Non capita spesso di cominciare un libro e di finirlo tutto in una volta. Uno se lo ricorda bene quando gli succede. È andata così anche nel caso di Valerio Nardoni e del suo romanzo d’esordio, Capelli blu (Editore e/o, 2012). Si tratta di un raro esempio di scrittura essenziale, in apparenza molto semplice, quasi fraintendibile. In realtà, non c’è una parte del testo in cui la semplicità della lingua comprometta la sua funzione primaria, quella che traduce in espressione il pensiero. La comunicazione, come l’ha intesa Moravia in un suo splendido racconto omonimo (tuttavia, tra i meno conosciuti dello scrittore), è anche il dato essenziale del romanzo di Nardoni.
Una volta detto questo possiamo metterci a raccontare la storia: Capelli blu è un noir che non ha bisogno dei cliché del genere, neanche della ragazza morta, che pure c’è, nonostante si possa credere per buona parte del libro che non lo sia veramente. La sua struttura prevede un intro (come quello di una colonna sonora), che è il vero e proprio Capelli blu del testo, tre parti dove si racconta di un ragazzo, Jilium, che non sa se ha realmente commesso un omicidio, e un conclusivo Dopo, in cui la trama si scioglie senza colpi di scena. La cosa veramente interessante è casomai che la risoluzione, quella che conta, avviene dall’interno, ed è per il protagonista una questione di ridefinizione dei significati, come si comprende dal suo dialogo più importante, quello con lo psicologo che lo aveva seguito fino al momento dell’arresto:
«Però mi sarebbe piaciuto sognare di portarmi una morta in casa: cosa vuol dire questo? L’avevo stesa ai miei piedi…»
«Be’, sì, questo…» iniziò a dire.
«No, non è questo», lo interruppi: «Mi sono informato. Se è la nonna» gli dissi, «indica saggezza: gioca il 17. Se è una donna morta, longevità: gioca il 45. Ma questo non si sapeva».
La ricostruzione delle differenze e lo sdoppiamento finale delle immagini creano le giuste associazioni nella testa di Jilium: così, l’interferenza tra i capelli blu di una ragazza da cui si sente attratto e quelli di una ragazza di cui si crede l’omicida si risolve nell’immagine concreta di Manuela, la collega di Jilium cha fa le pulizie nel supermercato di quartiere. I suoi capelli blu sono una traduzione di significati ben precisa dall’interno all’esterno che risolve ciò che era rimasto in sospeso fino a quel momento, lungo l’arco di «millecentodieci giorni». La testa del protagonista è talmente ingombrante rispetto allo svolgimento dei fatti che è necessario seguirlo sia in prima persona che in terza, attraverso una serie di “note di scena” liberamente tratte da El fósforo astillado di Juan Andrés García Román. In apparenza, nulla di strano, neanche nel caso di un debito intrattenuto nei confronti di una raccolta di poesie in lingua spagnola. Invece questa è la cosa che davvero conta, perché Nardoni è uno dei massimi traduttori di poesia della nostra generazione. La pratica della traduzione è la chiave di svolta che permette di capire come sia possibile entrare ed uscire da una vita, quella del testo originale, per comunicarne il senso attraverso il testo tradotto. I dialoghi di Capelli blu sono i luogo di maggiore concentrazione di questi passaggi e permettono alle vite raccontate nel romanzo, che si tratti di quella del protagonista o che siano esistenze marginali non importa, di farsi intellegibili. Tradurre la visione del mondo dell’autore in ognuno dei personaggi scelti, dando loro una voce consona, è una questione di verità, che è poi il tema principale del libro. Non è un caso che la necessità di una comprensione, specie quella della propria identità, si faccia ancor più necessaria dopo la traduzione in carcere di Jilium, durante i millecentodieci giorni in cui vi resta chiuso: «Dovevo capire, ogni giorno c’era qualcosa da capire. Lì dentro imparai presto a distinguere un “loro” da un “me”, un loro sempre più grande e un me sempre più fluttuante». Non è neppure un caso che in prigione Jilium legga poesia: «Io continuavo a leggere, perfino poesia — Neruda, la Szymborska, Sandro Penna — che invece mi era sempre sembrata un imbroglio della scuola». Quando Alvaro, il migliore amico di Jilium, lo andrà a prendere fuori del carcere, la prima cosa che si sentirà dire è proprio questa: «I libri li ho lasciati». Comunicazione avvenuta.