di Antonio Devicienti
Torno, sulle accoglienti pagine di Samgha, a scrivere degli spazi, per me sempre meraviglianti, di Villa Menafoglio Litta Panza a Varese e di un artista che, tra i molti ospitati sia nell’esposizione permanente che in quelle temporanee, continua a suggestionare la mia immaginazione: Robert Irwin.
Nella cosiddetta “arte ambientale” e nelle opere definite “site specific” la mente ed il corpo (che si ritrovano letteralmente immersi dentro l’installazione artistica) sono chiamati ad una pausa di riflessione e a salutari (e forse salvifici) momenti di meditazione; rammento che pausa deriva dal verbo greco παύειν che significa cessare e dunque, cessando per qualche tempo da corse frenetiche e da incombenze pratiche, si può entrare in stanze-spazio entro cui recuperare familiarità con il ritmo della luce mentre essa varia nel corso del giorno e con i consequenziali mutamenti della percezione.
Ebbene, nell’ambito dell’esposizione (ma il termine è oltremodo limitante, sorpassato e impreciso) Aisthesis – all’origine delle sensazioni, tenutasi a Villa Panza dal 27 novembre 2013 all’8 dicembre 2014, due tra i maggiori artisti contemporanei, James Turrell e Robert Irwin, hanno potuto riproporre il loro ormai lungo percorso di meditazione e ricerca accanto ad opere che fanno parte in permanenza della Villa. In questa mia nota ho scelto di concentrarmi su Robert Irwin per quel suo ascetismo mentale e formale che mi sembra un’interessante proposta dentro e contro il rumore che ci sommerge sottraendoci a noi stessi. E la limonaia di Villa Panza, ambiente che continua a stimolare gli artisti invitati a ripensare tale spazio, ha ospitato un’opera che Irwin ha progettato proprio per questo luogo: Villa Panza 2013; nella limonaia, relativamente stretta ed allungata, nella cui parete che dà sull’esterno sono stati aperti alti varchi rettangolari attraverso i quali entra la luce, Irwin ha montato su telai una serie di cortine di nylon bianco-trasparente (quasi un invisibile velo, appunto) che suggerivano un percorso nient’affatto rettilineo, capace d’invitare ad inoltrarvisi fermandosi spesso a meditare sui cambiamenti di prospettiva e di luce, sul grado stesso di trasparenza (di perspicuità?) che, dal punto dove in quel momento ci si trovava, permetteva o viceversa impediva di scorgere la porta d’accesso, un muro di riferimento, una delle aperture-luce…
La cortina bianco-trasparente, quasi un muro sottilissimo di garza o di luce concrezionatasi in tale velo allo stesso tempo impalpabile e ben presente, scandiva lo spazio o, direi più opportunamente, lo spazio-luce, dato che una delle intuizioni più alte e commoventi di Irwin è che proprio la luce dia forma allo spazio e che il corpo-mente che in tale spazio si muove accolga stimoli e suggestioni percettive che molto hanno a che fare con una sorta di quête sensoriale e interiore. A me, che sono così attratto dalla parola e affascinato dalla scrittura anche come gesto e come impiego di precisi strumenti e materiali, piace immaginare che la luce scriva e descriva lo spazio e le nostre percezioni, in un dialogo incessante con il nostro corpo e con la nostra mente. Il retroterra culturale, ma non solo, dell’arte di Irwing è rintracciabile nella Los Angeles della seconda metà del secolo scorso, modernissima metropoli senza un centro ben identificabile e continuamente in fieri con davanti l’Oceano e alle spalle il deserto, città dagli infiniti stimoli sia culturali che ambientali. L’esperienza del deserto, ad esempio, fu fondamentale per lo stesso Conte Giuseppe Panza, il mecenate e cultore d’arte che portò in Italia, nella sua villa di Biumo a Varese, anche fisicamente artisti come Irwin, Turrell, Flavin offrendo loro gli spazi della sua casa affinché vi inventassero opere straordinarie ed ancora in loco: il Conte si recava spesso negli Stati Uniti ad incontrare gli artisti dei quali avrebbe acquistato le opere o ai quali ne avrebbe commissionate altre e in alcune sale, nel corso di Aisthesis, erano esposti la corrispondenza, le planimetrie dei progetti, le foto che documentano tali profondi rapporti; accennavo al deserto: per apparente paradosso (ma solo apparente) nel deserto sia gli artisti che Giuseppe Panza fecero esperienza non del vuoto e dell’assenza, ma, al contrario, della pienezza di percezione e consapevolezza che si raggiungono contemplando lo spazio e la luce; in più, sia Turrell che Irwin hanno lavorato in stretto contatto con Edward Wortz, psicologo della percezione collaboratore della NASA e sono stati fortemente suggestionati negli anni Cinquanta e Sessanta dai primi passi dell’uomo nello spazio: sulle tracce e in seguito alle suggestioni delle nuove prospettive aperte dalla scienza contemporanea nasce l’arte di Robert Irwin e James Turrell, per cui si comprende bene come muoversi tra le cortine tese nella limonaia abbia significato riflettere sulla visione e sulla distanza, sullo spazio e sulla luce, sul concetto stesso di cronotopo, sul silenzio inestricabilmente connesso al vedere e all’andare, perché in un’opera come questa si è costretti a muoversi, esplorare, fermarsi per riprendere ad andare, girare su se stessi, piegare il capo per cercare nuove prospettive, nuovi angoli percettivi; qualcuno ha suggerito che gli angoli retti del percorso richiamino la planimetria delle metropoli statunitensi: idea non fallace, da associare a quella dello scambio osmotico continuo tra dentro e fuori, tra luce e buio, tra silenzio e fruscio dei passi. E chissà quale esperienza sarebbe potuta essere il muoversi dentro Villa Panza 2013 di notte, dentro la natura notturna della luce.
Quest’opera creata per l’occasione e per il luogo specifici dialoga con quella del 1973 al piano superiore, chiamata Varese scrim, un lungo e stretto corridoio che conduce ad una delle finestre prive d’infissi aperte da Irwin sul parco (a sua volta opera specifica per Villa Panza, Varese Window Room); ma, a seconda delle condizioni della luce o del grado d’attenzione che sappiamo impegnare ci accorgiamo che in realtà una delle pareti è un velo e che oltre di esso c’è la metà della stanza originaria. Nel 1977 Irwin inventa, per il Whitney Museum di New York, Scrim Veil—Black Rectangle—Natural Light, anch’essa una cortina quasi trasparente di nylon, tesa a mezz’altezza e delimitata da una striscia nera che richiama la cornice della finestra: la luce, simulata e raffigurata nei dipinti della gloriosa tradizione occidentale, è nelle opere di Irwin (così come in quelle di Turrell) presente in tutta la sua fisica realtà, soggetto dialogante con l’artista e con le persone che si muovono dentro l’installazione (anche questo potere entrare dentro un’opera d’arte è meravigliante e stimolante). Ricordavo ed ho cercato alcuni versi di Camillo Pennati:
Di ciò che è solo vaste e risonanti latitudini
(…)
E l’immanente l’inconsapevole bellezza
tutta che ignora la sua stupenda appariscenza
così straziantemente folgorante
(…)
di ciò che è solo vaste e risonanti
latitudini geologiche dell’esistenza
nella lucenza e nell’intenebrarsi alterni
d’ogni attraente rotazione e consistenza
che non ha sguardo al sole mentre
così possente e sterminata e irripetibilmente
nel pulsare la rivela.
(Modulato silenzio, Edizioni Joker, Novi Ligure, 2007, pagg. 60 e 61)
È così: di per sé la luce non sa di esistere, è inconsapevole della propria bellezza; poi sottentra il corpo-mente degli umani che ne percepiscono e ne riconoscono la “stupenda appariscenza”, nel loro sguardo e nelle loro invenzioni viene ri-velata (s-velata) la luce (come nell’etimologia della parola greca che significa verità: ἀ-λήϑεια, alla lettera “svelare”, “privare del nascondimento”).
Il tema dell’illusione e del mutamento ha trovato in una delle stanze della Villa uno dei suoi momenti più alti grazie ad una colonna in plexiglas chiamata Untitled, Column (2011), capace di rifrangere la luce e, da certe angolazioni, di risultare addirittura invisibile: dalla lente dei giuochi infantili allo spettro luminoso che si rende visibile nell’acqua marina bassa e trasparente, alla goccia di pioggia sospesa sul vetro di una finestra, tutte le nostre esperienze tornano alla memoria mentre ci aggiriamo nella stanza della colonna, studiandone le incidenze della luce che, dall’esterno, entra nella stanza per essere rifratta e restituita nella sua vera natura policromatica e l’angolo d’incidenza della luce con la colonna cambia di minuto in minuto nello svolgersi della giornata, così come l’intensità della luce stessa, dipendente e dall’ora e dalle condizioni atmosferiche. L’arte di Irwin si rivela così un taccuino di percezioni e di sensazioni, uno studio ininterrotto sul divenire della realtà dentro la quale siamo immersi e della quale facciamo parte. I minimali interventi dell’artista sull’ambiente ci costringono ad abbandonare il nostro assuefatto pregiudizio meccanicistico per farci addentrare in una percezione del mondo in cui i fenomeni danzano, cioè non si manifestano in fredde e distaccate sequenze, ma nel loro continuo divenire catturano e commuovono la mente; l’arte di Irwin è chiave d’accesso ad un universo ben più complesso e poetico di quello che l’abitudine e la superficialità delle incombenze pratiche ci lasciano percepire. Faccio appello ancora a Pennati:
Quanto cielo
Quanto cielo – pur nel riquadro di un vetrato interno –
quanta impressione d’aria da questo avverticato piano
che la luce del giorno e del suo assentarsi notturno
irradiandosi su questo ruotante e sferico soggiorno
pare lasciarlo ed essa stessa sopraggiungerlo da che
non se ne avverte infinitesimale il moto che ne espone
il volto e poi l’inclina e poi lo volge entro quel suo
emisfero d’ombre che abbuia la natura e in cui passiamo
a un trasognante oblio nelle orizzontalità del sonno
sino all’aurora a incorporarsi nel contorno d’ogni corpo
e a suscitarne un immedesimante affioramento nell’aria
che si accende e ridiviene inostruito e trasparente spazio
tra questo luogo contemplante e quel lontano traguardo
di desiderio e innamorata comprensione nell’attraversarlo
(Una distanza inseparabile, Einaudi, Torino, 1998, pag. 103).
Si tratta di versi ispirati da un soggiorno del poeta italiano a New York e che sembrano un magistrale commento alle installazioni di Irwin, a quel filo conduttore costituito dalle finestre che si aprono o su un parco (come a Biumo di Varese) o su altre decine di finestre, come nelle metropoli statunitensi, che in ogni caso sembrano affamate di cielo e di luce, una luce complessa nella sua duplice natura ondulatoria e corpuscolare e vitale per ogni essere vivente.
E sul continente nordamericano restiamo per leggere i versi di John Ashbery:
Sheherazade
Unsupported by reason’s enigma
water collects in squared stone catch basins.
The land is dry. Under it moves
the water. Fish live in the wells. The leaves,
a concerned green, are scrawled on the light.
(…)
Day is almost reluctant to decline
and slowing down opens out new avenues
that don’t infringe on space but are living here with us.
Other dreams came and left while the bank
of colored verbs and adjectives was shrinking from the light
to nurse in shade their want of a method
but most of all she loved the particles
that transform objects of the same category
into particular ones, each distinct
within and apart from its own class.
In all this springing up was no hint
of a tide, only a pleasant wavering of the air
in wich all things seeemed present, whether
just past or soon to come. It was all invitation.
Non sorretta dall’enigma della ragione / l’acqua si raccoglie in bacini squadrati di pietra. / La terra è arida. Sotto si muove / l’acqua. Pesci abitano i pozzi. Le foglie, / d’un verde in apprensione, sono sgorbiate sulla luce. / (…) / Il giorno è quasi riluttante a declinare / e rallentando schiude nuovi viali / che non usurpano lo spazio ma abitano qui con noi. / Altri sogni andavano e venivano mentre il banco nuvoloso / di verbi e aggettivi multicolori si ritraeva dalla luce / per allevare nell’ombra la loro mancanza di metodo / ma sopra a tutto lei prediligeva le particelle / che trasformavano oggetti della stessa categoria / in cose speciali, ciascuna distinta / da, ed entro, la propria classe. / In tutto questo spuntare fuori non c’era indizio / di marea, solo un piacevole ondeggiare dell’aria / in cui tutte le cose parevano presenti, fossero / appena trascorse o prossime a venire. Tutto era invito
(Un mondo che non può essere migliore. Poesie scelte 1956-2007, Luca Sossella Editore, Roma, 2008, traduzione di Damiano Abeni con Moira Egan, pagg. 94 e 95).
Anche questi versi sembrano il commento lirico ai lavori di Irwin, nei quali davvero “tutto è invito” e “tutte le cose paiono presenti”, entro un continuo prendere coscienza e ripensare la percezione, la nostra presenza nel mondo. Le prospettive dilatate, il mutare continuo della realtà percepita; scrive Carlo Rovelli nel suo bel libro di divulgazione scientifica:
“Anche se osserviamo una regione vuota dello spazio, dove non ci sono atomi, vediamo lo stesso un pullulare minuto di queste particelle. Non esiste vero vuoto, che sia completamente vuoto. Come anche il mare più calmo visto da vicino ondeggia leggermente e freme, così i campi che formano il mondo fluttuano a piccola scala, e possiamo immaginare le particelle base del mondo, continuamente create e distrutte da questo fremere, vivere brevi effimere vite.
Questo è il mondo descritto dalla meccanica quantistica e dalla teoria delle particelle. Lontanissimo ormai dal mondo meccanico di Newton e Laplace, dove minuscoli sassolini freddi vagavano eterni lungo traiettorie precise di uno spazio geometrico immutabile. La meccanica quantistica e gli esperimenti con le particelle ci hanno insegnato che il mondo è un pullulare continuo e irrequieto di cose, un venire alla luce e uno sparire continuo di effimere entità. Un insieme di vibrazioni, come il mondo degli hippy degli anni Sessanta. Un mondo di avvenimenti, non di cose”.
(Sette brevi lezioni di fisica, Adelphi, Milano, 2014, pagg. 40 e 41)
Ad-venire, cioè avvicinarsi, giungere e accadere in una relazione continua tra i fenomeni, in un’interrelazione tra i campi, in una correlazione tra le esperienze da cui scaturisce una bellezza non statica, ma di eraclitea evidenza.
Essenziale il mio commento: splendida recensione.
Antonio Devicienti si pone come una delle migliori penne nello scenario critico italiano. La sua scrittura magnifica le sinestesie, provoca nel lettore seduzione e visione, lo sospinge verso la conoscenza. Esaudisce, così facendo, il compito maieutico cui presiede la cultura nelle sue sponde più sacre.
A.G.M
Gloria carissima, sei davvero troppo generosa: grazie.
Sono convinto (e spero che questo non appaia come falsa modestia) che chi si avventura a scrivere debba essere al servizio di ciò di cui parla e che ogni suo nuovo articolo debba costituire una proposta, non una stanca ripetizione di stilemi o vezzi. Ed un grazie vada anche a Samgha.