di Gualberto Alvino*
Non si aderisce volentieri alla tesi vulgata secondo cui spetterebbe de iure la qualifica d’espressionista — anziché, semplicemente, di espressiva, espressivistica o plurilingue — a qualunque scrittura si stacchi dall’italiano medio caratterizzandosi per ricchezza di materiali, sfruttamento intensivo delle risorse linguistiche, centralità dei valori fonici a scapito dei tematici, gusto dell’esmesuranza e dei traslati violenti, propensione allo scorciamento e all’ellissi, scelte sintattico-lessicali rare con frizione di modi aulici e plebei. Un equivoco più diffuso e radicato di quanto si creda, persino tra i nostri migliori analisti: non ne è immune, per non segnare che un caso, un critico-linguista del calibro di Mengaldo, il quale non si perita, fra altri eccessi, di definire francamente espressionistici i seguenti passi montaliani di Fuori di casa e Satura: «Poi si levò un vento ostinato, il cielo accese di colpo le sue luci sanguigne, lo stagno di Vaccarès si punteggiò di guizzi, gli alberi sconvolti iniziarono la loro danza e un’immensa sinfonia di grida, di belati e di bramiti soffocò le nostre voci»; «Se potessi vedermi tu diresti / che nulla è di roccioso in questo butterato / sabbiume di policromi / estivanti»,[1] su cui regna non si dirà calma piatta ma ordine da ogni rispetto, appena increspato da innocui frisson lessicali.
Da respingere con pari fermezza, per la contraddizion che nol consente, i sempre più insistenti appelli a contemplare due tipi d’espressionismo: della visione e delle parole, verbale e “contenutistico”, «dell’invenzione più che della lingua»,[2] insomma: sociologico/delle forme, quasiché l’espressione non concernesse per definizione il modo di formare, bensì i presunti significati (che in letteratura la partita si decida infallibilmente in sede linguistica, che per ciò stesso l’unico e solo contenuto sia il significato del significante e non si dia sconciatura di cose senza torsione espressiva e viceversa, è truismo evidentemente arduo da metabolizzare, malgrado il magistero novecentesco). Donde filze sconcertanti d’aberrazioni; qualche esempio tra i mille: l’autore dei Viceré battezzato espressionista a pieno titolo in quanto «quello di Faldella è un espressionismo, sì, ma di parole, in confronto a quello di cose, e che genera mostri, di De Roberto»;[3] idem l’inoffensivo Sbarbaro, per la spiccata sensibilità al tema della moderna città industriale intesa come bordello o deserto,[4] e il linguisticamente appena notevole Carlo Villa per via degl’incubi, «i sogni di vendetta», le «abnormi fantasticherie erotiche»[5] che popolano i suoi romanzi.
Così, del tutto inascoltato, Dante Isella fissava i termini della questione alla metà degli anni Ottanta:
Una scrittura espressiva non è affatto trasgressiva del sistema, usa al contrario le potenzialità del sistema stesso. Ogni vero scrittore, in questo senso, è ‘espressivo’, in misura maggiore o minore. La lingua parlata, a sua volta, è più ‘espressiva’ di norma che la lingua scritta, sempre assoggettata a un grado più o meno alto di formalizzazione. E così via. […] Usiamola dunque questa parola [espressionismo], come necessaria, in quanto viene a significare una nozione distinta: non di sfruttamento delle virtuali forze espressive del sistema, ma di violenza al sistema. Questa violenza al sistema può esercitarsi a diversi livelli (lessicale, morfologico-sintattico, stilistico, metrico) ed è una violenza di rappresentazione della realtà che si fa trasgressione linguistica.[6]
Ebbene, dei tre autori — Clemente Rebora, Piero Jahier, Giovanni Boine — unanimemente annessi alla categoria entro il variegato e contraddittorio, tutt’altro che pacificamente espressionistico, scenario della letteratura fiorita intorno alla «Voce» («che pure accoglie: impressionismo puro e spicciolo, un nome: Soffici; eccitato moralismo che si racconta egotisticamente in forme diaristiche, un nome: Papini; cerebralismo secco in disadorna poesia: Cecchi, o in prosa + poesia: Cardarelli; frammentismo paesistico e naturalistico a tecnica d’acquarello: Linati; ecc.»),[7] è certo che solo il primo — come ha provato Bandini in un contributo tuttora insuperato —[8] meriti plenariamente il predicato per i costanti attacchi al cuore del sistema e, quel che più vale, a norma iselliana, per la traumatica rappresentazione del mondo incarnata in forme eversive: scelta in ogni contesto di toni e registri aspri; massiccia presenza di dispositivi drammatizzanti o di fusione (sinestesie ossimori parasinteti) e arcaismi non riconducibili alla «inattualità del linguaggio misticheggiante» ma a uno «stilismo espressionistico affannosamente proteso a foggiarsi i propri strumenti in un’epoca carente di modelli nuovi e che rifiuta contemporaneamente i vecchi esempi»; omissione nelle similitudini dei nessi logici al fine di stabilire «l’identità tra due enti, con un processo di analogia che fa vivere, in uno stesso sintagma, astratto e concreto»; abbondanza di verbi dinamici esprimenti rottura e disfacimento, i più a prefisso s‑ intensivo; conversione degl’intransitivi in transitivi-causativi («il corso che pullula luci») e dei transitivi-riflessivi in intransitivi assoluti («tu sgretoli giù morta»); cumuli asindetici in iterazioni spesso ternarie; figuralità inaudita e allucinata; sintassi giustappositiva fratta nei suoi membri paratattici poiché «ogni verbo è carico di forte significazione e si costruisce un senso autonomo sapientemente inserito, attraverso parole ricche di suono, nelle strutture metriche». Tutto ciò, si badi, a veicolar temi e motivi ben espressionistici (in senso proprio: senza di che l’etichetta risulterebbe inapplicabile), quali la perdita dell’aura; l’idea dello spazio come visione deturpante-straniante; «l’anti-rappresentazionalità, il rifiuto della mimesi del reale»;[9] l’opposizione «tra volontà e fede, ciecamente operose (la terra), e istanza d’eternità e amore (il cielo)»;[10] «l’inanità fallimentare dell’individuo»;[11] l’identificazione della parola col sentimento e l’Urschrei; l’orrore della città tentacolare, «affollata solitudine» in cui si compie ogni corruzione e nefandezza.
[…]
**Pubblichiamo l’incipit del saggio di Gualberto Alvino dal titolo La lingua sfigurata. Boine e Jahier, tratto dall’ultimo fascicolo, in corso di stampa, della rivista «L’Illuminista» (37-38-39, 2014) interamente dedicato all’Espressionismo letterario italiano.
[1] Pier Vincenzo Mengaldo, La tradizione del Novecento. Prima serie, Torino, Bollati Boringhieri, 1996 (19751), rispettivamente alle pp. 356 e 374.
[2] Cesare Segre, Punto di vista, polifonia ed espressionismo nel romanzo italiano (1940-1970), in Id., Intrecci di voci. La polifonia nella letteratura del Novecento, Torino, Einaudi, 1991, p. 41.
[3] Massimo Onofri, Il secolo plurale. Profilo di storia letteraria novecentesca, Roma, Avagliano, 2010, p. 81.
[4] Romano Luperini, Il Novecento. Apparati ideologici, ceto intellettuale, sistemi formali nella letteratura italiana contemporanea, Torino, Loescher, 1981, pp. 229-230.
[5] Cesare Segre, op. cit., p. 41.
[6] In Aa.Vv., Atti del convegno sul tema: L’espressivismo linguistico nella letteratura italiana, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1985, p. 83 (trascrizione di un breve intervento estemporaneo).
[7] Clelia Martignoni, Espressionismo tedesco e vociano a confronto, «Autografo», 30, aprile 1995, pp. 21-34, alla p. 22.
[8] Fernando Bandini, Elementi di espressionismo linguistico in Rebora, in Aa.Vv., Ricerche sulla lingua poetica contemporanea. Rebora, Salsa, Ungaretti, Montale, Pavese, pres. di Gianfranco Folena, Padova, Liviana, 1966 («Quaderni del Circolo filologico linguistico padovano»), pp. 3-35; i brani citati sono alle pp. 24 e 25.
[9] Clelia Martignoni, art. cit., p. 28.
[10] Gianfranco Contini, Letteratura dell’Italia unita (1961-1968), Firenze, Sansoni, 1968, p. 706.
[11] Ibid.
_______________________________
*Gualberto Alvino, filologo e critico letterario, si è particolarmente dedicato agli irregolari della letteratura italiana contemporanea, da Consolo a D’Arrigo, da Bufalino a Sinigaglia, da Balestrini a Pizzuto, del quale ha pubblicato in edizione critica Giunte e virgole (Roma, Fondazione Piazzolla, 1996), Spegnere le caldaie (Cosenza, Casta Diva, 1999), Ultime e Penultime (Napoli, Cronopio, 2001), Si riparano bambole (Palermo, Sellerio, 2001; Milano, Bompiani, 2010), Pagelle (Firenze, Polistampa, 2010) e i carteggi con Giovanni Nencioni, Margaret e Gianfranco Contini (tutti editi dalla Polistampa). Fra i suoi lavori più recenti, la curatela dell’ultima silloge poetica di Nanni Balestrini, Sconnessioni (Roma, Fermenti, 2008), Peccati di lingua. Scritti su Sandro Sinigaglia (ivi, 2009) e La parola verticale. Pizzuto, Consolo, Bufalino (Napoli, Loffredo-University Press, 2012). Nel 2008 ha esordito nella narrativa col romanzo Là comincia il Messico e nel 2011 ha pubblicato la raccolta di versi Da caccia, da séguita e da ferma. Collabora con diverse riviste accademiche e militanti, tra cui «Strumenti critici», «Studi e problemi di critica testuale», «Filologia e critica», «Studi di filologia italiana», «Italianistica», «Studi linguistici italiani», «Filologia italiana», «Ermeneutica letteraria», «Letteratura e dialetti», «Giornale storico della letteratura italiana», «Moderna», «L’Immaginazione», «L’Illuminista», «Il Caffè illustrato», «Fermenti», «Microprovincia», «Avanguardia», «Alfabeta2».