di Adriana Gloria Marigo
«Bisogna tener l’anima ben desta» scrive nel capitolo Dell’esperienza nel terzo libro degli Essais Michel de Montaigne, in seguito a lunghe considerazioni su come sono fatte le leggi, sulla loro oscurità e sull’influenza che esercitano sugli uomini, passando a trattare — in un sorta di parallelismo simbolico tra l’astratto della legge dell’uomo e l’immanente della natura che tutto informa, compreso il pensiero — le leggi naturali da cui discendono usi e costumi, abitudini personali, e soffermandosi a scrivere della sua condizione di uomo avanti negli anni. Ma quella frase scritta appena dopo «tanto le Parche svolgono con arte la nostra vita»2 viene a consegnarci l’esempio della dinamica sottesa ai fatti che si snoda tra l’osservazione d’impossibilità a scegliere esaustivamente e l’osservazione di attuare come possibilità doverosa e irrinunciabile la tensione alla presenza, e la costanza della ragione.3
In quell’ultimo capitolo degli Essais, il filosofo francese manifesta il “suo” esilio dalla società francese a favore di un buen retiro adatto agli studi e alla riflessione, rivelando una raffinatissima capacità introspettiva, libera da pregiudiziali e devota alla dignità dell’uomo. Afferma in tal modo che la situazione claustrale diventa, per assurda corrispondenza psicologica, uno stato necessario a cogliere i nessi nascosti, le ragioni autentiche e vere che stanno a fondamento della realtà e dei suoi traffici.
Le prove di esilio, Edizioni Sillabe di Sale, 2015, con prefazione di Susanna Schimperna, presenta, in prosa e versi, una raccolta di Michele Caccamo suddivisa in due sezioni: la prima contiene Indistinguibili. Appunti slegati, dal carcere, prosa in dieci fogli introduttivi — o forse a sé stanti, perché pregni di immediatezza, necessità di esprimersi senza il filtro della versificazione —, la seconda La parabola del mio esilio; e una raccolta di Franz Krauspenhaar dal titolo Agli uomini liberi. Dedicandomi alla lettura del volume, risultato della scrittura di due personalità diverse eppure somigliantesi nel simbolo che incarnano — la reclusione fisica e psicologica —, incontro due poeti che nei rispettivi testi danno voce al buio che li lacera per ragioni differenti, ma aventi in comune l’allontanamento dalla realtà sociale che inscena i riti di un quotidiano banalizzato da un concetto di libertà che procura in certuni la notte: pagina dopo pagina, si manifesta la tensione alla presenza dell’«anima ben desta». L’esilio cui sono sottoposti i due poeti è ben più di un allontanamento per nefas: è, nel caso di Caccamo, una limitazione della libertà in carcere, in quello di Krauspenhaar una limitazione della libertà nelle segrete della depressione.
Certamente l’esilio in cui versa Montaigne è in percentuale una scelta consapevole, benché generata da vicende non sopportabili, e non attiene alla condizione d’esilio in cui i due poeti si trovano: tuttavia la loro separazione dal resto del mondo — nonostante i modi che investono Caccamo e Krauspenhaar siano di vibrato drammatico — ha il connotato comune di essere la dilatazione del tempo nello spazio che si annulla, come s’intende nella sezione Indistinguibili. Appunti slegati, dal carcere in cui Michele Caccamo, in un afflato convulso e percorso dall’ala violenta della tensione carceraria, mentre dichiara: «ma anche in questo senso ci sarà una logica, ne sono certo, altrimenti riterrei ancora più insignificanti questi controlli di accesso» (foglio1), 4 non può esimersi dalle tensioni ragionative ed emotive che il suo sguardo ̶ abituato a leggere attraverso le immagini e le parole — accoglie. Egli rimanda alla decifrazione, in quanto la devozione costante è la dignità dell’uomo ancora una volta quando scrive di un male fisico: «se Dio la smettesse si contare le sue Anime; se riavesse la parola io credo mi raggiungerebbe con un urlo di pietà. […] Li farò rientrare uno a uno, questi prolungamenti di carne: chiuso gli occhi e spingo, verso dentro, sofferente» (foglio 1).4
La fascinazione di farla finita, di scampare all’insulto dell’orrore serpeggia e tenta Michele Caccamo «per il resto è una continua istigazione, e quella principale è al suicidio. Ci penso, così come credo facciano tutti quelli entrati per la prima volta qui dentro: la finestra è di ferro con uno spigolo appuntito; sarebbe anche facile, un colpo basso verso l’alto, con un lancio obliquo, ben concentrato, e sfonderei il cielo» (foglio 2),4 ma nella tormentata riflessione sulla condizione umana interviene la costanza della ragione,2 che spinge gli ancoraggi del principio di vita come contrafforti al principio di morte, dopo aver passato in rassegna il canone necessario per sopravvivere laddove il poeta scrive chiaro e irreversibile: «i rapporti che si affermano tra i detenuti sono fitti di regole. […] Qui dentro il pensiero rigoroso, che unicamente si delinea, è quello della concezione cainita: ogni uomo deve esere riportato alla sua originaria brutalità; deve saper assimilare ogni causa di rivalità e fronteggiarla» (foglio 5) 4 avendo introiettato le parole di F. Nietzsche «chi lotta contro i mostri deve fare attenzione a non diventare lui stesso un mostro. E se tu riguarderai a lungo in un abisso, anche l’abisso vorrà guardare dentro di te», 5 e ancora: «nulla qui dentro mi appartiene, e non voglio che nessuno mi si avvicini. Io sto sempre rinchiuso dentro al mio cubicolo a fissare le quattordici sbarre del cancelletto quanto la porta blindata: le vie di uscita. I miei coinquilini escono, per lavoro od ore d’aria» (foglio 10). 4
E poco oltre con «io mi lascio chiudere dentro. Almeno in queste ore di isolamento sono libero di lasciare che la mia testa si riempia di ogni funzionante fantasia» (foglio 10),4 la cella incarna il desiderio della coniugazione con il sé, il proprio pensiero immaginale, la coltivazione della parola taumaturgica, il senso della poesia. La quale si rivela sponda alle «continue parole ammalate» (foglio 10),4 assolve alla funzione che la Tour de la librairie assolveva per Michel de Montaigne — l’edificio cilindrico in cui lo scrittore si ritirava per studiare, sviluppare i suoi lavori filosofico-letterari — e anche per Caccamo, nella strettoia della reclusione, avviene il fatto clamoroso e numinoso del riconoscersi e distanziarsi come per Nietzsche quando scrive: «in esso ogni riga gridava la rinuncia, la negazione e la rassegnazione, lì io guardavo il mondo come dentro uno specchio, e insieme la mia vita e la mia anima, investito di orrore; in esso come fosse un Sole, il grande occhio dell’arte mi fissava, staccandomi dal mondo; io vi vedevo malattia e salvezza, esilio e rifugio ed inferno quanto paradiso».6
Il “prologo” Indistinguibili. Appunti slegati, dal carcere alle poesie “La parabola del mio esilio” si conclude con la pace da consegnare ai figli: eredità di umano intelletto cui le prove orrende nulla sottraggono alla dichiarazione e memento di devozione: «ricordate che nella vita non esiste altro che l’Amore e la Sapienza» foglio 10, 4 sole che investe e trasmuta le oscurità dei fondachi personali in manifestazioni dell’arte. Soprattutto quando sembra che ogni cosa sia perduta, alienata la sovranità personale, interviene la visione altissima, una musicalità di Magnificat, la non cessione della volontà al vacillare del già acquisito, convenuto, abituale e creduto, emerge forte la sensazione che, con parole di sottrazione «io non sono ammesso in questa sozzura / non ho un mio simile»7 Caccamo urli la presenza di Ezra Pound in «ansioso cerco congeneri di spirito / E li trovo soltanto nelle ombre ».8
*
Solo l’Anima mia
sostiene la testa
nella sua immobile dinamica
nulla è decifrabile
la materia dell’Amore
che mi hai fornita
è un foglio di carta
ideologico perfino dilagante
ma si tratta di prosa
io voglio la chimica
la tua bocca
i tuoi occhi viventi
ma sembra siano naturali
in una cella
queste addizioni di assenza
*
Sto simulando
umanamente le mie labbra
non per l’emanazione dell’aria
la teoria del respiro è una credenza
e lo è del tutto la mia persona fisica
voi non otterrete più nulla da me
io da oggi sono un morto
del resto lo stavo già pensando
non dimenticate il mio corpo in cella
è un luogo senza resuscitanti
sono lì dentro e l’ho detto a Dio
le creature preumane
i reggitori velenosi
e a volerli descrivere peccherei
io non sono ammesso in questa sozzura
non ho un mio simile
in questo campo illegale
eppure non mi accorgo
cosa peggiore
di avere il cuore già dominato
*
Sono evaso per chiaroveggenza
e come si presuppone
sentivo dentro di me
un rilevatore organico
un’anima sperimentale
non ci ho pensato molto
per timore mi arrivasse la morte
per quanto ogni notte
con più di quaranta gocce
trabocco in una quiete religiosa
Sotto il titolo Agli uomini liberi, quasi una dedicatoria o un monito, si raccolgono le poesie di Franz Krauspenhaar: declinazione di esilio secondo la luce nera che uno stato depressivo inocula nei territori della psiche, dove corpo e anima si congiungono e scelgono di esistere, sottraendosi alla frequentazione del mondo, ai suoi riti e ingorghi, alle abitudini statuite e indicate come logos socialmente accettato da seguire, onde evitare di fare i conti con la solitudine dell’io, la sua verità, le sue magnificenze e cadute abissali.
È qui, invece, in questo spazio in cui converge il sentire «efferato», «in bilico sul nulla», di «calura insensata», che avviene, nel tremore del riconoscere, ogni cosa in una verticalità assurda e propedeutica alla comprensione che fuori di se stessi esiste una collettività «incosciente», come Gustave Le Bon concepisce il concetto di folla, l’incontro con la parte più necessaria, pulsante. Via dalla pazza folla, 9 sembra essere il motto che si dà Krauspenhaar per assolvere al bisogno di onorare la dignità dell’essere uomo, di proporre la costanza della devozione a se stesso, alla fatica numinosa di essere in tutto e per tutto capace «d’inventare nuove maniere/ di tirare giù le giornate, lunghe, interminabili»,10 mentre il rischio è di restare condensati entro la facoltà obnubilante della normalità «un Martini Dry, e un / Americano, e poi, leggermente spumosi e brilli,/ ci dirigeremo verso l’orto e i fiori, mentre l’alba / scenderà, come un tramonto».10
È tutto un disorientamento, una fuga e un improvviso rapido ritorno per spaesarsi ancora una volta e costringersi all’incontro, che è sempre nei dintorni della soglia: il passo per oltrepassare il confine resta sospeso, bloccato nell’incerto pensare, decidere, quasi l’approssimarsi di qualcosa d’insostenibile negasse l’inveramento del desiderio e una qualsivoglia luce invasiva od obliqua decretasse l’immobilità, e un tempo d’enigma e silenzio, come in una tela di Edward Hopper.
Voglie
Ho voglia di abbracciarti,
di perderti e ritrovarti,
di non darti nulla, poi
nessuno merita niente
e nemmeno le ore e i minuti
di una resa. Dunque ho voglia
di abbracciarti, di ritrovarti,
di perderti, come uno scontrino,
un lusso regalato,
un buco nero
nel taschino della giacca.
Dove contare, forse nel nulla
obliquo del filo di una riparazione,
o nel tutto di un motore potenziato.
Non sappiamo se perderci o ritrovarci,
non sappiamo se abbracciare cosa,
se essere, se sparire, se fingere.
La diffusa sensazione di essere nell’impossibilità ontologica ad agire per un bene in cui convergere prossimità, affezioni e responsabilità insinua che si partecipi a una realtà che si sviluppa tra illusione, speranza destinata alla caduta ed esilio: ne Il resto il termine e il concetto di “esilio” ricorrono ben cinque volte a illustrare l’impossibile appartenenza a un qualche ideale, ancor più a una condivisa autentica vita poiché ciò che si agita nel mondo è tutto fingimento. Forse, l’unica vicinanza e innocenza resta il pianto, meglio lo sforzo a commuoversi, a materializzare la parte delicata senza timore di colpa, nei versi finali:
sforziamoci di piangere, proprio ora, che tutto
sembra perduto. Diamo le lacrime che abbiamo
trattenuto. Il resto non lo sappiamo.
Caccamo e Krauspenhaar, dai loro differenti esili ci consegnano il dramma personale ̶ prova atroce dell’impotenza di entrambi di fronte a ciò che li sovrasta, li getta nell’annichilimento della trappola della paura, nella rivolta che barbaglia dal punto più acceso del principio di vita ̶ che come tale contiene il movimento aurorale della catarsi, poiché: «l’unica difesa, l’unico modo di trascendere gli angusti limiti della condizione umana è quello di prendere coscienza dell’ “essere” e questo può avvenire attraverso l’amore».11
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- M. de Montaigne, Essais, Libro III, Cap. XIII.
- Ibidem.
- V. Pratolini, La costanza della ragione, Mondadori, 1963 e omonimo film di P. Festa Campanile, 1965.
- M. Caccamo, Le prove di esilio, Indistinguibili. Appunti slegati, dal carcere, Foglio 1˗2˗ 5˗10.
- F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, 146.
- F. Nietzsche, La mia vita, Scritti autobiografici 1856-1869.
- M. Caccamo, Prove di esilio, La parabola del mio esilio, pag.23.
- E. Pound, Prigioniero, A lume spento, 1908.
- T. Hardy, Via dalla pazza folla, e omonimo film di John Schlesinger, 1967.
- F. Krauspenhaar, Le prove di esilio, Agli uomini liberi, pag. 31.
- Rosario Trovato, Introduzione in Octavio Paz, Pietra del sole Armando Siciliano Editore, 2006.
L’ha ribloggato su poesiaspontanea.
bellissimo pezzo e le poesie che vi tremano.