Non sono sicuro di aver conosciuto veramente Peppe Fiore. Ricordo un ragazzo molto simpatico e cordiale che si chiamava esattamente così. Lo incontrai a Roma, dove vivevo allora, tramite un’amica in comune. Era il 2003: il Peppe Fiore che mi fu presentato era di Napoli, come di Napoli è l’omonimo scrittore di Nessuno è indispensabile (Einaudi 2012). Di quell’incontro, mi è rimasta in mente la prima cosa che disse la nostra amica in comune quando io e quel ragazzo ci stringemmo la mano: «Lui è Peppe Fiore, e presto diventerà uno scrittore». È per questo che a distanza di più di dieci anni leggere il suo nome sulla copertina di un libro mi ha fatto ripensare a quell’incontro. Sulla quarta di copertina del romanzo vedo che nel 2005 Fiore ha pubblicato la sua prima raccolta di racconti. Forse era proprio lui il ragazzo che avevo incontrato nella capitale, e forse quella mia amica aveva avuto ragione. Il motivo principale per cui ho comprato Nessuno è indispensabile e l’ho letto è stato questo: capire se quelle due persone omonime fossero in realtà la stessa persona. Per farlo, mi sono basato su questa sola suggestione, nulla più e nulla di meglio che abbandonarsi a un pensiero piacevole quando si comincia un libro nuovo. In più, l’illustrazione di Franco Matticchio per la copertina del libro mi piaceva molto: la parte anteriore di un corpo di mucca il cui muso si poggia su un completo da impiegato mi era da subito sembrata la degna intuizione di un bestiario contemporaneo. Un ultimo elemento per me significativo, dato il mio recente ingresso nel mondo del lavoro «Made in Italy», era la frase riportata in copertina: «I colleghi sono persone fino a un certo punto».
Nulla di più vero: il microcosmo lavorativo implica una serie di relazioni interpersonali la cui natura è vera, ma solo fino a un certo punto. Se dei colleghi non si può fare a meno durante le ore di lavoro, prescinderne una volta lasciato l’ufficio diventa nella maggior parte dei casi quasi necessario. La sovrapposizione di due dimensioni, quella lavorativa e quella personale, si riduce spesso a un tentativo di integrazione che richiede un’apertura indispensabile, ma che non si vuole pur sempre concedere. L’ingresso del collega nella sfera personale necessita di cautela, perché far sapere veramente chi siamo a chi lavora con noi significa «mostrare il fianco», offrire a una persona non del tutto sconosciuta un vantaggio che dovrebbe essere riservato a chi forse non incontreremo mai più. Sarà per questo che nel titolo del suo romanzo Peppe Fiore ha usato un’espressione nominale di tipo negativo, composta da due termini che di fatto mettono ai ferri lo scambio interpersonale: dal pronome indefinito «nessuno» al predicato «indispensabile».
Ho ridotto quest’ultimo aggettivo ai minimi termini: da «indispensabile» tolgo il prefisso «in-» e la particella «dis-», fino a ottenere un nuovo aggettivo, «pensabile». Recupero dunque il senso di ogni parte: il valore negativo del primo elemento, quello distributivo del secondo, e l’etimologia del terzo: «pensabile» da «pensare», intensivo di «pendere», il cui significato primo è quello di «pesare».
La congiunzione tra il peso e il pensiero, la loro comune sospensione e la spinta cui sono sottoposti, acquista valore una volta letto il romanzo di Peppe Fiore: quatto suicidi nel giro di un un paio di settimane. Tutti sul luogo di lavoro. Quanto possa contare il contatto tra gli individui e quanto ciò possa farne «pensare» o «pesare» le scelte è il lettore a doverlo decidere. Ma il romanzo parla di questo, oltre a raccontare la storia di Michele Gervasini, che all’inizio potrebbe ridursi a un ritratto, più o meno riadattato ai nostri tempi, della figura del travet. Che Gervasini abbia qualcosa di fantozziano e anche dell’inettitudine sveviana è fuori di dubbio: lì c’è un debito prima di tutto letterario. In ogni caso il lettore arriva arriva a pagina 151, ne mancano 20, e l’intenzione dell’autore non è quella di rivelare un bel nulla. Cosa succede, allora? Come dicevo, mancano 20 pagine: ci sono quattro suicidi che sono quello che sono, suicidi. Ciononostante, c’è l’assassino.
P.S.: Il numero di cellulare di Beppe Fiore credo che sia ancora segnato nella memoria del vecchio Nokia che usavo allora. Mi piacerebbe provare a ricercare quel numero e a chiamarlo per fargli il nome dell’amica che un giorno, a Roma, mi presentò Peppe Fiore dicendo che presto sarebbe diventato uno scrittore. Se poi lui mi confermasse di conoscerla e di essere allora quel ragazzo, gli direi anche che scrive bene sul serio.