Poesia/Recensioni/Segnalazioni

Diacronia individuale e sociale nella poesia di Caterina Davinio

di Ivano Mugnaini

Postfazione al volume di Caterina Davinio, Fatti deprecabili. Poesie e performance dal 1971 al 1996 di prossima uscita.

Alberto Sughi, Il grande bar

Alberto Sughi, Il grande bar

“Quando penso a me di allora provo una strana tenerezza: non m’importava niente di libri e letteratura; e scrivevo. E scrivevo vita nuda e cruda in tutti i suoi artigli. E oggi, che scrivo per la poesia, quando scrivo in fondo dimentico tutto ciò che sono e so, e non so nulla di poeti e letteratura” – annota l’autrice. La scrittura è l’utensile multiforme e multiuso che permette di generare i reperti, ossia la vita, quella che nell’attimo in cui accade è emozione, sorpresa, strana tenerezza, e, un istante dopo, o a distanza di qualche decennio, è memoria, perduta, riscoperta, ritrovata diversa. Come diversa è la prospettiva e la consapevolezza di fronte all’essenza letteraria della scrittura: in un primo, giovanile momento i libri e la letteratura sono là, nel loro mondo, presenti eppure inaccessibili, o meglio, dentro un edificio di fronte a cui si passa senza bussare. In una fase successiva, anni dopo, c’è la consapevolezza ma non il sapere, ossia non la soluzione del mistero, per fortuna, luckily, luckily, come direbbe il Conrad di Cuore di Tenebra. Caterina Davinio dichiara ancor oggi, con diversi libri all’attivo e molte intense esperienze artistiche, di non sapere nulla di poeti e letteratura. Questo, con ogni probabilità, è uno dei punti di forza, di questo libro specifico e della sua attività letteraria più in generale: questo suo possedere gli strumenti senza perdere l’emozione di utilizzarli e la meraviglia nel vederli funzionare, nell’atto di riportare alla luce i reperti o di recuperare, studiando tracce e polveri, segni e segnali, il senso, il sapore di un’epoca, individuale e di intere generazioni.
Lo spunto che ha dato origine a questo libro è stata la rilettura da parte dell’autrice di un suo diario in versi cominciato nel 1971. Uno sguardo personale sul mondo che però, proprio in virtù dell’autenticità che racchiude, finisce per diventare una fotografia di un mondo, un’epoca rivoluzionaria per vocazione, sospesa tra due mondi, tra un passato opaco e un futuro ancora tutto da inventare. Il ponte diventa l’esplorazione, ossia l’oggetto diventa l’idea, e viceversa. Con tutto ciò che comporta il dover costruire ex novo, proprio quando la strada più agevole sarebbe stata quella di limitarsi a demolire. La freschezza, fragile a volte, ma sempre sincera, lontana da stilemi di maniera, è il tratto dominante delle poesie giovanili della Davinio contenute in questo libro.
Di sicuro interesse, oltre al valore letterario dei testi, c’è quello che potremmo definire un excursus sociologico, il valore quasi documentario che assumono le istantanee scattate dalla Davinio tramite i suoi versi delle trasformazioni del nostro paese e del modo in cui gli uomini e le donne si relazionano con il mondo, con i sogni e i bisogni, le regole e le trasgressioni, la realtà e qualcosa che va oltre. Le tappe del percorso vengono riassunte e sintetizzate dall’autrice in questi termini: “gli anni Settanta con la loro vocazione psichedelica e visionaria, il Movimento del ’77, il punk e il post punk, i primi anni Ottanta, l’eroina, il male di vivere nelle metropoli, scorci e personaggi di quel mondo, dalla nostra storia, e infine i cambiamenti e le sperimentazioni degli anni Novanta”. Nella diacronia è contenuta anche l’alternanza di ere impegnate e altre più lievi, e, al di sopra di tutto, la dicotomia di fondo, il male di vivere e la ricerca di una fuga, la sete di vita e la noia, la sperimentazione e l’assuefazione, l’inseguimento, costante, di qualcosa che conduca più in là dei sentieri già tracciati. In una sola poliedrica parola, la poesia.
La poesia, come fatto, quindi, come suggerisce il titolo del libro. Fatto, perché, come osserva Amleto, il più folle, ispirato e disperato dei personaggi, un poeta è un “facitore di parole”, in fondo. La parola, volente o nolente, che lo si sappia o meno, che lo desideri o no, è sempre un’azione, un gesto, e come tale provoca reazioni e genera conseguenze. La Davinio ne è conscia. Ha inoltre la consapevolezza del carattere “deprecabile” dei suoi fatti, delle parole che hanno dato loro vita e della poesia che li ha recuperati e strappati all’oblio.
Riflette, l’autrice, sulla natura di ciò a cui ha dato forma: “Cos’è qui orgogliosamente deprecabile, infine? Le dissipazioni narrate, lo scandalo, le derive, la droga, gli amori saffici e traversi, la follia, lo scrivere in sé, vizio supremo? Ci sono vite che tutti biasimano: la poesia che fiorisce su quelle vite è oltraggiosa e scomoda, perché sorge dall’umiliazione e dal riscatto, dall’umiltà delle cose cui nessuno dà dignità, e invece dovrebbero averne; così risplendono più forte. Siate testimoni del caos, della caduta e della rinascita, della deriva e di molti e incerti approdi. Incerti perché rifuggo dalle certezze e preferisco galleggiare su un mare in perenne movimento”.
L’avverbio “orgogliosamente” risalta, sembra essere scritto con forza e sottolineato in rosso. Non c’è una sommessa richiesta di perdono nelle poesie di questo libro né nell’apparato di note e citazioni che le accompagnano. I fatti sono “deprecabili”, potremmo dire, per la loro natura intrinseca di gesti liberi e profondamente umani. Sono “de-precabili” in quanto alieni alla possibilità e alla volontà di dare o domandare preghiere, si potrebbe dire con una forzatura etimologica non priva forse di qualche valenza rivelatrice. La poesia in sé è deprecabile perché oltraggiosa e scomoda, ma il caos è fertile, per sua natura origina pianeti e forme di esistenza, incrocia geni e destini, costruisce catene di DNA, così come i versi, in apparenza sconnessi alla fine costruiscono un sistema di simboli e di significati. “Scrivo due righe sghembe/ e poi vado a vomitare/ la punta della matita si spezza/ perché calco sul foglio/ come scolpissi la pietra,/ ed è il mio primo verso,/ la prima sbronza con mio padre,/ il primo foglietto di carta al vento”. Questo annota la Davinio, quasi mettendo in parallelo il primo “fatto deprecabile” e la prima registrazione scritta dell’accaduto. Con quella matita che si spezza, quasi a segnare una frattura che in realtà diventa giunzione, connessione ininterrotta.
Dal quel momento la vita, e di conseguenza la scrittura, si fa viaggio, metafora di per sé, senza bisogno di ulteriori accezioni. “Cacciatore di stelle che insegui/scintillii di fuochi lontani/ percorrendo strade contorte nel tuo labirinto senza fine”. Quel fuoco distrugge, rigenera e si rigenera.
La salvezza, paradossale quanto essenziale, è nella memoria della ferita. La tassonomia dei tagli, delle incisioni, ma anche di tutto quell’entusiasmo vitale nella sua valenza più autentica. Il libro è suddiviso in capitoli contraddistinti da un titolo netto e perentorio, come se gli anni fossero stati riposti con cura e passione in scatole dotate di etichetta: “Il libro dei sogni, poi quello del disordine, il libro mistico e quello del caos e del risveglio, e, a suggello di tutto, le poesie fuori testo”. Al punto che il destinatario dei versi riportati qui di seguito potrebbe essere il tempo stesso, quasi un compagno di viaggio instancabile, imperscrutabile ma sincero: “Tu sorridesti una volta sola/ e poi guardasti il nostro gioco, /traffico d’irrecuperabili./ Vorrei dire che oltre le nostre/ povere vite c’era un destino,/ una rabbia segnata,/ una piccola speranza di folli”. Versi di notevole forza, proprio perché sono frutto di considerazioni autentiche, espresse per necessità, mai per sfoggio.
Ma l’apparente linearità, quando, come nel caso della Davinio, si abbina alla profondità di senso e di sostanza, non è mai casuale o derivata da fortuite circostanze sintattiche. Per arrivare all’essenziale bisogna sapere sfrondare gli eccessi, le zavorre. E bisogna essere consci del proprio terreno e del proprio cammino, senza mai perdere, appunto, il contatto con la terra, con l’essenza di ciò che è profondamente umano: “Dicono di me/ che sono un poeta/ troppo semplice,/ troppo povero./ Le mie parole/ suonano/ come acqua e sole […] sono un canto/ della terra”, così si definisce l’autrice, e, con questi stessi versi coinvolgenti e vividi, nega l’assunto nell’atto di affermarlo. La Davinio non è poeta semplice, o meglio lo è se per “semplice” si intende ciò che va diretto al succo, alla materia, al canto della terra. La sua è una poesia di conflitti, individuali e generazionali, tra verità contrapposte ma tutte ugualmente agguerrite, tra istinti e morale, immediatezza e riflessione, egoismi e generosità, ricerca di senso e necessità di astrazione: “la trasparenza del cielo/ mi strazia./ Cos’è, il matto/ si è perso nel labirinto/ della libertà?”. Poesia fatta di domande più di risposte, come sempre accade nella vera poesia. In questo voluminoso libro di domande ce ne sono tante, tutte essenziali, mai poste per noia o per il gusto di tessere fili di nebbia di parole inconsistenti. “Il venefico stormire della cultura/ non mi sfiora./ L’ho avuta come una provinciale ingenua/ e l’ho lasciata esperta/ sul marciapiede/ ora che ogni tanto la incontro/ celo il sorriso, e cambio strada”. Il diritto di cambiare strada ritorna, in tutte le fasi e i “capitoli” di questo libro, così come ricorre la costante di una coerenza interna, di una personalità che ha percorso le epoche con passo vivo, immergendosi nei sapori e cadendo nelle trappole, ferendosi di amore e di solitudine, di paura e coraggio, di ragione e follia, ma sempre tenendo gli occhi aperti per vedere, per registrare la vita che ha cercato e da cui è stata cercata.
Un libro in cui tutti noi, per analogia e per contrasto, ritroviamo, scanditi da una poesia scabra e ricca allo stesso tempo, genuina e coinvolgente, i nostri “fatti deprecabili”, le vicende di un tempo che è sempre inesorabilmente individuale e collettivo, un percorso unico che incrocia per un attimo o per una vita intera le direttrici di altri individui. Dopo aver seguito i passi degli anni descritti, le corse e gli inciampi, le insidie e le meraviglie istantanee, ci ritroviamo anche noi, alla fine di questo libro intenso a dirci che anche il nostro è stato “cammino da acrobata/ una tenue bizzarra/ allusione del tempo/ di cui non sospettavi l’esistenza e/ il passaggio del tutto/ silenzioso del nostro (mio)/ ovvero/ sintattico camminamento/ d’amore”. O della ricerca d’amore, di un senso, che poi, alla fine, è lo stesso sogno, lo stesso impulso, l’origine e lo sbocco di quel fatto deprecabile chiamato vita.

 

Al Piper con Chiara, la mia amica

Al Piper rocambolava la notte
di corpi mossi nell’euforia della danza
lei, la mia amica, era depressa
ella vedeva lungo sul proprio disamore
di spacciatrice tenera,
di lesbica chiusa alle speranze,
desiderosa di veleno.
Nel carambolare del night
tra il rumore assordante
volle un gesto seduttivo per il non amore:
mi regalò un pezzo di fumo
tra due dita
come un fiore,
e poi mise la sua lingua nella mia bocca
mostrandomi quanto può essere dolce
la sponda amara,
e io risposi con la mia lingua
che sapeva il rapimento della notte,
di quei suoni che andavano
a rotta di collo per condurti
agli inferi più dolci.
Fu il momento più bello con la mia amica,
un’icona dell’essere perduti,
andati,
e senza rimorsi né
aspettative per questo futuro avaro di note.
Lei era bella come un uomo
con bicipiti e tatuaggi sfrontati,
lei sapeva farti nascere
la voglia di camminare lungo l’asse d’equilibrio
sul baratro di un mondo perso e scostante, nemico,
lei viveva spericolatamente l’ora, e ti trascinava
nel suo abisso così tenero,
tanto che m’innamorai e presi dell’ora il momento,
le dissi che essere amanti era il progetto
di me incapace di fedeltà
con i ragazzi,
ammalata di siringa e di linee,
d’esperienza, di veleni,
vogliosa di voluttà antica, senza nome.
Ciao, amica mia,
serbo il tuo ricordo
in una fotografia del cuore
che nulla dimentica se non momentaneamente:
finì la notte al Piper
e fummo di nuovo amiche
che nella strada andavano
fianco a fianco
cadendo ad ogni passo verso il perdono,
crollando dove colpisce l’eterno
i nostri passi precari sulla terra.

1985
*

La casa di Chiara

Accovacciata sulla moquette di casa tua, amica mia,
ogni pomeriggio nel caldo delle due
sorseggio una birra
e aspetto i miei segnali proibiti:
droga, fiacche iperboli accatastate
nel piccolo universo che mi spazia (strazia) intorno
come un fratello,
in una nube d’amicizia arriva la catastrofe.

In fondo bucarsi una vena è atto concreto
ed efferato,
colano rivoli, sprizzano nell’ago,
ti dicono di desistere,
ma caddi in un barile di carezze e amore
calore e ottimismo,
la droga mi abbracciò,
spesi il tempo sulla tua moquette
davanti alla televisione
e una birra maledetta di circostanze;
tu, amica, non temevi e io ti imitai
sulla strada
di pericoloso gaudente,
di gaudente suicida,
di perigliosa rincorsa
a fortune
alterne
scacchiere temerarie.

E me ne vado delusa e contenta nel pomeriggio,
con il mio sale e pepe nelle vene, con l’ebbrezza nella testa
grata a dio e ai demoni
che imperversano su questa città,
in fondo felice dei miei tremendi errori,
disegnavo traiettorie sbagliate, e tutto era errore
predestinato,
me ne ridevo e amavo andare
di traverso, sbilenca
alla rovescia
sbagliata,
a scovare sacrilegi nelle giornate spente
per ravvivarle, non accenderle,
ché sarebbe impossibile dare fuoco
alla morte
annidata nelle pieghe
di giorni atroci e inermi
placidi di stupore,
di luce, di noia come una falce,
mortali di quiete;
sperperai tutto e alla fine
fu niente:
le nostalgie dell’errore,
la fame mortale dell’errore,
la resa all’errore,
che mai risorse dalla culla del baratro,
e amò morire in una stazione
di viaggiatori scagliati verso ultime mete.

*
Festa notturna in un casale di campagna

Quella notte la terra tremò,
quaranta scosse e più,
mentre andava la musica tra le vecchie mura
e i folli danzarono,
torsero le loro bocche
nel riso selvaggio,
vuotarono i bicchieri di vino rosso.
Il mio amico scappò fuori, nel bosco,
aprì le portiere dell’auto, accese lo stereo
e spaccò la notte con i suoni
del suo rock più cattivo,
poi si mise a rollare marijuana
e io, già ubriaca,
vidi il mondo andarsene sghembo, di traverso,
travolta da una vertigine e da un conato,
partii per la tangente verso l’infinito,
su per soffitti ebbri
che vorticavano
emulando l’alto dei cieli.

Poi la notte andò oltre
e finimmo addormentati negli angoli
di quelle grandi stanze di pietra,
il gelo ci morse
quando restarono solo i sassi del focolare
a insinuarsi nel buio
con bagliori rossi di legna arsa
morenti nella lunghissima notte artica.
Mi accovacciai su quelle lapidi ancora tiepide,
sofferente,
e mi strinsi nella pelliccia ispida
come un vecchio esploratore
in un cantuccio di boschi d’Alaska,
selvatica, come una vecchia orsa.
Nel mantello di ruvidi peli
come un gatto opportunista.
Mentre la terra tremò,
quaranta scosse e più,
la nostra notte sghemba
piano svanì nell’alba spettrale.
Eravamo rimasti in pochi
e un ricordo il fragore notturno
di rocambolesco rock’n’roll,
e andammo intorno
smilzi nelle nostre smorfie gay,
colorati nel grigio
come grida d’angoscia.

3 thoughts on “Diacronia individuale e sociale nella poesia di Caterina Davinio

  1. Molto forti le poesie, mi hanno colpito e fatto riflettere, perché, partendo da un vissuto di droga e sballo di una gioventù un po’ “perduta” di anni ormai lontani, come gli anno 70 e 80, ti conducono con mano lieve a una dimensione esistenziale, alla ricerca di un senso vero della vita che manca. Bella anche la lettura critica. Grazie del post.

Rispondi

Inserisci i tuoi dati qui sotto o clicca su un'icona per effettuare l'accesso:

Gravatar
Logo WordPress.com

Stai commentando usando il tuo account WordPress.com. Chiudi sessione / Modifica )

Stai commentando usando il tuo account Twitter. ( Chiudi sessione / Modifica )

Foto di Facebook

Stai commentando usando il tuo account Facebook. Chiudi sessione / Modifica )

Google+ photo

Stai commentando usando il tuo account Google+. Chiudi sessione / Modifica )

Connessione a %s...