di Teresa Caligiure
Lo studio dei classici e della storia antica, nell’ultimo cinquantennio, ha subìto un sensibile declino, sia nelle scuole che nelle università. Da tempo, tale fenomeno ha suscitato discussioni e polemiche; inoltre, diversi sono i pareri a riguardo e gli appelli per non disperdere il sapere umanistico o separarlo, erroneamente, da quello scientifico.
Aver frequentato il liceo classico e aver intrapreso lo studio di materie umanistiche in università vengono oggi reputati un limite per inserirsi nel mondo del lavoro. Come è possibile considerare un fattore “debole”, e fuori concorso dall’attuale società, lo studio di discipline fondamentali per la formazione dell’uomo, quali la storia, la filosofia, la letteratura e le scienze umane, che hanno dato un forte impulso allo sviluppo di ricerche fondanti e di scoperte scientifiche eccezionali, contribuendo anche a dare vita alla società dell’informazione? Quale il senso profondo dello studio della storia antica per comprendere le dinamiche politiche, economiche e sociali del presente? Quale il valore della memoria?
Gli interrogativi su cui riflettere e di cui prendere atto sono diversi. Discutiamo tali aspetti insieme al Professor Giusto Traina, docente di Storia romana presso l’Université Paris-Sorbonne (Paris 4), storico raffinato, che ha dedicato una cospicua serie di pregevoli contributi allo studio dell’antichità, occupandosi in particolar modo di Geografia storica del mondo antico, Armenistica e Storia militare dell’antichità, e che recentemente ha curato la nuova edizione di Ronald Syme, La rivoluzione romana per la casa editrice Einaudi (2014).
Perché il mondo antico è diventato un interesse di nicchia?
Più che «mondo antico» parlerei di «mondo classico»: non complichiamoci subito la vita e restiamo, almeno per ora, nel territorio dei greci e dei romani. Che poi anche questo territorio è piuttosto sfaccettato: per quanto strano possa sembrare a un ‘profano’, chi si dedica agli studi classici acquisisce certo un’infarinatura nelle varie materie del suo corso di studi, ma di fatto, con la complicità di insegnanti seri ma poco curiosi, si specializza quasi subito in una delle branche disciplinari: gli storici antichi restano così separati dai classicisti (=letterati e filologi), e ancor più dagli archeologi. Ci sono poi i cultori di filosofia antica e dei diritti dell’Antichità, e qui l’isolamento è spesso totale. L’eccesso di specializzazione ha forse giovato agli studi, ma al tempo stesso ha accelerato il suicidio professionale dei classicisti, rendendoli ancora più «di nicchia». E pensare che una decina di anni fa, proprio per garantire la sopravvivenza dello studio dell’Antichità nei licei, era stata proposta l’istituzione di un docente unico di «antichistica» per il biennio. I classicisti, che temevano di perdere terreno e postazioni, rifiutarono sdegnosamente e ora sono nei guai anche loro. Un tale stato delle cose ha finito per ripercuotersi anche nella produzione editoriale più divulgativa o comunque meno erudita. E quei pochi antichisti che sono riusciti a conquistarsi uno spazio mediatico, quando non lo utilizzano per le proprie battaglie personali, non possono fare più di tanto. D’altra parte, tanto per dire una banalità di troppo, il mondo cambia. Un tempo gli studi classici aprivano la strada a carriere oggi impensabili: si pensi a Carlo Azeglio Ciampi, che prima di diventare Presidente del Consiglio e poi della Repubblica era stato Governatore della Banca d’Italia. Beh, prima di prendere una laurea in giurisprudenza alla fine della guerra, Ciampi studiò lettere classiche alla Normale, laureandosi su Favorino di Arles. Quello del Presidente Ciampi non è un discorso isolato: nel Regno Unito, un diploma in Classics a Oxford o a Cambridge era spesso il trampolino di lancio per carriere molto meno ‘umanistiche’. È un punto che potrebbe fornire materia di riflessione tanto per aggiungere nuovi materiali ai discorsi da Café du Commerce che si tengono quotidianamente sui social: basta fare un giro sui gruppi Facebook rivolti a classicisti giovani e meno giovani per assistere a ricorrenti geremiadi sul crollo dei valori e degli studi greci e latini. Certo, a differenza dei discorsi da caffè, nessuno sembra proporre soluzioni, e le sensazioni più diffuse sono il malessere e la confusione. Comunque, a eccezione della solita minoranza di curiosi onnivori, il lettore colto o semicolto che decida di concedersi un viaggio nel tempo cercherà comunque di navigare verso le destinazioni che più lo rassicurano, e l’editore cercherà di proporgli dei titoli che non lo spaventino troppo. E tuttavia, gli editori italiani mi dicono che la storia antica, insieme alla storia contemporanea, continua a ‘tenere’, e questo significa che un interesse da parte dei lettori c’è. Certo, il lettore medio è un po’ più sprovveduto: libri che fino a vent’anni fa si potevano tranquillamente proporre anche a un pubblico colto sembrano oggi dei mattoni forse ben documentati, ma ostici ai più. Il conservatorismo proprio a queste discipline non giova al ricambio, anche perché gli autori italiani in grado di presentare l’Antichità classica con uno stile reader-friendly sono troppo pochi. L’alternativa è quindi tradurre testi stranieri, ma questo implica costi aggiuntivi e contribuisce ad alzare il prezzo dei libri.
Quale attenzione viene dedicata alla storia in un’epoca in cui il tempo da riservare alla cultura, alla lettura e all’ascolto, sembra essersi ridotto?
La domanda è un po’ spiazzante. Va bene, Samgha è una rivista di letteratura, ma in fondo la storia fa tuttora parte della Repubblica delle Lettere. Che ne direbbe la musa Clio? Scherzi a parte, a quanto mi risulta, in Italia i festival della storia sono frequentati con la stessa assiduità di quelli di letteratura, poesia o filosofia. Basta fare un salto in libreria per ritrovare un minimo di ottimismo: in Italia gli scaffali di storia sono ben forniti, e ben più che in passato. Magari mancano i libri di ampia divulgazione, tipici di una certa produzione anglosassone, ma chissà, forse è meglio così. E chi non ha una buona libreria a portata di mano, oggi può procurarsi tutto on line. Poi, esattamente come per la letteratura, tutto sta a conciliare contenuto e forma: tutta la storia è di per sé interessante, ma se il libro di storia è anche ben strutturato e ben scritto, secondo me può dare al lettore un piacere superiore a quello che ricaverebbe da un romanzo intimista elegante ma vacuo, o da un libro di poesia formalmente corretto. Anche qui, comunque, molto dipende dal grado di curiosità e dagli interessi del lettore colto o semicolto: ad esempio, molti si interessano alla storia locale (non è il mio caso). Purtroppo, non tutti i libri di storia invogliano alla lettura. Le opere che riscuotono maggior successo di critica e pubblico sono quelle di storia contemporanea, se non altro per l’interesse più immediato dell’argomento, ma anche in questo campo non è sempre facile trovare un libro che sia al tempo stesso interessante, originale, solido e piacevole. E poi, per vendere, va assecondato anche il narcisismo del lettore: meglio evitare i temi troppo astrusi o di nicchia. Detto questo, chi ama veramente la lettura, e non la considera solo come lo specchio del proprio ego, è anche mosso da una certa curiosità. E non dimentichiamo un vantaggio fondamentale rispetto ai letterati: non esistono gli storici borderline.
Storici borderline? Si spieghi meglio.
Una delle conseguenze della nostra «società dello spettacolo» è, come accennavo prima, il narcisismo del lettore. Un tempo i lettori narcisisti erano nascosti, e comunque rispettavano di più il confine tra autore e lettore. Al massimo, qualcuno pagava qualche editore senza scrupoli per farsi stampare il « romanzo nel cassetto». Oggi, la frontiera tra l’autore e il lettore è più porosa. E se da una parte questo è un bene, c’è anche il rovescio della medaglia: la proliferazione dei letterati borderline. L’Italia brulica di questi aspiranti scrittori, poeti e anche filosofi. Sono gli antieroi non più tanto nascosti del ceto medio semicolto, talvolta alimentati dal sottobosco dei premi locali, che svuotano i propri cassetti virtuali imperversando sui blog e sui social, con esercizi perlopiù deludenti, e che nei casi migliori ci regalano vere e proprie perle di umorismo involontario a portata di un clic. Insomma, la legione degli «scrittori non pubblicati», secondo la mia definizione i letterati borderline. Non c’è una categoria analoga per lo storico. Magari c’è lo storico pazzoide e complottista, ma quello borderline no. La ragione è evidente: non si può scrivere la storia senza prima documentarsi, laddove il letterato borderline si lancia senza ritegno, appoggiandosi una frotta di sodali che si incoraggiano a vicenda, flirtano, magari litigano: tante parole e tanto tempo rubato alla lettura e allo studio. Invece lo storico può essere mediocre, ottuso, piatto, e ogni tanto salta fuori anche il gaglioffo plagiario. Borderline mai. Anche perché, per la gioia di tutti, non avrebbe un pubblico.
Con quali motivazioni oggi dobbiamo leggere un libro che ha per tema la storia antica?
Faccio rispondere una voce più autorevole: «Il bisogno pratico, che è nel fondo di ogni giudizio storico, conferisce a ogni storia il carattere di “storia contemporanea”, perché, per remoti e remotissimi che sembrino cronologicamente i fatti che vi entrano, essa è, in realtà, storia sempre riferita al bisogno e alla situazione presente, nella quale quei fatti propagano le loro vibrazioni » (Benedetto Croce, La Storia come pensiero e come azione, 1938). Aggiungerei che tutta la storia è contemporanea quando chi la scrive è consapevole di fare realmente storia, andando oltre l’erudizione e della risoluzione di problemi puntuali. Va da sé che per la storia antica si tratta di una questione particolarmente delicata, anche perché non tutti gli studiosi di storia antica sono sensibili alle altre discipline storiche. In ogni caso, un buon libro di storia antica può diventare un classico ed eventualmente resistere al tempo. Un esempio particolarmente calzante è The Roman Revolution del britannico Ronald Syme, pubblicato per la prima volta nel 1939, e scritto proprio mentre Croce pubblicava la citazione da me proposta. Il libro narra il passaggio dalla Repubblica al Principato, con le ultime guerre civili e la presa del potere da parte di Augusto. Syme parlava di «rivoluzione» con amara ironia, alludendo a un’altra presunta rivoluzione, quella del regime fascista. Ecco, il 18 agosto scorso sarebbe bastato leggere o rileggere Syme per evitare di celebrare a sproposito il bimillenario della morte di un personaggio spietato e senza scrupoli come Augusto, un «terrorista» secondo la definizione di Syme. Ma magari ne riparliamo.
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*Giusto Traina (Palermo 1959), dopo il dottorato in storia antica (1990), è stato ricercatore presso l’università di Perugia (1993-1998), professore associato e quindi ordinario di storia romana presso l’università di Lecce (1998-2001-2004), professore a contratto presso l’università Paris VIII (2004-2007), incaricato del corso di armeno classico presso l’università cattolica di Lovanio (2004-2007), ordinario di storia greca presso l’università di Rouen (2007-2011). Dal settembre 2011 è ordinario di storia romana presso l’Université Paris-Sorbonne (Paris IV). Dal 1 ottobre 2014 sarà membro dell’Institut Universitaire de France per un periodo di cinque anni.
Ha diretto la sezione su Roma antica della Storia dell’Europa e del Mediterraneo della Salerno Editrice. Dirige la Revue des études militaires anciennes, è vice-direttore di Iran and the Caucasus e ed è membro del comitato di redazione di Le Muséon Il suo 428 d.C. Storia di un anno (Laterza, 2007) è stato tradotto in quattro lingue. Con il libro La resa di Roma. Battaglia a Carre, 9 giugno 53 a.C. (Laterza, 2010) ha vinto l’edizione 2011 del premio “Cherasco Storia”. Ha curato la nuova edizione di R. Syme, La rivoluzione romana (Einaudi, 2014). Lavora attualmente a una storia del Regno d’Armenia (188 a.C.-428) e a una storia globale delle guerre civili romane tra il 44 e il 30 a.C.
Il Prof. Giusto Traina afferma che non esiste la figura dello storico Border LIne. forse perché non conosce le piccole realtà locali dove invece questa figura prolifera anche grazie alle sovvenzioni di enti comunali, associazioni di ricerca storica legata al territorio o diretti finanziamenti da parte dell’autore. Le pubblicazioni partono come ricerca su argomento o personaggio legato al luogo specifico per essere poi inserito in un quadro epocale più ampio.
Facendo le debite proporzioni la quantità dei Border.Line risulta equivalente a quella letteraria.