Poesia/Saggi

L’”imploded realism” di Cristina Annino

di Mary Barbara Tolusso*

Coraggiosi, noncuranti, beffardi, violenti – così ci vuole
la saggezza: che è femmina e sa amare solo il guerriero

Friedrich Nietzsche

Più di quarant’anni di poesia. È il percorso di Cristina Annino, un viaggio destinato a continuare ma che intanto ha donato un esito di non poco conto: un linguaggio che scuote alle fondamenta le certezze presunte dell’atto poetico come tale. In fondo, scrive l’autrice nella raccolta L’udito cronico,[1] «niente esiste che mi si ponga / davanti piatto, senza / sbalzi di luce». Che poi non è altro che quell’«intima disgregazione» già affrontata nel libro d’esordio, datato 1969.[2]

img003Leggere Cristina Annino non è impresa facile;  all’inizio dobbiamo affidarci ai maestri che l’hanno sostenuta e che continuano a sostenerla, da Franco Fortini, Elio Pagliarani a Maurizio Cucchi e Walter Siti. Non è semplice leggerla da un punto di vista storico perché comporta una contestualizzazione precisa.  Annino esordisce in un periodo in cui l’eccitazione della lingua poetica divide i suoi adepti in scuole di pensiero e di scrittura. Ma non è facile decifrare Annino soprattutto da un punto di vista intellettuale. Non è sufficiente, per questo poeta, risalire il corso del fiume avanguardistico fino al grado zero della scrittura, fino insomma ai tentativi, più o meno riusciti, di far esplodere i codici letterari per raggiungere quello «stato neutro della forma» vagheggiato da Barthes. Se qualcosa di incontrovertibile può essere detto di Annino, questo riguarda proprio la sottrazione a uno stato neutro della forma. Un’operazione ancora in atto, iniziata nel 1969 e prolungatasi fino a oggi, passando attraverso le più intrepide proposte degli anni ’80, Madrid sopra tutte, edito da “Corpo 10” nel 1987 e ripubblicato da “Stampa” nel 2013. Madrid è indubbiamente il testo che conduce il lettore all’apice dello spaesamento, tanto che leggendolo si potrebbe esercitare un transfert del celebre aforisma nietzschiano: Dio è morto, scriveva Nietzsche, ma forse non è Dio a essere morto, potremmo aggiungere leggendo Annino, forse lo è la lingua, tenendo bene a mente che nulla è più in vita di qualcosa che si dichiara finito. Credo che nessuno abbia risuscitato Dio più di Nietzsche. Allo stesso modo Annino, con Madrid, affoga ciò che i più intendono per vitalità della lingua, ovvero la sua comunicabilità, facendola perciò risorgere. È un fatto che Annino non è poeta la cui lettura è accessibile a tutti. Non lo è non per questioni snobistiche, di incomunicabilità pensata, di logiche concettuali che vorrebbero fare della poesia un ostico oggetto dell’ermeneutica. La visionarietà della sua scrittura è spontanea, quanto di più reale e di intellettualmente onesto. Annino non pensa: vede. Non ragiona: sente. Ogni sua operazione (direi azione) intellettuale ha a che fare con il corpo quale strumento fondamentale di conoscenza, metodo di apprendimento che coinvolge in eguale misura l’emozionale e il cognitivo. Nella visione delineata dall’autrice la ricezione fisica riveste un ruolo attivo e costitutivo che apre la strada al verso. Non c’è possibilità di entrata, in questa poesia, senza una priorità sensibile, quasi forse sensitiva, da parte del lettore. La cosiddetta «comunicabilità» lineare deflagra in direzione di un tipo di conoscenza (e coscienza) percettiva. Scrive in Gemello carnivoro,[3] nella poesia Curriculum: «C’è un tempo in cui / i miei organi, / a stecche dieci, van sopra / i vestiti». L’es-porsi del corpo è topos che percorre tutta l’opera di Annino, la sua carne è incisa dai segni con cui la poesia di volta in volta lo connota, sottolineando nella stessa molteplicità di lettura la sua ambivalenza. Torace, denti, cuore, polmoni, dita, vene, bocche, braccia, schiene, ossatura, nervi, occhi, nelle loro evocazioni sinestetiche e connessioni metonimiche, si offrono immediatamente come una chiave d’ispezione e quindi come esperienza senso-percettiva, ancor prima di assumere significato per l’intelletto. E se è vero che la poesia tenta di ricomporre una qualche verità, Annino si impegna a frazionarla, respingendo il formalismo della comprensione (di ciò che si vorrebbe Tutto e Uno) e sostituendolo con l’informazione sensoriale diluita a pezzi: «Si fraziona tutto di una persona», scrive, «Sale / le scale con i piedi, va all’altare col busto, dorme / con i reni e scrive con la mano che la donna / gli manca nella carne. Non in tutto». Una visione in cui l’accento è posto sull’interconnessione esistente fra coscienza e percezione. Tutto è attraversato dal corpo, proprio o altrui, anzi sovente il corpo dell’altro è un formidabile specchio. La poesia, dice Annino, «è tutto quel che si guarda».

La predilezione per l’ordinarietà, l’occhio fisso al basso, al quotidiano è una componente ampiamente sviluppata in poesia. Tuttavia l’angolatura assunta da Annino è inedita, la sua è una visione ossimorica, affonda radici nelle prospettive più semplici e comunque inenarrabili. L’originalità prorompe nel particolare processo sviluppato in questo sguardo non ascrivibile all’interno di linee o tendenze. Elio Pagliarani aveva rilevato una debole corrispondenza tra la libertà espressiva di Annino con Miller e Bukowski. Per quanto si possa rimanere disorientati da questa osservazione, vero è che l’eco di certi autori emerge, esclusivamente nelle prime opere e non certo quale affiliazione di certo dirty realism. Poesie come C’è un cane in questa casa[4] ci possono restituire qualche assonanza con alcuni testi bukowskiani (L’uccello azzurro, per citarne uno). Ma in Annino la fedeltà al basso è destinata a esprimersi e a svilupparsi in una sorta di, appunto, minimalismo deflagrato, qualcosa che ha già fatto i conti in anticipo con la mera registrazione  di un fatto e con il grado zero di scrittura; una sorta di imploded realism, più che altro, una guerra sotterranea alla parola già risanata e riassorbita nell’ordinarietà del paesaggio e delle sue inedite metafore. Una sorta di doppio passaggio che non si accontenta della semplice costruzione retorica ma, con una ulteriore immersione, ne purifica gli elementi che ne stanno all’origine, reinventando le parole del senso comune. Come ha perfettamente osservato Eugenio Miccini, nell’opera di Annino c’è un andare oltre il parlare figurato rispetto al parlare normale. Annino compie un’operazione che si spinge più a fondo, più provocatoria. La sua «deviazione» avviene a monte delle figure retoriche che sceglie e della stessa lingua con cui le compone, già lì il poeta pratica la sua inventio. In questo modo le parole recuperate dallo stesso sermo humilis, prima di essere investite in nuovi processi sinestetici e metaforici, hanno già subito un’implosione, sono già deflagrate in una prima manovra di risanamento, a cui seguirà un ulteriore sviluppo retorico. «La realtà pare, in tal modo, sulla soglia di casa, eppure ci sfugge», scrive Miccini. Se Annino vuole ideare un’immagine sinestetica con la parola «tavolo», state certi che quella scrivania, scrittoio, cattedra o banco ha già subito una ri-creazione, di cui rimangono flebili residui originari. Da cui, appunto, le violente scomposizioni sintattico-logiche di cui questa poesia è impregnata. Nessuna «educazione» con le parole, rapite e violentate piuttosto. D’altra parte che dovrebbe fare un poeta? «Ruba nelle case poi torna / a casa sua». Nessuno dei dodici libri pubblicati sino a oggi raccolgono dichiarazioni di poetica quanto Madrid. Un testo sulla scrittura, fondamentalmente, il punto di equilibrio e di fuga verso un orizzonte leso ma pur sempre visibile. Contrariamente a ciò che si potrebbe pensare, Annino non è mai metafisica, un’etichetta talvolta comodamente applicabile a ciò che non si comprende. I suoi «contenuti», i suoi salti sintattico-logici sono sempre sostenuti da significanti, atti, eventi profondamente materici, irrobustiti talvolta da una singolare vena ironica, spesso grottesca. Lo scarto tra la matericità dei segni e il disorientamento delle concatenazioni di senso conduce quasi a un rovesciamento leopardiano dove se «nel pensier mi fingo», qui invece potrebbe accadere che nel sogno, nel pensiero o addirittura nel silenzio m’incarno: «nel sonno imparo cose del mio / corpo non facendo niente». Insomma le immagini trascinano il lettore là dove il poeta tenta di riassorbire la contraddizione nel suo intento ri-creativo. Poesia e natura seguono un medesimo processo di necrosi e la scrittura si fa un pellegrinaggio di segni che producono tante piccole morti, segni sul bordo del buio che diventa sinergico elemento di corrosione, ma anche di risanamento. Certo è naturale, si mette in crisi il proprio rapporto con il pubblico: in questa forma dilatata la sensazione è quella di impedimento nel prendere contatto con una logica attendibile del testo che si ha davanti anche se, forse, un linguaggio con il proprio senso interno che sappia dire da dove giunge e comprendersi non esiste. L’effetto si chiama: straniamento. Tanto più in poesia è attributo necessario: diffidare dei significati lineari. Ciò non implica incomunicabilità, semplicemente è l’esigenza di una partecipazione attiva del lettore con gli strumenti che l’autore mette a disposizione, con il linguaggio che si inventa. Annino, fin dall’inizio, ci fornisce tutti i suoi attrezzi, con meticoloso impegno percorre un tragitto che implica la perdita del pensiero (e luogo) comune. Lo fa con passi precisi e calcolati, ignorando la gratificazione cognitiva di chi è intento a leggerla, per accendere, casomai, quella estetica. Di testo in testo, fino all’Udito cronico,[5] quei residui di «sobrietà» americana, evidenziati da Pagliarani vengono ferocemente intaccati. Potrebbe sembrare una sottrazione di ogni significato sicuro, per progressiva tabe del linguaggio, e lo è nella maniera in cui ci si ostina a passare dalla porta larga. Annino invece lascia aperte le porte strette e le chiavi appese alla soglia (compresa, tra le altre, la chiave del transfert delle declinazioni e dei generi di persona maschile / femminile). Madrid è il vertice di questo passaggio. Dopo averci condotto a fatica sulla sua strada, trascinati in un’area dove siamo rimasti, un po’ per gioco, un po’ per orgoglio, a cercare la via di un qualsiasi ritorno, a tentare di snidare un senso. Dopo che ci siamo costantemente interrogati sul come e sul perché sia così complicato mettere in atto le nostre capacità di adattamento per assorbire e rielaborare nuove informazioni. Dopo esserci detti soddisfatti di aver compreso, finalmente, una parola del tutto insignificante, ma forse, in qualche misura, rivelatrice di una qualche evidenza, di quella presunta fusione tra soggetto e oggetto che il gioco della letteratura esige. Dopo esserci pensati anche come degli idioti a caccia di senso, ma purtroppo includendo anche l’idiozia in una tortuosa dimostrazione che potesse aggiungere un granello di significato. Solo dopo tutti questi penosi movimenti Annino si fa compassionevole e decide di tornarci incontro, non senza aver fatto esplodere la lingua, passando attraverso Madrid, appunto. Dopo Madrid la lingua è finalmente pronta a una qualche linearità, ma risanata, bonificata. E il fatto straordinario è che tale risanamento è avvenuto con la materia, non certo con la speculazione. È avvenuta con il corpo. I tanti corpi, più o meno proiettivi, che incrociamo in questo percorso in cui non si vede, ma si guarda: figure, azioni, reazioni. Scrive nel libro successivo, Gemello carnivoro, in un titolo che è già una dichiarazione di poetica, L’arte di ricomporre le cose sconnesse:

[…] Io arrivo su
strada più acciuga di ieri; si lascia
mangiar viva dai piedi che non la rivedi se anche
ti giri subito. Quante
bestie ci dà la natura, a essere intuitivi! dentro
corpo, fuori lo stesso. Finora
ho fatto cose ben fatte. Detto, sono stato mattina
presto e narici. M’ha invidiato
il destino più d’una volta, poi
sono esploso. Ma si
romperanno dopo la schiena a leggermi.

Il cosmo avaro; il lavoro cosmico d’una
parola. Non la mette lì il caso. Pesa.
[…]

Testo che si conclude sottolineando come «Declinando / troppo al poker si perde».
Versi decisivi, esposti come un insignificante aneddoto per dimostrare come, in realtà,avvicinarsi senza alcun rischio non significhi altro che allontanarsi.

Da Gemello carnivoro a Casa d’aquila,[6] a Magnificat[7] e  fino a Chanson turca[8]è in atto una nuova e acquisita alfabetizzazione,  in cui riemergono gli echi pregressi di una forma che ha subito un’implosione. Casa d’aquila, per esempio, datato 2008, è libro in qualche misura più vicino a Ritratto di un amico paziente[9] del 1977, più di quanto lo sia Madrid, edito per la prima volta nel 1987. Quello che voglio dire è che Casa d’aquila  recupera quella fragile sobrietà degli esordi, ma rigenerata, rinnovata. Rimane lo smottamento dell’asse sintagmatico, ma i versi si stendono in un quadro più prospettico, nonostante le tradizionali categorie retoriche ci appaiano ormai un concetto obsoleto. E non è a quelle che attingiamo per entrare in Annino. C’è una sorta di simbolismo nuovo e intuitivo nel riflettere i limiti del nostro esistere. Si ripropone, insomma, quel «midollo» vitale di whitmaniana memoria già celebrato e destrutturato in Madrid, ora più disteso, ma sempre elettrizzato, Magnificat, appunto, un grido di riconoscenza e liberazione. I componimenti emettono un canto lirico senza cantare («La retorica, topo grazioso, inquina»), nella pura pronuncia che diviene necessità, quotidiano nutrimento, sia ben chiaro, sempre all’interno di quel imploded realismdi chi è costretto a una assoluta contiguità con le cose. Un realismo che ormai – imploso com’è – non ha bisogno di eccessivi scarti logico-sintagmatici, sconnessioni semantiche, concatenazioni metonimiche. Ormai i segni sono naturalmente polivalenti, le parole elementi chimici capaci di reagire a più sostanze. Ci appare quasi naturale se Annino ci dice che al pino gli nitrisce la cima. Magnificat entra nel labirinto che le è destinato, la vita, con le sue figure del bene e del male, luoghi e cose della separazione, dove la descrizione si mescola a un movimento demistificante, sostenuto da una franchezza illesa e da una «barbara fedeltà all’Altezza». In Annino, la fedeltà all’Altezza è tutta investita in una sorta di fedeltà al basso, alla seducente verticalità di quei piani orizzontali, come scrive Maurizio Cucchi, Annino «perlustra un umanissimo ambiente quotidiano». È ciò che succede anche nell’ultimo Chanson turca (Lietocolle, 2012), testo caratterizzato da una pietas che prevede anche incursioni ironiche, non per desacralizzare, piuttosto per inquadrare. Nell’affresco ci entrano tutti. Chanson turca è una sorta di patchwork dove è arduo non solo distinguere il genere (maschile / femminile), ma anche la specie. Una zecca, una mosca, un fungo da escrementi possono fare le veci dell’umano. In fondo lo dice il titolo: è una musica da turchi, e le cose da turchi non si affidano esattamente al galateo, ma all’esagerazione. È una musica barbara insomma, ma non selvaggia, tendenzialmente crudele, ma non spietata:  «E che facciamo, / allora, di questo / pezzo di / libertà, la lecchiamo? in questa / mezz’ora di tempo, inventiamo / storie d’un celeste tale, che il colore / le salva?». È come se Annino ci dicesse che abbiamo poco tempo per formulare una necessità di senso, poco tempo per darci delle risposte. Tanto più quando il poeta ci dimostra quanta poca differenza c’è tra noi e un topo, nonostante tutto ciò che non sia io, nonostante tutto ciò chedi apparentemente diverso incrociamo tolga un po’ di quel nullismo (non nichilismo) che ci abita. In linea con il senso tragico occidentale, le figure di Annino – animali, umane, vegetali o inorganiche – acquisiscono sempre qualcosa di eroico. I personaggi – costantemente bombardati da quel realismo imploso – ci conducono per mano dall’allegoria al dramma, vivono sulla cresta del linguaggio. Che sia il gatto Koko, dei sacchi di sporcizia incastrati in una parodia dell’epica, l’Annunciazione di una verza o il Destino di Enrico, sono sempre gli stessi rappresentanti di un qualche dramma dell’aldiquà, c’è sempre un corpo misterioso, una causa perduta e un cuore appassionato privo di orpelli. Tanto da ricordarci qualche fool shakespeariano. È un tipo di personaggio che emerge, in prima o in terza persona, il giullare saggio che parla per instaurare dubbi, per rovesciare un credo. In Annino i fool parlano per dare voce all’autore stesso. Ci sono molti buffoni simili a quello di Re Lear oa Yorick di Amleto, folli sapienti sotto mentite spoglie: «Così il bello degli altri, d’avere / le stesse idee, / gli rompe il cervello / per bene»è testo che potremmo infilare tranquillamente in bocca all’uno o all’altro. E c’è sempre, anche in Chanson turca, quella surrealtà sostenuta dal corpo, il passaggio tra figurato e reale, tra qualcosa che assomiglia a un mondo inventato e la realtà. Un confine, questo, che può assomigliare a ciò che Proust aveva distinto nel delicato passaggio tra sonno e veglia. Nel primo libro della Recherche Proust ne descrive il tratto: «Questa convinzione sopravviveva per qualche secondo al mio risveglio; non scombussolava la mia ragione, ma premeva come un guscio sopra i miei occhi impedendogli di rendersi conto che la candela non era più accesa». Come a dire che il passaggio da uno stato all’altro non è automatico, tanto che nel narrato sarà poi il fischio di un treno a dare nuovamente rilievo alla realtà. In Cristina Annino quel fischio è talmente forte da immetterci immediatamente sul binario della matericità, anche quando abbiamo la tentazione di lasciarci catturare dall’intangibile.È una poesia «esclusiva», quella di Annino, la poesia si ritrova al tempo stesso esclusa dalla possibilità di afferrare il tutto e di colmarne la mancanza. Una scrittura che fin dall’inizio pone molte più domande che risposte, allontanando ogni possibile tentazione di ruolo. D’altra parte il poeta, per essere tale, non ha da arruolarsi. Quello che la poesia di Annino fa è mettersi in ascolto del mondo, provando a starci dentro pur consapevole che il suo gesto poetico la voterà, anche, all’esclusione. Identificarsi in un «ruolo» significherebbe avere la pretesa di dislocare la propria consapevolezza al di fuori del mondo, di estraniarsi nel «ruolo» che ci si dà per poi magari giudicare il mondo, senza però averlo ascoltato, visto, sentito, esperito. Annino pratica il contrario, ancora prima di qualsiasi operazione intellettuale, Annino guarda, sente, esperisce. E poi tenta di scrivere storie celesti, come lei stessa suggerisce, non sicuri che quel colore ci salverà. Ciò non implica alcuna inoperosa rassegnazione, piuttosto il coraggio di una battaglia sotterranea, la pratica continua di una differenza e di una lacerazione: il tentativo di sostenere un’armonia tra il particolare e il tutto. Per farlo ci vogliono occhi corrotti dall’esistenza, disposti a salire verso il basso del nullismo. Per questo, l’unico ruolo tradotto nei versi di Annino è quello di vacante, di nostalgico della mancanza e dell’impossibile, praticato sul corpo, eseguito nel segno, senza alcun impianto ideologico.

 

[1]L’udito cronico, in Nuovi Poeti Italiani n. 3, Einaudi, Torino, 1984.

[2]Non me lo dire, non posso crederci, Téchne, Firenze, 1969

[3]Gemello carnivoro, I quaderni del circolo degli artisti, Faenza, 2002.

[4]Il cane dei miracoli, Bastogi, Foggia 1980.

[5]L’udito Cronico, cit.

[6]Casa d’Aquila, Levante editori, Bari, 2008.

[7]Magnificat, Puntoacapo, Novi Ligure, 2009.

[8]Chanson Turca, Lietocolle, Como, 2013.

[9]Ritratto di un amico paziente, Gabrieli, Roma, 1977.

 

***

PAGLIA A VOLO CON CÉLINE

Non guardarla mai, non somigliarla
nemmeno; è fumo, certo, un gran
fuoco di paglia che abbaglia tutto.
In tale insonnia va avanti, poi
le scope lo fan saltare chi l’ha
messe lì? Nessuno può capire
il senso, ormai fuori com’è dal
vaso di Pandora.

Io gli credo. Noi spavaldi
nella nostra salute; quando
gonfia le gote viola, e a vanvera,
dice il traffico dell’emicrania
e la gara col sonno. Che gli tranciano
il viso con la pala sinistra.

“E’ il Novecento un’aurora?”
Macché! Non è vero, nessuno
è importante. Coi paragoni
ingrandisce anche un nano.
Punto. Poi perde, scappando,
semini di carne.

Che dire? Anche fuori dall’universo,
Céline tossico in astinenza, palleggia
occhi a terra, due mine. L’aurora
l’aveva con sé, tra le mani, come pure
la paglia. Con quel pigiama di
notte, ogni volta un canestro.

(componimento edito online su L’Estroverso VII, 2013, n.4)

** Il presente saggio uscirà sul prossimo numero di “Caffé Michelangiolo”, Mauro Pagliai Editore, Firenze.

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mary 01*Mary Barbara Tolusso vive tra Trieste e Milano dove lavora come giornalista. Ha pubblicato i volumi di poesia L’inverso ritrovato (Lietocolle, 2003. Premio Pasolini 2004), Il freddo e il crudele (Stampa, 2012. Premio Fogazzaro 2012) e Mea infera caro nella collana di ricerca Edb edizioni (2012). Ha collaborato con la rivista Almanacco dello Specchio (Mondadori). Dal 2005 si occupa della sezione under 35 del Premio Cetonaverde Poesia. Ha pubblicato il romanzo L’Imbalsamatrice (Gaffi, 2010) e nel 2013 il volume dedicato a Trieste della collana Grandi scrittori del Nordest, diretta da Gian Mario Villalta. Per Lietocolle dirige la collana poetica Apolide ed è redattrice del Nuovo Quadernario di Poesia diretto da Maurizio Cucchi. Suoi testi sono stati tradotti in spagnolo, sloveno e inglese. Alcune sezioni delle sue raccolte sono state inserite in Nuovi Argomenti e Almanacco dello Specchio (Mondadori).

 

 

 

11 thoughts on “L’”imploded realism” di Cristina Annino

  1. Con questo bel contributo fanno centro in tre: Tolusso, con un saggio acuto e sagace, preparatissimo, fedele e all’altezza dell’oggetto dello studio; l’accessibilità della poesia di Annino non è vero che sia difficile (dipendendo la volontà e l’interesse per la lettura dal lettore e non dall’autore) ma certo contributi critici di calibro come questo non possono che invogliare ad avvicinare i libri di Annino. E come implica la lettura di Tolusso, questi libri non deludono, ripagano chi legge spalancando un mondo intero, e per di più un mondo che amplifica e potenzia quello in cui siamo.
    Fa centro Annino, con questo testo inedito in cui ci avverte che dopo la notte dei tempi se pensiamo che il ‘900 sia il principio di un nuovo giorno ci sbagliamo, questa supposta aurora è un fuoco di paglia, e noi spavaldi se pensiamo a magnifiche sorti e progressive basate sulle conquiste dell’ ultimo secolo faremmo meglio a ricordarci che “Coi paragoni / ingrandisce anche un nano.”
    E infine fa centro Céline, l’ennesimo canestro insonne in pigiama al termine della notte, perché qui Annino fa da sentinella, da monito, da portavoce, e non ha certo paura di citare la fonte, questa volta letteraria, dell’allarme che invia con questo testo. “Io gli credo”, e noi pure.

  2. Annino è i sensi raddoppiati. In lettura e letture. Schiariture, “scurature”. Mi chiarisce sempre, leggere questi spigoli di mondo e di tempo, questo temperamento che forse è un sesto e settimo senso. Credo sia una forza questa poesia, una forza della natura, che si è mangiata la cultura. Congratulazioni, e saluti. Giampaolo De Pietro

  3. Bellissimo questo inedito di Cristina Annino, uno sguardo lucido e saldo, di profondità impeccabile e di densa qualità espressiva. Cristina Annino tiene la parola dal primo all’ultimo verso senza mai cambiare posizione, riuscendo, nel contempo, ad offrirci un testo che è un organismo complesso, vivo e spalancato. A cui credere. Grazie, Cristina.
    Silvia Comoglio

  4. Ho scoperto la scrittura di Cristina Annino su un pdf di Madrid reperito quasi per caso, una piccola folgorazione. La sua poesia, così densa, forte, mai senza pause nè ottundimento la rendono una delle migliori poetesse italiane viventi, e speriamo continui a scrivere nella sua beata complessità.

  5. La poesia di Cristina attinge da sempre dalle arti visive e diviene un preciso cesello meta-realistico, un patchwork del linguaggio in continua tensione. Nel suo ultimo libro, in ordine di tempo, questo fattore è evidente, come anche negli altri suoi precedenti lavori, sempre formatisi come veri e propri “quadri” verbali, dove un occhio/tinozza attinge dal nero le forme più sgargianti di un reale parallelo ma aderente perfettamente alle cose, nel loro interno più vero. Difficile trovare altri modelli, nell’attualità, che sappiano coniugare così bene immagine, ossia senso, e ritmo, ossia respiro. La poesia di Cristina è pregna di modernismo, nel senso più illuminante, e ad ogni sua uscita ci si ritrova sempre davanti a piccoli capolavori di struttura vivente, di materia viva, incisa sul foglio.

    Un caro saluto,

    Bux

  6. che bel saggio di Mary Barbara! Complimenti! Non è facile scrivere di Cristina, che io amo particolarmente. Oltre che amica – nonostante ci sia visti un paio di volte- Cristina è il novecento internazionale che ripulsa (nel senso di pulsare di nuovo), e come ha detto bux è davvero pregna di modernismo. Vorrei dire che leggere la Annino fa venire la malattia della speranza, ci sembra di essere tornati ragazzi, di essere nel 1968, quando lei esordì, di aver preso la macchina del tempo. Certo, quella Time machine continua a tornare indietro ( o avanti) perché la poesia della nostra “frau”, come la chiamo io, gioca come dire su due tavoli; sta nel modernismo ma anche nell’oggi, e ci racconta la vita come se essa, spesso, fosse un’installazione, o un cortometraggio, o uno sketch da commedia dell’assurdo. Cristina “spacca”, c’è poco da fare. E’ unica e irripetibile.

    Franz Krauspenhaar

  7. Difficile, arduo direi, aggiungere altro a questo approfonditissimo saggio di Mary Barbara Tolusso.
    Quindi mi limito a confermare per intero ciò che ho letto della sua poesia, come sempre colpita dalla molteplicità delle invenzioni espressive, quasi obbligata a una rilettura per meglio metabolizzarle, per coglierne i minimi dettagli, ed essere magneticamente trascinata nel suo immenso mondo poetico.
    Ed è proprio grazie a questa necessità di introiettarle, che le sue poesie lasciano il segno non solo nell’intelletto, ma nell’anima.
    Grazie a Cristina
    e grazie a Mary Barbara Tolusso

    cb

  8. Complimenti per il contributo critico di Mary Barbara Tolusso, soprattutto per la sua riflessione sull’aspetto “esclusivo” della poesia di Cristina Annino, fuori da impianti ideologici, come viene detto con acume. Un testo che evidenzia l’originalità della sua poesia, la difficile se non impossibile collocazione in griglie di canoni, restrittive per i suoi versi. Con la poesia di Cristina la mente deve continuamente rifarsi foglio bianco, rigenerare le sue facoltà cognitive e riattivare i sensi, aprirsi al “sesto e settimo senso” come scrive in un commento Giampaolo De Pietro. Questo testo è l’ennesima nuova conferma anche per Samgha, una tra le riviste più interessanti e curate.
    Un saluto a tutti

    LC

  9. Veramente un nuovo bel saggio, una profonda lettura dell’intero lavoro di Cristina Annino, uno dei migliori.
    E poi questo inedito potente testo poetico, che umanamente, si e ci trascina in quell’ordinario quotidiano disumanizzante.
    Come scrive Mary Barbara Tolusso [...] la visionarietà della sua scrittura è spontanea, quanto di più reale… Oppure riporta di Maurizio Cucchi [...] perlustra un umanissimo ambiente quotidiano…
    Direi – la poesia è lì –
    Brava, Bravissime
    Ronaldo Fiesoli

  10. Aprire un discorso critico su C:A: , o meglio proporne una rilettura a distanza antologica, a prima vista può parere lavoro di giusta ricostruzione critico antologica, ma è piuttosto la seconda d offrirsi ad un lettore attento: come chiave di riscoperta di stupore, di offesa anche, patita nello sguardo e nell’orecchio (cronico) che le si addice (al lettore). Cioè è in una accesa sintonia, vorremmo pensare (quasi) sincronica, tra orecchio –lettore e sguardo autore, che si colloca la possibilità di esatta dizione e riascolto dell’opera.Che rimane aperta, IN PROGRESS INIFINITO. Come nell’ ”opera” per eccellenza accade, quando è vera, e circola- circonda la vita intera durante la vita stessa in durata di scrittura.
    Per inaugurare quell’acceso presente che domina e dimora nella sua opera perpetua: Una primavera della conoscenza, che sorge sorgiva di nascita ma anche sorgente di altre più implicate ispirazioni successive: perché è la continuità che ci rapisce, dalla prorompente vitalità giovanile delle primissime poesie imperative e icastiche, di attacco al quartier generale della quiescenza sensoriale, conoscitiva e poetica del mondo e dell’altrettanto (spesso) conformismo di certa avanguardia più mimetica che ribaltante, più chiassosa che pronunziante o più semplicemente corale, che individuale. L’Annino nei cori ci va stretta, assume posture scomode e dopo un po’ diverge, devia, fa centro altrove.Come accade a chi se la vive un pò da apolide la sua nascita poetica, non ci sono mai patrie sufficienti recintanti: un esempio: nell’ Udito cronico, C.A. si pone in azione subito: antilirica, antinominale, antiontologica essa va rifondarsi entro un predicato iterativo. Essa pronunci a, svolge, predica, non invoca, m a battezza, chiama a sé le creature aggruppandole, come Noé ha fatto per salvare sull’arca prima e dopo un diluvio, così Cristina gioca e sposta il peso di certe figuralità e figure come statuine vive e bellicose, sanguinanti del teatro del mondo: tutto questo stride e (la )ferisce nel profondo, urta, crea, scompensi e dissuona o consuona: come in certi modi dell’onirismo surrealista, ma calcando la mano sulla mise en scène, essa li recita li vive e fa vivere come un regista fuori e dentro il campo.
    Come ne Las meninhas, essa si sposta e si identifica, una Woolf è stato detto, che si attacca ogni personaggio ma per seguire il divenire istantaneo e magnifico dell’attimo. Solo che, non onde del vivere ma salti, circuiti anelli della narrazione saltano e si ricreano solenni: lo spostamento spiazzamento del soggetto, la rappresentazione di interni esterni che continuamente girano in una scena fanno un effetto di narrazione visiva cinematografica altamente intensiva, come se quanto si volesse più trasmettere fosse il dinamismo l’èlan vital allo stato puro, una specie di big bang energetico palpabile, cui tutti potrebbero avere accesso nella magia della creazione artistica e o poetica, e al pubblico della poesia è dovuto.
    Un apprendista stregone che nascosto, può mostrare i cataclismi ma nascondere la mano. Come questo sai, può passar per accostamenti metonimici violenti, ossimori, sinestesie veloci e fulminee, ma in assoluto accordo cromatico acustico, verrebbe di dire, il tutto per restituire quella velocità d’azione e in azione che mostra la vita. La scintilla che la concepisce, i suoi passaggi dall’organico al mentale , il suo terno metamorfico giro. Poetica democritea, lucreziana, di intendimento dalla parte delle cose stesse, per una metafisica rovesciata? Sta di fatto che i processi psichici ne sono inchiodati e immortalati e pèr sempre, nel lo spasmodico e vano contorcersi, quadri baconiani, da smorfia a riso a bestemmia in un’ immanenza mozzafiato che sommerge se non fosse per quel suo rigettarsi in circolo (vitale).Essa, l’Annino, vuole scrivere una sorta di antibiografia che diviene un auto biologia, infatti. Ma così facendo ne iscrive le più scavate vene, ne svela una radiografia impietosa che oggi divenuta più musicale, più pacata e nitida, riccamente dotata di sintesi lirica nuova inedita. Dall’antilirica al suo emiciclo potente di ricongiungimento ellittico, quasi quadratura del cerchio, senza mai chiuderlo…lunga vita a la poesia !MPia Quinavalla.

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