Saggi/Speciali

VITA, MORTE E MIRACOLI DELLE CITTÀ ITALIANE MEDIEVALI

Mosaico ritrovato a Luni

Mosaico ritrovato a Luni. Fonte: rete

di Enrico Faini*

La cultura moderna è una cultura urbana. La città è protagonista del nostro presente e delle nostre utopie, anche di quelle negative. Il futuro è una megalopoli inquinata e corrotta alla Blade Runner, o un ammasso di ingombranti rovine come in The Day after. Al regista del Pianeta delle scimmie bastò poco per evocare la fine della civiltà: un pezzo della statua della Libertà abbandonato su una spiaggia, senza il consueto skyline newyorkese alle spalle. Era il futuro peggiore che si potesse immaginare.
Il Medioevo è generalmente considerato un periodo di grande rigoglio urbano: ogni sindaco che si rispetti rende omaggio alla città duecentesca quando evoca i bei tempi della libertà e dell’indipendenza. Eppure nella mente degli uomini medievali le città non furono mai un dato di fatto incontrovertibile. Il Medioevo stesso era cominciato all’insegna di una gravissima crisi urbana. Rutilio Namaziano, agli inizi del V secolo dopo Cristo, scriveva: «Non indigniamoci che i corpi mortali si disgreghino / ecco che possono anche le città morire».

La fine delle città di marmo
Sarà proprio Rutilio a introdurci in questo paesaggio cosparso di rovine. Nel De reditu suo, un poema in distici elegiaci, Rutilio ci parla del viaggio che fece da Roma alla Gallia, sua terra d’origine. Il poeta scelse di viaggiare per mare, giacché il tragitto via terra appariva molto più rischioso in quell’epoca, straziata da molti e incerti poteri.
Costeggiando il territorio tra la Toscana e la Liguria, Rutilio vide dal mare la città di Luni. Lasciamogli la parola, attraverso la bella traduzione di Alessandro Fo: «Scivolando veloci veniamo alle candide mura / cui la sorella che del sole splende assegna il nome. / Supera con i suoi massi i gigli ridenti / e, screziata, irraggia levigato nitore la pietra». La poesia descrive bene lo spettacolo delle mura marmoree. Fu proprio il marmo a fare la fortuna di questa città. Fondata nel secondo secolo avanti Cristo, Luni divenne il porto di imbarco per i blocchi ricavati dalle cave sulle vicine Alpi Apuane. Da qui giungeva la materia prima del potere di Roma: la pietra candida per i templi, i teatri, le statue e le iscrizioni. Quando quel potere crollò, anche la prosperità di Luni venne progressivamente meno. Le frequenti inondazioni del fiume Magra fecero il resto: in qualche secolo si giunse all’interramento del porto e all’impaludamento della zona. Nonostante questo la città mantenne una parvenza di vita grazie alla residenza di un vescovo. Fu il papa a decretare la fine di Luni: nel 1204 Innocenzo III stabilì che la sede vescovile fosse trasferita a Sarzana. Agli occhi di Petrarca, alla metà del secolo seguente, Luni non era più che un «nudum et inane nomen».

Invasori o coloni?
Un destino simile a Luni ebbe l’antica città di Saepinum, le cui silenziose rovine sorprendono il viaggiatore che lambisce i monti del Matese. Saepinum dovette la sua primitiva prosperità ad affari ben diversi dal marmo apuano: sorse infatti sulle rotte della transumanza, forse come mercato di bestiame. Ciò che rimane evoca un grande livello di civiltà: le mura, la basilica, il teatro, perfino le terme.

Il teatro di Saepinum. Fonte: rete

Il teatro di Saepinum. Fonte: rete

Non è affatto chiaro cosa abbia condotto all’abbandono del centro: forse la transumanza era divenuta un’attività troppo insicura nell’epoca in cui Rutilio preferiva di gran lunga il viaggio per mare. Di certo si sa solo che nel VII secolo Saepinum era spopolata, come gran parte del territorio che la circondava. Fu così che Grimoaldo, il re dei Longobardi, pensò bene di concedere quelle terre ad Alzecone, capo di un gruppo di «Bulgari», come li chiama Paolo Diacono. Forse si trattava di un episodio di quella millenaria migrazione che ha portato tante popolazioni della penisola balcanica a stabilirsi in Italia; nel solo Molise ci sono ben sette paesi dove, ancor oggi, si parlano lingue diverse dall’italiano: a Ururi, Montecilfone, Portocannone e Campomarino si parla albanese, ad Acquaviva Collecroce, Montemitro e San Felice si parla croato. Ancora al tempo di Paolo Diacono, un secolo dopo il loro primitivo insediamento, i ‘Bulgari’ mantenevano viva la loro cultura: «sebbene parlino anche in latino, non hanno tuttavia perso l’uso della loro lingua», dice lo storico longobardo.

Morte violenta
Già, le popolazioni si spostano, e non sempre lo fanno pacificamente. Quando si parla di ‘invasioni barbariche’ si pensa subito a fenomeni violenti: in realtà, come si è visto nel caso dei ‘Bulgari’ di Saepinum, a volte l’arrivo di nuova gente era una vera e propria manna per un territorio spopolato come quello dell’Italia alto medievale. Altre volte, però, non era affatto così. Furono le incursioni saracene del IX secolo, forse, a dare il colpo di grazia a Saepinum. Anche i Longobardi, che abbiamo visto ingegnarsi per ripopolare il territorio del Matese, annoveravano delle città illustri tra le vittime della loro invasione. Brescello era una di queste. Il paese di Peppone e don Camillo è oggi una modesta borgata padana, ma è l’erede (almeno nel nome) dell’antica Brixellum. Nell’antiquarium allestito nell’ex monastero di San Benedetto a Brescello si incontra la statua – rinvenuta in loco – di un uomo vestito con la toga: il simbolo stesso della cultura urbana dell’antichità. Brixellum fu, secondo Paolo Diacono, un caposaldo della resistenza bizantina contro i Longobardi alla fine del VI secolo. Per questo motivo i conquistatori non ebbero pietà delle sue mura. A suggellare la loro opera fu un’inondazione del Po, che nel 606 coprì con metri di fango le rovine. L’odierna Brescello ha poco o nulla a che fare con la sua antenata: fu fondata nel X secolo da Adalberto Atto di Canossa – un antenato di Matilde – con l’intento di strappare alle paludi e mettere a coltura i terreni vicinissimi al Po.

Fantasmi di città
Abbiamo visto in quali e quanti modi le città antiche svanissero nell’alto Medioevo. Di solito, però, lasciavano dietro di loro un’ombra. Non parlo dei resti monumentali, spesso usati come cave di materiali edilizi per tutto il Medioevo.

Cattedrale di Massa Marittima, fonte: rete

Cattedrale di Massa Marittima.  Fonte: rete

Parlo di una figura simbolica, un potere, strettamente connesso con la città: il vescovo. Il cristianesimo in Italia si era affermato quando ancora l’Impero romano e il sistema urbano sul quale si reggeva erano forti, di conseguenza le istituzioni della Chiesa nascente ne ricalcarono fedelmente il reticolo: ogni città ebbe il suo vescovo. Quando le città cominciarono a morire alcuni episcopati si estinsero con esse. Altri però avevano raggiunto un tale prestigio o una tale potenza che continuarono a resistere in luoghi spopolati, come ultimo vestigio della dignità cittadina. Abbiamo visto il caso del vescovo di Luni, trasferito a Sarzana solo nel 1204. In certi casi i vescovi, privati della loro sede, vagarono per secoli cercandone una nuova, come fantasmi delle città antiche.
Posiamo il nostro sguardo su Populonia, sulla costa Toscana. Rutilio la vide al tempo del suo viaggio e la descrisse così: «Non si possono più riconoscere i monumenti dell’epoca trascorsa, / immensi spalti ha consunto il tempo vorace. / Restano solo tracce tra crolli e rovine di muri, / giacciono tetti sepolti in vasti ruderi». Per qualche tempo, almeno dalla fine del V secolo, il vescovo abitò quei ruderi. Già un secolo dopo, però, all’epoca dell’invasione longobarda, il vescovo Cerbone aveva ritenuto più saggio spostarsi sull’isola d’Elba: il pericolo veniva dal continente. Agli inizi del IX secolo la situazione era completamente rovesciata, ma non migliorata: la minaccia ormai erano le incursioni saracene, dal mare. I vescovi di Populonia, allora, si ritirarono definitivamente nell’entroterra. Per almeno due secoli e mezzo trovarono ricetto in una località non identificata della vicina Val di Cornia, prima che la sede vescovile fosse trasferita ove si trova ancor oggi: a Massa Marittima. Resta un mistero come fu possibile al vescovo di una città morta da secoli sopravviverle così a lungo. La stessa Massa Marittima, che non era una città antica, ricevette grande impulso dalla presenza vescovile: dal momento in cui il presule vi si trasferì, verso il 1060, cominciò ad ingrandirsi. A questa espansione contribuirono certo le miniere di ferro e di rame del territorio vicino, ma non v’è dubbio che la sede vescovile portò in dote un patrimonio non meno importante per la costruzione della città: il senso di indipendenza e l’orgoglio di una tradizione antica.

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Le mura romane di Milano. Fonte: rete

Città che resistono
Si è parlato fin qui di città morte alla fine dell’età antica (Luni, Sepino, Brescello) o nate nel pieno Medioevo (Massa Marittima). Tuttavia l’immagine di una geografia cittadina totalmente sconvolta nel millennio medievale non corrisponde alla verità, almeno per l’Italia. Tra tutti i territori del civilissimo Impero romano, l’Italia è sicuramente tra quelli ove vi fu più continuità con l’antico. Mentre altrove i nobili si ritiravano in corti rurali, i ricchi e i potenti d’Italia preferirono a lungo dimorare in città. I nostri centri si rifanno volentieri a un passato classico, concretamente rappresentato dai marmi del sottosuolo: delizia degli studiosi e croce degli amministratori, che paventano schiere di archeologi pronte a bloccare ogni nuovo cantiere.
Non ci soffermeremo su Roma per la quale parlare di continuità può apparire scontato. Prenderemo in considerazione, invece, la sua cugina padana, Milano, il cui passato classico si tende spesso a dimenticare. Negli ultimi secoli dell’età antica, infatti, Milano fu un importante centro del potere imperiale in Occidente: fu a Milano che, nell’anno 313 della nostra era, l’imperatore Costantino emanò l’editto di tolleranza nei confronti del Cristianesimo. Nonostante la sua indubbia grandezza, però, sono poche le testimonianze monumentali sopravvissute, perché? Principalmente per due ragioni: in primo luogo i materiali edilizi (soprattutto legno e cotto) resero poco duraturi gli edifici antichi, inoltre fu la stessa continuità di vita nella città a trasformare progressivamente il tessuto urbano, senza che, quasi come isole disabitate, rimanessero evidenti i brandelli della città antica. In effetti anche in età alto medievale, mentre altrove molte città si estinguevano, Milano conservò un carattere schiettamente urbano con il suo potente vescovo e le sue molte chiese (tra le quali Sant’Ambrogio). Neanche qui, però, si trattò di una continuità indolore. Lo sconvolgimento provocato dall’invasione longobarda si fece sentire: il vescovo e il clero milanese (forse anche la vecchia aristocrazia cittadina) fuggirono a Genova e vi rimasero per circa settant’anni, mentre la città cominciava a subire la concorrenza di alcune sue vicine, preferite dai nuovi re germanici.

«Gli ultimi saranno i primi»
Non si deve credere, infatti, che il periodo longobardo abbia significato rovina generalizzata per tutte le città d’origine antica: ve ne furono anzi alcune che trassero grande beneficio dal terremoto politico provocato dagli invasori. Pavia (l’antica Ticinum), ad esempio, divenne la capitale del nuovo regno e Monza, drammaticamente decaduta nel IV secolo, fu scelta come residenza estiva dalla regina Teodolinda. Entrambi i centri conservano oggi ricche memorie di quello che altrove fu uno dei periodi più cupi del Medioevo: si pensi solo al tesoro della cattedrale di Monza.

La croce di Desiderio, gioiello dell'oreficeria alto medievale,conservato nel museo di Santa Giulia di Brescia. Fonte: rete

La croce di Desiderio, gioiello dell’oreficeria alto medievale,conservato nel museo di Santa Giulia di Brescia. Fonte: rete

Certo, se giudichiamo in base ai marmi e alle terme, nessuna città dell’alto medioevo potrà mai reggere il confronto con lo splendore dell’età imperiale. Tuttavia è corretto parlare anche di trasformazione dei modelli di vita e di insediamento all’inizio del Medioevo, non solo di pura e semplice decadenza. Per capire la trasformazione di una città tra tardo-antico e alto Medioevo disponiamo di un osservatorio privilegiato: è Brescia, dotata di un museo civico allestito in Santa Giulia nel quale si concentrano i risultati di decenni di esplorazioni archeologiche nel sottosuolo cittadino. Santa Giulia era un grande monastero benedettino femminile, fondato nel 753 dal re longobardo Desiderio. Il luogo della fondazione era poco popolato nell’ottavo secolo, ma vi si trovavano edifici importanti della Brixia romana. Gli scavi sotto il monastero hanno infatti portato alla luce mosaici e pareti affrescate di domus appartenenti agli aristocratici bresciani. Lo splendore di questi edifici pare esser durato dal primo al quinto secolo dopo Cristo. In seguito, tra ciò che restava degli eleganti colonnati si accamparono nuovi abitatori in capanne fatte di legno e argilla. Da dove venivano, allora, le ricche vedove e le giovani di buona famiglia destinate ad animare il ricchissimo monastero di Santa Giulia? E’ probabile che il vero centro della Brescia longobarda fosse dalla parte opposta della città: non più nella zona del foro antico, quindi, ma in quella della cattedrale; era lì che viveva l’aristocrazia di allora. Era cambiata la gerarchia dei valori e, di conseguenza, la forma della città: là dove erano vissuti i ricchi si ammassavano i poveri, mentre i sobborghi dell’epoca antica diventavano, per allora, quartieri eleganti.

Città che risuscitano
Ragionare sulle etimologie talvolta permette una conoscenza profonda delle cose: l’etimologia di ‘Orvieto’, ad esempio, è un po’ come uno scavo archeologico nel sottosuolo di quella città. Orvieto viene da Urbs Vetus: Città Vecchia. Quanto vecchia, se già nel Medioevo la chiamavano così? E soprattutto: vecchia rispetto a che cosa?

Orvieto, fonte: rete

Orvieto. Fonte: rete

L’idea che il dominio di Roma sia l’inizio dei tempi storici deve essere abbandonata, specie se si guarda all’Italia del Centro e del Sud: esisteva qui, ben prima dell’epoca romana, una civiltà urbana di altissimo livello. La città vecchia alla quale fa riferimento il nome Orvieto è quella etrusca di Volsinii, le cui rovine occupavano il colle dove sorge il centro odierno. Volsinii nel III secolo avanti Cristo era molto ricca e forte dal punto di vista militare: una vera spina nel fianco per la nascente potenza romana. Era però anche divisa socialmente al proprio interno. Roma approfittò di questa discordia e intervenne nel 264 a.C., invocata dai nobili locali in quel momento estromessi dal governo cittadino. Come spesso accade, quanto più il nemico è temibile e fiero, tanto meno potrà confidare nella clemenza dei vincitori una volta sconfitto: «Guai ai vinti!», come i Romani avevano imparato sulla propria pelle. Quella che doveva essere una spedizione militare per ristabilire un governo giusto a Volsinii, si trasformò in una guerra di conquista che culminò nella distruzione della città e nella deportazione dei cittadini. Sulle rive di un lago vicino i superstiti fondarono il municipio romano di Volsinii novi (che poi darà il nome allo stesso lago: Bolsena). Poi, tra V e VI secolo, la minaccia di nuovi conquistatori (stavolta provenienti dal Nord) convinse gli abitatori della città romana a rioccupare il colle abbandonato sette secoli prima: la urbs vetus – come non avevano mai smesso di chiamarla gli eredi della nobile Volsinii – rinacque dalle proprie ceneri.

Sorelle egoiste e figlie ingrate
Quando nel secolo XII le città italiane cominciarono la loro strepitosa ascesa economica e politica, ci si accorse

Le mura etrusche di Fiesole. Fonte: rete

Le mura etrusche di Fiesole. Fonte: rete

presto che non c’era abbastanza posto per tutte. Si scatenò allora una competizione violenta che impegnò tutte le risorse disponibili. Probabilmente fu anche per impulso di questa competizione che si sviluppò una nuova forma di governo: il Comune. Non mi pare un caso che la data di nascita di due grandi comuni cittadini corrisponda a un giorno di lutto per altrettante città.
Sarebbe un errore considerare scontata la prevalenza di Roma sulle altre città italiane e perfino laziali. Tutto ciò che Roma aveva conquistato all’inizio della sua vicenda antica, dovette riprenderselo faticosamente all’inizio dell’età comunale, tra i secoli XII e XIII: nemmeno l’essere sede papale poteva bastare come titolo di merito. Tivoli era una città d’origine latina fondata, secondo la leggenda, da coloni provenienti da Alba Longa: una sorella maggiore di Roma. Nel 1143 le due città erano giunte ai ferri corti. Dopo la sconfitta di Tivoli sul campo, il pontefice, nella veste di comandante supremo delle milizie romane, giudicò opportuno concludere con essa una pace non punitiva. Il popolo romano voleva invece trarre il massimo vantaggio dalla propria superiorità militare e decise di agire per conto proprio: dopo un assalto al Campidoglio i Romani costrinsero il papa a fuggire e decretarono la «renovatio senatus», il primo nucleo di quello che sarebbe divenuto il Comune Capitolino. «Guai ai vinti!», di nuovo: la regola del primato non era cambiata.
Anche la fortuna di Firenze si fonda sulla sconfitta di una sua vicina: con l’aggravante che questa sua vicina era, in un certo senso, sua madre. Si racconta infatti che la Florentia romana avesse una popolazione composita: parte formata dai coloni di Roma, parte dagli abitanti deportati dall’etrusca Fiesole, ribelle al dominio di Roma al tempo di Catilina. Nell’alto Medioevo Fiesole aveva risollevato la testa. E’ improbabile che fosse tornata ad essere una vera e propria città com’era stata in età antica, ma è certo che il dominio delle strade verso l’Appennino, la posizione fortissima e le mura potenti ne facevano comunque un ostacolo all’espansionismo fiorentino. Cadde nel 1125, dopo tre anni d’assedio. Sanzanome, il primo storico della Firenze comunale, comincia la sua opera con queste parole: «Iniziamo l’elenco delle vittorie dalla distruzione di Fiesole fatta ai tempi nostri, dato che proprio dalla caduta di quella città Firenze aveva tratto origine».

Un mondo senza città
Nate, morte, rinate o distrutte: nel Medioevo italiano le città sono un elemento fondamentale, sì, ma non una costante che si può dare sempre per scontata. Nella mente degli uomini di allora c’era spazio anche per una civiltà diversa, urbana nei modi, ma non necessariamente nella residenza. Poco prima che Dante nascesse, anche Firenze se l’era vista brutta: dopo la sconfitta di Montaperti nel 1260 qualcuno dei suoi nemici ghibellini aveva pensato di raderla al suolo. Fu l’intervento di un ghibellino di Firenze, Farinata degli Uberti, a salvarla: è la stessa ombra di Farinata a dircelo, tramite la poesia dell’Alighieri: «Ma fu’ io solo, là dove sofferto / fu per ciascun di tòrre via Fiorenza, / colui che la difesi a viso aperto». Anche per Dante, come già per Rutilio Namaziano, l’esistenza delle città era appesa a un filo; non è davvero un caso se il Fiorentino riprende il poeta antico: «Se tu riguardi Luni e Orbisaglia / come sono ite, e come se ne vanno / di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia, / udir come le schiatte si disfanno / non ti parrà cosa nova né forte, / poscia che le cittadi termine hanno».
Lo stesso Dante, negli anni dell’esilio, visse ramingo nelle corti dei signori dell’Appennino – i Guidi, i Malaspina – non solo nelle città. Un mondo senza città ai tempi di Dante non era più un’alternativa realistica, ma forse per qualcuno era ancora qualcosa di più che una vaga utopia. Non si comprenderebbe, altrimenti, il sogno dei duchi di Urbino, che, alla fine del Medioevo, immaginarono fosse possibile avere per capitale non una grande città, ma un palazzo e avere per suddito non un popolo rissoso e ignorante, ma una corte di buoni costumi e di bell’eloquio.

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Il Palazzo Ducale di Urbino. Fonte: rete

Ingredienti per fare una città
Secondo un grande storico, Roberto Sabatino Lopez, una città è prima di tutto «uno stato d’animo». All’apparenza può sembrare un brillante éscamotage per evitare le pastoie di una definizione difficile. Si tratta invece di un’intuizione che descrive in profondità il carattere urbano. C’erano, certo, degli elementi concreti che servivano per fare una città nel Medioevo: le mura, diversi luoghi di culto, la presenza di un tessuto abitativo fitto e qualitativamente superiore rispetto a quello del territorio. Però tutto questo non bastava; si visiti il castello dei conti Guidi a Poppi, o la vicina Bibbiena, o ancora Anghiari, tanto per restare in Toscana: ci sono le mura, le chiese e tanti bei palazzi, ma mai a nessuno nel Medioevo venne in mente di chiamare questi centri ‘città’. Si può pensare, allora, che occorresse un buon numero di abitanti per fare una città vera e propria; di nuovo non bastava: centri come Prato e Fabriano verso il 1300 avevano più abitanti delle vicine Pistoia e Jesi, ma mentre queste ultime erano qualificate nelle fonti come città, le prime avrebbero dovuto attendere ancora a lungo prima di ottenere un simile status. Perché un centro potesse esser definito città nell’Italia medievale, occorreva che fosse sede vescovile. Neanche questo, a dire il vero, da solo bastava: il vescovo di Luni aveva per sede una città fantasma. Tuttavia la presenza di una chiesa cattedrale era imprescindibile per sedere al tavolo delle città vere. Il vescovo per il centro che lo ospitava era la garanzia di due assi da giocare: una certa preminenza sul territorio diocesano e una certa indipendenza dal punto di vista religioso. Superiorità e indipendenza: «uno stato d’animo», appunto.

Diamo i numeri
Verso l’anno 1300, ovvero al vertice dello sviluppo demografico ed economico del Medioevo, l’Italia era una tra le zone più urbanizzate e densamente popolate del Mediterraneo e dell’Europa intera. Tuttavia la distribuzione delle città, specie delle grandi città, non era uniforme: a un Centro-Nord fittamente abitato, si contrapponevano un Meridione e una Sicilia in certe zone quasi spopolati. A Sud di Roma solo tre città superavano i 20.000 abitanti: Napoli, Messina e Palermo, rispettivamente con circa 30.000, 40.000 e 50.000 abitanti. In Sardegna nessun centro raggiungeva quota 20.000, le città più grandi erano Sassari con 15.000 abitanti e Cagliari con 10.000. Al centro Roma, con i suoi 30.000 abitanti, staccava di qualche migliaio di unità le più grandi città umbre e marchigiane (Perugia, Ancona e Ascoli: tutte attorno ai 25.000 abitanti), ma non le Toscane: Pisa aveva 30.000 abitanti, Siena 50.000 e Firenze, un vero e proprio gigante, addirittura più di 100.000. Al Nord c’erano ben 11 città con più di 20.000 abitanti, tra queste spiccavano Verona e Padova (40.000), Cremona e Brescia (45.000), Bologna (50.000), Genova (60.000) e infine le città più grandi: Venezia (più di 100.000) e Milano (con, forse, 150.000 abitanti). Per capire le dimensioni di metropoli come Milano, Venezia e Firenze nel mondo di allora, basti pensare che tra le città europee solo Parigi e Costantinopoli nel 1300 superavano i giganti italiani; solo che Costantinopoli era l’erede di un impero a cavallo di due continenti e Parigi era ormai la capitale di un grande regno, mentre Firenze, ad esempio, disponeva di un territorio che non raggiungeva neppure l’Appennino.

Di sana pianta
Anche se nel testo ci siamo soffermati soprattutto su città morte o rinate, moltissimi sono gli esempi medievali di centri fondati ex novo. Non si tratta solo di quelle spontanee aggregazioni di uomini che portarono, per esempio, alla costruzione di Venezia, ma anche di quei centri che nacquero in poco tempo e con uno scopo preciso. Esistono città, insomma, che prima di essere entità concrete fatte di pietre e di persone furono idee nella mente di pochi. Nacquero così i tanti ‘borghi franchi’ e ‘terre nuove’ dell’Italia centro-settentrionale. Talvolta, però, quando l’idea di una nuova fondazione aveva la fortuna di coniugarsi con potenti interessi politici, potevano nascere delle vere e proprie città. E’ il caso di Alessandria, fondata nel 1168 a suggello dell’alleanza tra Milano e Genova. Fu battezzata col nome di un papa (Alessandro III), implacabile nemico dell’Imperatore Federico Barbarossa e, fatalmente, alleato dei comuni della Lega Lombarda. Nacque così anche L’Aquila, sebbene sotto una stella diversa: secondo alcuni fu Federico II, nipote del Barbarossa, a emanare il diploma di fondazione nella prima metà del Duecento. Non tutte le idee, comunque, erano destinate a tanta fortuna. Nel 1459 Pio II, il papa umanista, concepì assieme a Leon Battista Alberti il progetto di trasformare il suo luogo natale, il borgo rurale di Corsignano a sud di Siena, nella città perfetta. Nel giro di pochi anni Pienza – questo il nome più nobile assunto dalla città nascente – ebbe una cattedrale, una piazza monumentale e diversi palazzi, tutti costruiti su progetto di Bernardo Rossellino. Tanto impegno non bastò a farne una città: pur amata dagli intellettuali – che preferirono però abitare a Roma o a Firenze – Pienza restò povera di uomini.

Bibliografia di orientamento

Fonti
Paolo Diacono, Storia dei Longobardi, a cura di Elio Bartolini, Milano, TEA, 1990.
Rutilio Namaziano, Il ritorno, a cura di Alessandro Fo, Torino, Einaudi, 1992.

Studi
Leonardo Benevolo, La città nella storia d’Europa, Roma-Bari, Laterza, 1993.
Le città del Mediterraneo all’apogeo dello sviluppo medievale: aspetti economici e sociali, Pistoia 2003.
Maria Ginatempo, Lucia Sandri, L’Italia delle città. Il popolamento urbano tra Medioevo e Rinascimento (secoli XIII-XVI), Firenze, Le Lettere, 1990.
Vescovo e città nell’alto Medioevo: quadri generali e realtà toscane, a cura di Giampaolo Francesconi, Pistoia 2001.
Chris Wickham, Economia altomedievale, in Storia medievale, Roma, Donzelli, 1998, pp. 203-226.

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OLYMPUS DIGITAL CAMERA*Enrico Faini (Firenze, 1973) ha conseguito il diploma in Archivistica, paleografia e diplomatica presso l’Archivio di Stato di Firenze nel 1999. Dal 2005 è dottore di ricerca in Storia Medievale (Università di Firenze). E’ stato assegnista di ricerca presso l’Università di Firenze (2006) e borsista presso il Deutsches Historisches Institut di Roma (2007). Insegna lettere nella scuola secondaria di primo grado ad Aiello del Friuli.
I suoi interessi scientifici vertono sulla storia politico-istituzionale dei comuni italiani e sulla cultura del ricordo nella società comunale.
Tra le sue pubblicazioni: Firenze nell’età romanica (1000-1211). L’espansione urbana, lo sviluppo istituzionale, il rapporto con il territorio (Olschki, 2010) e, con Jean-Claude Maire Vigueur, Il sistema politico dei comuni italiani (secoli XII-XIV) (Bruno Mondadori, 2010).

One thought on “VITA, MORTE E MIRACOLI DELLE CITTÀ ITALIANE MEDIEVALI

  1. Alla preziosa disamina che il Dott. Enrico Faini fa nel suo saggio: “Vita, morte e miracoli delle città italiane medievali”, desidero menzionare, tra le città che ancora esistono, il borgo medievale di Erice in provincia di Trapani situato sulla vetta di un monte isolato, a 751 m d’altezza . Per secoli la bellezza delle vedute, la tranquillità del luogo e la nebbiolina, che spesso la nasconde agli sguardi indiscreti, hanno reso Erice il luogo privilegiato per gli studi degli eruditi e le preghiere dei religiosi. La cittadina, fatta di stradine strette e tortuose, archi tipicamente medioevali, cortili riccamente decorati e piccole botteghe, mantiene immutato ancora oggi il suo antico fascino. Giovanni Teresi

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