Filosofia/Saggi

Attenti al ‘lupus’. Ammalarsi di cristianesimo secondo Maurice Bellet

di Paolo Calabrò *

imagesIl pensiero di Maurice Bellet – filosofo, teologo e psicanalista francese che, nonostante abbia già pubblicato in Italia una ventina di libri, è qui ancora semisconosciuto – invita la cultura occidentale a fare i conti con il cristianesimo, della cui mentalità è da sempre intrisa, in particolare con quella tragica deformazione che nel suo irrinunciabile Le Dieu pervers (purtroppo al momento disponibile solo in francese)[1] Bellet ha stigmatizzato con il nome di “Dio perverso”.

Nei suoi tanti scritti[2], Bellet – prete cattolico dal 1949 – ha caratterizzato il cristianesimo come “malattia”. Ma è veramente possibile catalogare il cristianesimo in questo modo? In che senso, o quale suo aspetto? Cosa ne dicono i cristiani? E, soprattutto: esiste una terapia?

Ammalati di cristianesimo
Spesso il cristianesimo è stato considerato dai suoi detrattori una malattia: basti pensare alla critica sprezzante degli illuministi o a quella feroce di Nietzsche. In particolare, il cristianesimo è stato spesso caratterizzato come una malattia “autoimmune” (definibile come un malfunzionamento del sistema immunitario il quale improvvisamente aggredisce parti sane dell’organismo ritenendole erroneamente malate): qualcosa che – pur con le migliori intenzioni di salvare l’uomo – in realtà opera per la sua rovina. Ma stavolta non sono solo i nemici del cristianesimo a parlarne in questi termini, bensì gli stessi cristiani, vittime di un sistema di perversione che li ha condotti a odiare se stessi, la propria vita, lo stesso fatto di esser venuti al mondo. In tanti ne hanno fatto esperienza; ecco quattro esempi che raccontano, spiegano e fanno comprendere,  anche mediante i loro silenzi. [3]

È il caso di Adriano, che ci tiene a osservare la legge morale alla lettera, senza eccezioni, per poter essere “perfetto come il Padre che è nei Cieli” (Mt 5,48). Senonché, ben presto Adriano si rende conto che – una volta eliminate tutte le cose che bisognerebbe evitare per essere veramente perfetti – non sono molte quelle che gli rimangono: qualunque libro, qualunque film, qualunque ricetta gastronomica, qualunque gioco o svago potrebbe indurlo in tentazione, esponendolo a qualcosa di “non conforme”. Così egli fa l’esperienza di quanto gli andava dicendo quel vecchio monaco: “In materia di purezza morale solo tre cose sono permesse: la prima, niente; la seconda, niente, la terza, niente”. Ma purtroppo non finisce qui, perché di lì a poco Adriano fa un’altra scoperta: che ciò che vale per le cose, vale anche per le persone. Per essere perfetti, infatti, è necessario giudicare costantemente ogni affermazione, comportamento, proposta: ed è difficile stabilire un rapporto con chi si sente sempre giudicato, messo sul chi va là dal rischio che ogni sua idea venga giudicata inammissibile (così come, parimenti, è difficile per Adriano stringere amicizia con chi è costretto a guardare con sospetto, dove ogni occasione di incontro è materia di preoccupazione invece che di gioia). Così Adriano se ne va a casa da solo, dove certo non leggerà letteratura (che turba l’animo) né filosofia (che turba la mente) e forse riascolterà qualche disco di musica classica (che ha tra i suoi pregi l’essere senza parole: può celarsi di tutto dietro ai testi della musica moderna). Ma Adriano sopporta la solitudine e la privazione nell’intento di “accumulare tesori in Cielo” (Mt 6,19-23): è infatti convinto, così, di guadagnarsi il paradiso. Ma è veramente così? Difficile da credere, perché la morale che lui osserva lo porta a dei doveri e a delle rinunce che non si integrano con la sua natura e non la migliorano. Quando fa l’elemosina al povero, la fa per dovere; se non vi fosse obbligato, ne farebbe certamente a meno (magari pensando: perché dovrei preoccuparmi, se Dio per primo non se ne occupa né mi comanda di farlo? Del resto non è forse scritto – Gv 12,8 – che i poveri ci saranno sempre al mondo? D’altro canto non si può proprio dire che lui sia un grande amante o estimatore dell’umanità; anzi, lui detesta tutta quella quella folla immorale e incosciente che se ne frega dei comandamenti di Dio e si gode la vita). La sua morale non lo ha trasformato in un uomo buono; semplicemente, egli si comporta come se fosse buono, ogni volta che la morale glielo impone. Non ha cambiato il suo cuore di pietra (Ez 11,19). La morale lo sta rendendo migliore, avvicinandolo a Dio? Sembrerebbe di no. Per lo stesso motivo, è improbabile che gli stia “guadagnando il paradiso”. Quello che è certo è che la morale sta operando di fatto contro di lui: rendendogli la vita… un inferno.

Non è solo il caso di Adriano. Grazia, ad esempio, ama molto il suo Dio e sa di essere molto amata da lui. Anzi: lui l’ha amata da Calabrò_Belletsempre, fino a dare per lei sulla croce la vita del suo unico figlio. E per questo… non le chiede niente. Se non un’unica cosa: il suo amore. Esclusivo. Esaustivo. Totale. Si può veramente rifiutare un simile amore? Si può davvero non corrispondergli con una dedizione altrettanto totale? Certo, una dedizione realmente completa a Dio implica alcune cose: in primo luogo e soprattutto la rinuncia a se stessi, al proprio piacere, alla propria soddisfazione e realizzazione, perché qualunque cosa Grazia facesse per se stessa, per ciò stesso la starebbe facendo per qualcuno che non è Dio. In un certo senso, la starebbe sottraendo a Dio. Del resto, Agostino non diceva forse che il peccato consiste nel rivolgere le proprie attenzioni alle creature anziché al Creatore? Sta dunque togliendo qualcosa a colui che, per il suo sacrificio e per il suo amore infinito, merita tutto. Grazia non è un’ingrata: è ben intenzionata a dare tutto a Dio. Costi quel che costi. Fino a rinunciare alla sua stessa vita? Perché no: non è forse così che hanno fatto tutti i grandi santi? Eppure, nonostante questa determinazione ferrea, questo “patto d’acciaio” stretto nell’amore, qualcosa continua a non andare. Perché a un certo punto Grazia si accorge che il suo debito verso Dio… in effetti non si estingue mai. Come per certi Paesi del sud del mondo, il cui debito estero – man mano che viene rimborsato – non fa altro che aumentare. Sembra che tutto il suo darsi da fare sia inutile: poiché l’amore di Dio nei suoi confronti è infinito, lei non ha nessuna speranza di colmarlo con il suo amore finito (anzi, il solo pensare che sia possibile, sarebbe il più grande atto di arroganza che l’uomo possa immaginare nei confronti di Dio). Come ha fatto a contrarre un simile debito? Con il semplice fatto di nascere. La sua stessa nascita… è ciò che le impedisce di vivere.

Giustina è stata educata secondo gli adagi della devozione cattolica classica. Quello per cui la domenica bisogna andare alla Messa anche controvoglia, per dovere verso Dio, per dedicargli almeno quell’ora settimanale (il che l’ha abituata all’idea che a Dio si debba qualcosa) e che questi possa gradire anche ciò che è sgradito all’uomo; quello per cui si può anche soffrire per Dio, anzi, offrendo magari la propria sofferenza a lui (anche e soprattutto quella causata proprio dalla vita spirituale – il che l’ha abituata all’idea che Dio gioisca, o quanto meno apprezzi, la sofferenza dell’uomo, in specie quella derivante dalla pratica esplicitamente a lui, quella spirituale); quello per cui l’uomo merita la sofferenza, a causa della sua ambizione, ed è normale quindi che sia proprio Dio a infliggerla (come nel vecchio Atto di dolore: “Mio Dio, mi pento e mi dolgo con tutto il cuore dei miei peccati, perché peccando ho meritato i tuoi castighi”). Com’è il suo Dio? È un Dio che, mentre condanna il piacere degli uomini, ne esalta la sofferenza. Un Dio sadico e incomprensibile (e che vorresti capire tu, misero mortale? I misteri di Dio?) che come se non bastasse chiama tutto ciò “amore” e che per sovrappiù comanda di amarlo. Come altro si potrebbe etichettarlo, se non chiamandolo “Dio perverso”?

Carmela è la più sventurata  di tutti. La sua storia è semplice e amara: zoppa dalla nascita, è stata data in sposa a vent’anni ad un suo coetaneo scampato per miracolo a un terribile incidente, la cui madre aveva promesso in sposo – se avesse avuta salva la vita – a una ragazza “sfortunata”. Non dall’amore, dunque, ma dal voto disperato della madre di lui alla Madonna, nasce un matrimonio disgraziato nel quale i due sposi non solo non si amano, ma si ritengono reciprocamente responsabili della propria infelicità: lui vede in lei ciò cui è stato costretto; lei vede in lui quell’“occasione imperdibile che non capiterà di nuovo”, un treno per non si sa dove da prendere al volo, costi quel che costi, cui sua madre l’ha consegnata senza tenere in alcun conto i suoi sentimenti e desideri. Oggi Carmela ha settant’anni; suo marito è morto di recente e lei – con una serenità impressionante per quanto è glaciale – dice che solo adesso può finalmente cominciare a vivere la sua vita. Una vita fino a questo momento bloccata dalla devozione e dalla pietà.

Adriano, Grazia, Giustina, Carmela: quattro vittime di un cristianesimo malinteso e omicida. Come il lupus. Ma non ci sono solo le vittime, in questa storia già abbastanza triste, bensì anche i carnefici, vittime a loro volta di meccanismi simili che ne alterano il naturale sviluppo psicologico, spirituale, umano: è il caso dei tanti inquisitori e crociati di tutti i tempi (anche dei nostri), sempre intenti – nel più atroce autoinganno della perfetta “buona fede” – a far del male al prossimo “per il suo bene”.

Una terapia possibile: la morale “in movimento”
Bellet non si limita a fare la diagnosi di questa “malattia del cristianesimo” (che, per meglio dire, è una malattia di cui i cristiani si ammalano, chiamata appunto “cristianesimo”). Il filosofo prova a tracciare anche una terapia, qui di seguito delineata brevemente.

Primo punto: riscoprire e rimettere al centro della spiritualità il valore e il senso della vocazione, che unitamente al primato della coscienza personale (attestato e confermato dal cristianesimo di ogni epoca) sancisce la condizione di possibilità del tanto problematico “non giudicare” del Vangelo: nessuno può giudicare l’altro perché nessuno può pretendere di sapere meglio dell’altro cosa sia buono o cattivo per lui (argomento approfondito da Bellet nel suo Vocazione e libertà, ed. Cittadella).

Secondo punto: trarsi fuori dalla “tirannia del «bisogna»”; bisogna credere, bisogna operare, bisogna praticare, ecc. La parola di Dio, la creazione, l’umanità stessa non comincia con “bisogna”, ossia con il dovere dell’uomo verso Dio, ma con “Io vi dono”, cioè con l’amore di Dio verso l’uomo. Esso, proprio in quanto “dono”, non prevede alcuna restituzione né compensazione (altrimenti non sarebbe un dono, ma un prestito).

Terzo punto: rinunciare definitivamente alla morale “scritta”, quella codificata nei tanti decaloghi e catechismi, sorta di punto fermo dove nulla cambia mai e al quale è sempre possibile tornare, indifferenti ai mutamenti, alle trasformazioni, agli sconvolgimenti che interessano (e spesso affliggono) l’umanità circostante. È il luogo delle certezze “per tutte le stagioni” (“Non uccidere”, “Non farti tante domande: troppa curiosità viene dal Maligno”, “Coricati la sera con le braccia distese lungo il corpo”); se poi la realtà non riesce a trarre nessun giovamento da queste certezze, be’, tanto peggio per la realtà. Esse, verità eterne, continueranno a possedere il loro valore intrinseco.

Rinunciare alle certezze, dunque: e dopo? Dopo, una volta lasciato il punto fermo dove tutto è sicuro (ma immobile), ci si potrà finalmente mettere in cammino: non più con la propria morale “scritta”, ma con una nuova morale “a voce”, fatta per gente che viaggia a piedi e che, quando incontra qualcuno o qualcosa, è perfettamente in grado di coglierne i dettagli, le sfumature, le contraddizioni. Una morale che, come la voce, vola, non permane: non si fissa in prescrizioni e procedure, ma si innalza nell’opera sempre diversa (e sempre uguale) del qui ed ora. Come il parto: sempre lo stesso, ma ogni volta unico. La nascita dell’uomo. Come “afferrare” questa voce? Di cosa parla? Cosa dice al pellegrino che ha freddo, che ha fame e sete (e non solo di giustizia – Mt 5,6)? Dice che l’unica moralità possibile è rimanere vigili sempre sull’altro, vegliare costantemente sul suo bene come se si trattasse del proprio stesso bene (trattare il prossimo come se stessi); non il mero ascolto dell’altro, ma una specie di “sorveglianza attiva”. Ogni uomo è responsabile del proprio fratello (Gen 4,9).

Conclusioni
Davvero è possibile “ammalarsi di cristianesimo”? Si può pensarla al riguardo come si pare, ma al di là di ogni teoria non è difficile incontrare un parente, un amico, un collega, un conoscente che ne presenti tutti i sintomi: intransigenza morale o dottrinaria (sovente insieme), profonda e spesso inconsapevole assenza a se stessi e al proprio desiderio, sorprendente mancanza di empatia. Segni di una mutazione curiosa e inquietante, che vede la degenerazione del cristianesimo – religione dell’amore e della gioia (Gv 15,11) – a religione del dovere, della tristezza e del risentimento; la quale, tutta protesa a salvare l’anima degli uomini nell’aldilà, non sembra farsi scrupolo di distruggerne la vita nell’al di qua. Pur essendo un meccanismo presente altrove (ad esempio negli ambiti ideologici, anche laici), il cristianesimo ha presentato (e continua a farlo) un terreno particolarmente fertile a questa sindrome. Come è possibile? Questa domanda richiede un’analisi che non è possibile condurre nello spazio di un articolo e che il filosofo ha sviluppato nel citato Le Dieu pervers. Ma quella che ci tocca più da vicino, con maggiore urgenza, è probabilmente un’altra domanda: siamo ancora in tempo a venirne fuori? Nonostante la diagnosi impietosa, Bellet ha una buona notizia al riguardo: “nessun uomo è condannato” ed “esiste sempre e per chiunque, anche nel caso peggiore, una seconda possibilità”. Ma la terapia va iniziata subito. Il cristianesimo del futuro ci attende.

[1] Ed. Desclée De Brouwer, Paris, 1979.

[2]Si rimanda qui in particolare a La Via (ed. Servitium, 2001), Il corpo alla prova (ed. Servitium, 2000-II ed.) e L’estasi della vita (ed. Dehoniane, 1996); P. Calabrò, La verità cammina con noi. Introduzione alla filosofia e alla scienza dell’umano di Maurice Bellet (ed. Il Prato, 2014).

[3] I nomi sono di fantasia, ma le esperienze descritte sono vere,  raccolte da chi scrive nel solco dell’insegnamento di Bellet. Quanto si dirà è, dunque, il frutto di una elaborazione personale dell’autore. Ma il “materiale umano” è originale.

**Il presente saggio di Paolo Calabrò è in uscita  nel volume in corso di  stampa Letteratura… con i piedi, a cura di Alessandro Ramberti, Fara, 2014.

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Paolo Calabrò*Paolo Calabrò, laureato in Scienze dell’informazione e in Filosofia, gestisce dal 2009 il sito ufficiale di Maurice Bellet in italiano (www.mauricebellet.it). È redattore del settimanale «Il Caffè» di Caserta, del mensile «l’Altrapagina» di Città di Castello e della rivista online «Filosofia e nuovi sentieri». Collabora con il mensile «Lo Straniero» e con il bimestrale «Testimonianze». Ha pubblicato La verità cammina con noi. Introduzione alla filosofia e alla scienza dell’umano di Maurice Bellet (Il prato, 2014); Le cose si toccano. Raimon Panikkar e le scienze moderne (Diabasis, 2011) e diversi articoli sul pensiero di Raimon Panikkar e Maurice Bellet, l’ultimo dei quali è “Lo scandalo dell’unicità. La proposta ontologica di Raimon Panikkar”, appena apparso sulla rivista brasiliana “Conjectura: filosofia e educação”.

4 thoughts on “Attenti al ‘lupus’. Ammalarsi di cristianesimo secondo Maurice Bellet

  1. Mi unisco al giudizio di Dianella Bardelli, e aggiungo che le argomentazioni potrebbero essere tranquillamente ampliate ad altre religioni monoteiste.Abbiamo modo di riscontrare che Il ” lupus ” non è esclusivo del cristianesimo.

  2. Si ma non si sfugge al punto cruciale: la scelta di valore morale che deve necessariamente essere assoluta e non contingente per avere appunto valore e deve implicare il giudizio. L’etica presuppone la scelta di valore e il giudizio di valore. Neanche l’a-etica (con a privativo, alla greca) nietzscheiana le sfugge, ma consente perlomeno infinite contraddizioni – e quindi infiniti smantellamenti di un’unica posizione e scelta morale, proprio perché colloca l’unico assoluto nell’atto di volontà, ma individuale e quindi eternamente e necessariamente contraddittorio con gli altri atti di volontà e potenza; la controbilancia solo l’accettazione dell’eterno ritorno delle cose (unico assoluto pensabile in Nietzsche in un mondo dove domina “la volontà che vuole sé stessa”).

  3. @furio: Bellet non elude la questione della posizione del valore, ma la imposta in modo nuovo: poiché non c’è nulla di assoluto nel nostro mondo relativo (ciò che lo avvicina Raimon Panikkar), si ponga come fondamento non un “assoluto” (che, appunto, non esiste), bensì l'”assolutamente necessario”, che è ciò che di volta in volta emerge come esigenza irrinunciabile per l’uomo. L’assoluto si mette così “in movimento” e “cammina” insieme ai dolori e alle aspirazioni dell’uomo. Difficile condensare in poche battute questa questione tanto importante per la quale mi permetto di rimandare – scusandomi fin d’ora – al mio “La verità cammina con noi. Introduzione alla filosofia e alla scienza dell’umano di Maurice Bellet” (ed. Il Prato, 2014). Grazie per l’attenzione.

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