, dense, ricche di ragionamenti. Non soliloqui autocompiacenti. Per dirla ancora con le parole del poeta russo bisogna sbaragliare “l’insegnamento del rancidume estetico”. In pratica “solo il diverso modo di elaborare una poesia rende differenti i poeti, solo la conoscenza, il perfezionamento, l’accumulazione e la varietà dei procedimenti letterari “ possono combattere il declino della poesia e fare la differenza tra poeti utili ed inutili.
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*Giulio Maffii ha diretto la collana di poesia contemporanea e plaquette per le Edizioni Il Foglio, ha collaborato con Il Corriere di Catania e svolge opera di traduzione poetica. È stato uno degli organizzatori italiani del festival mondiale “Palabra en el mundo”. Ha scritto articoli critici sulla poesia del Novecento in particolare su Eliot, Fortini e Salinas. Suoi lavori sono stati tradotti in spagnolo, inglese e romeno. Tra le sue opere L’umiltà del poco (2010, Akkuaria) e L’odore amaro delle felci (2012, Ed.della Meridiana) con cui ha vinto il premio “Sandro Penna” per l’inedito. Nella sua produzione c’è anche la raccolta di racconti La caduta del tempo (2008 Il Foglio). Nel 2013 ha pubblicato, per Marco Saya Edizioni, un saggio breve sulla poesia dal titolo Le mucche non leggono Montale e Agli zigomi delle finestre (EPC).
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eppure si può praticare la poesia per propri passi, senza pretese di allori, ma solo per proprio diletto. si chiami pure dilettantismo, ma si ricordi che il dilettantismo è qualcosa di negativo solo da una prospettiva utilitaristica, eminentemente borghese, e se ne tragga le conseguenze del caso.
una poesia, per quanto brutta, rimane una poesia, si discerne dalla prosa, non dalla cattiva scrittura; poesia è il discorso in rima e ritmo dei rapper e delle più insulse canzoni di San Remo: c’è ancora un ruolo importante per la poesia, in quanto oggetto di consumo, sicuramente, ma anche in quanto vettore culturale, nella società contemporanea.
d’altronde anche il ruolo di sostegno assunto dalla lirica, nei confronti delle numerose personalità allo sbando che si appigliano ad illusorie immagini dell’aura autoriale per darsi un senso, una immaginaria rivalsa sulla società, non è da trascurare; in questo l’utilità terapeutica della poesia, per chi la fa, è un ottimo placebo.
il peccato di vanità dei tanti che si auto pongono la corona d’alloro rimane un peccato veniale, tutto sommato, a fronte delle scelleratezze ben peggiori che lo stato di sofferenza psichica presente in chi si impone la cura narcisistica dell’autorialità poetica potrebbe esigere.
tentare ossessivamente di riaffermare l’esistenza del proprio IO, in fondo, altro non è che mostrarne la tendenza alla sparizione, o quantomeno il timore di una sparizione: è un timore fondato, in una società che inculca una stima di sè fondata sul prestigio sociale, ma in cui, allo stesso tempo, la gran parte dei suoi componenti è impossibilitata ad assumere un ruolo sociale decente, o quantomeno definito.
aldilà di ciò che si può pensare di chi non riesce a guadagnare un ruolo di prestigio, che sia per incapacità individuale o ingiustizia sociale (non è il caso di sollevare questa annosa questione), è normale che tanti, ispirati da studi scolastici tesi ad inculcare un rispetto verso la letteratura e i letterati assolutamente inattuale, tentino di prendersi una rivalsa attraverso il gioco poetico e letterario.
i cattivi maestri, in questo, sono i grandi maestri della poesia del passato che studiamo a scuola: non si contano i danni fatti dal mito del genio romantico, dalla esaltazione della contrapposizione tra poeta e società di massa baudelariana, dallo sberleffo alle forme codificate e alle autorità letterarie delle avanguardie.
da questo punto di vista, si può considerare che il declino della poesia riguardi non tanto la poesia in sè, quanto le forme professionistiche della poesia lirica borghese, laddove forme differenti, aldilà della singola qualità dei testi (ma se, per esempio, si provasse a comprendere le logiche intrinseche al gioco del rap, si comprenderebbe che esso non è scevro di complessità, stratificazioni stilistiche, capacità espressiva), godono di una diffusione mai vista prima nella storia.
laddove, soprattutto, le forme espressive della poesia borghese sono assorbite dall’impossibilità di rinnovarsi in forme effettivamente nuove e dirompenti, tali da riscaldare i cuori e creare movimenti culturalmente significativi, sin dall’avvento delle avanguardie: una volta ucciso il chiaro di luna non lo si può resuscitare e uccidere di nuovo mille volte fingendo di fare qualcosa di nuovo, l’effetto è evidentemente grottesco.
La poesia, la vera poesia, la poesia vera si misura dalla sua distanza dai cliché.
Che sia poesia intimista o rivolta al sociale, se procede per stereotipi dentro forme stereotipate si evidenzia subito come non-poesia.
La poesia trova nel convenzionale il suo veleno.