di Bruno Nacci
Il lungo racconto che Chicca Gagliardo pubblica nella bella collana delle edizioni Hacca, Il poeta dell’aria. Romanzo in 33 lezioni di volo (2014), esito a chiamarlo romanzo, può ricordare favole come Peter Pan nei giardini di Kesington di Barrie, oppure escursioni nel fantastico come Il codice di Perelà di Palazzeschi o anche un apologo come L’oiseau bleu di Materlinck, e in varia misura sfiora questi tre cimenti letterari, gareggiando con loro in virtuosismo, anche se appartiene a un diverso genere di narrativa. Emana da questo libro un sentore di fiaba (ma va subito ricordato, per evitare la chiusura nel ghetto delle letteratura “per l’infanzia”, quello che diceva Tolkien al proposito: “L’associazione tra bambini e favole è un accidente della nostra storia domestica”), che è un continuo afferrare la poesia per i capelli e trascinarla nel più concreto giardino della prosa. Le favole (non quelle innocue degli scrittori che hanno letto eccessivamente Propp e Rodari), sanno essere inquietanti.
Si potrebbe coniare per Il poeta dell’aria un neologismo, quello di metafisica lirica. Metafisica perché ogni pagina presta attenzione a un diverso ambito della realtà (la libertà, la poesia, la paura, il sogno, il desiderio, il paesaggio e tanti altri) di cui intende andare a fondo, fino a coglierne l’essenza, evitando un realismo di maniera, inevitabilmente calco della società borghese. Ma questo scendere nella miniera dell’essere richiede un metodo, che a Chicca Gagliardo è parso naturale individuare in una lingua di buona precisione e nettezza, una lingua fortemente evocativa ma poco metaforica, una lingua lirica.
L’avvio di questo poème en prose debordato dagli stretti confini della prosa d’arte (che non sarebbe affatto dispiaciuto a Baudelaire) può essere fatto coincidere con una considerazione tratta proprio da Peter Pan: “Essendo stati uccelli prima di essere umani”. Perché chi narra si rivolge a un interlocutore, sempre nell’ombra (il discepolo), a cui insegnerà nientemeno che a volare (il sottotitolo del libro è “romanzo in 33 lezioni di volo”), fermo restando che il volo di cui si parla non è quello meccanico della scienza aeronautica, e nemmeno quello ingenuo e rudimentale di Icaro o quello più accorto dei moderni deltaplano, bensì il volo umano privo di protesi, il volo come slancio e sospensione nell’aria quale tutti abbiamo sperimentato, in sogno.
Protagonisti del romanzo sono solo in parte i personaggi appena accennati che costellano la narrazione, i cui nomi buffi ricordano quelli dei pupazzi per bambini o i cartoons televisivi: Zuzù, Oboe, Malva, Ulu (chi racconta, così come il discepolo, rimarrà però sempre senza un nome). Domina l’intero racconto l’aria. Cosa c’è di più multiforme, proteico, metamorfico, dell’aria? L’aria non è un elemento come gli altri, in essa si specchiano gli abissi di un mondo inafferrabile: “la visione dell’aria è vertiginosa”; “Nella vertigine c’è un punto esatto in cui Visibile e Invisibile hanno lo stesso peso”, e da sempre le è associata una sorta di precaria consistenza, già prossima al nulla. Non a caso, qui è ciò su cui la più indefinibile tra le forme dello spirito trova il suo naturale sostegno, come al maestro di volo ha insegnato un vecchio maestro di poesia: “I poeti dell’aria compongono versi nel vento con la punta di un dito, versi che appaiono e sono già scomparsi” (e poco più avanti leggiamo: “Il vento è lo stato d’animo dell’aria”; “il mio corpo è un respiro. E’ fatto d’aria”. Sono parole che ribadiscono la visione animistica dell’aria, quasi un ritorno alla cosmologia del greco Anassimene). Il narratore e i suoi compagni, i “volatori”, lo “Stormo”, abitano al confine tra la città e l’aria: “Ecco sono seduto qui, sul cornicione di marmo bianco all’ultimo piano del palazzo più alto della piazza”. Volo e poesia sono dunque fin dall’inizio intimamente connessi: “Il volo è una scrittura del corpo nel cielo”, e si capisce che anche il racconto di queste lezioni di volo è fatto della stessa stoffa dell’aria e della poesia, anche se il motivo per cui esse vengono impartite al discepolo viene accuratamente taciuto: “c’è una ragione nascosta che mi spinge a insegnarti a volare”. Come nel famoso poema di Shelley, Ode to The West Wind, anche qui si accenna al “mare trasparente d’aria”, ci si affida ai suoi flussi, alle sue correnti, alle sue risacche.
L’altezza del volo, del cornicione su cui i Volatori stanno appollaiati come uccelli, è specchio della città che, vista e quasi racchiusa in uno sguardo capovolto e finalmente depurato dalla quotidianità, assume i tratti (siamo molto vicini alle vedute oniriche di Roma di Giorgio Vigolo e ai luminosi, variopinti voli di Chagall) di una estraneità pacificata: “Quando il sole è tramontato, nella città inizia il Tempo Chiaroscuro, un tempo splendido per volare tra strade e cielo, giorno e notte: sopra azzurro chiaro; sotto è scuro, si accendono le luci dei lampioni. Nel cielo c’è ancora il giorno e nelle strade è già arrivata la notte”.
L’aria è l’elemento naturale del volo, ma il cielo non ne è la solida quinta, il coperchio di baudelairiana memoria, il magico soffitto contro cui disegnare i volteggi, le acrobazie del corpo diventato immateriale, luogo privilegiato da cui osservare, ricondotta alle sue più consolanti proporzioni, la terra, perché anche nel cielo si nascondono la vertigine e l’abisso. E come tutti quelli che cercano di perforare il muro della terra, anche il maestro di volo cerca una mediazione e istintivamente, verrebbe voglia di dire, la trova, oltre che nella poesia intesa come disposizione interiore, nella musica: “La musica -invisibile come l’aria, fisica come il respiro, fluida come il vento- è l’arte del volo”. Né possono sfuggire al lettore i richiami sottili (non importa quanto voluti o necessari) all’orfismo, e, soprattutto, alla concezione pitagorica del cosmo come armonia, intimo accordo di un astrolabio sonoro.
A togliere ogni impressione di un racconto giocato esclusivamente sul tono surreale e soffuso di un’angelica predilezione, i cui esiti dipendono esclusivamente dal virtuosismo dello scrittore, dalla sua capacità di farci prendere il volo con lui inducendo una specie di sortilegio, secondo l’acuta osservazione di Barrie “The reason birds can fly and we can’t is simply because they have perfect faith, for to have faith is to have wings” (The Little White Bird), c’è nel racconto, e ricorre con una sinistra frequenza, il tema della caduta. Il luminoso mondo dei Volatori, che si affidano all’aria per le loro scorribande ricche di ebbrezza, dove l’arte del volo viene insegnata come in un prontuario di nuoto (“braccia aperte e ferme, librandoti sali, planando scendi, devi saperti affidare alla corrente giusta. Il volo battente: muscoli attivi, addominali tesi, le braccia battono veloci. La virata: si inclina la testa, la spalla, un braccio si abbassa, l’altro si alza”), contiene in sé la possibilità che l’abisso su cui il volatore si libra, e di cui la vertigine è il richiamo simile a quello delle Sirene, improvvisamente si spalanchi per inghiottire l’incauto. La scomparsa del volatore è una variante della caduta o una sua allusione: “Ci sono volatori che afferrano il lembo di una corrente e non tornano più”, ma la caduta “è l’altra faccia del volo”, e il suo ineluttabile traguardo: “Chi decide di essere un Volatore sa che il destino che prima o poi l’attende è di cadere”. Sarebbe troppo facile e sicuramente fuorviante leggere in queste parole una metafora della vita, mentre appare più fruttuoso seguire i sottili motivi che accompagnano la presenza costante della possibilità (ma anche ineluttabilità) della caduta.
Come il filo sbagliato che si dice i grandi tessitori di tappeti persiani inserissero nella trama per certificare al tempo stesso l’errore, l’umiltà e la perfezione del loro lavoro, il tema della caduta, fin dalle prime righe, si presenta immanente al volo, come il sicuro risvolto di una vocazione cercata “A costo di precipitare”; “Fai attenzione, il marmo è liscio, basta un niente per cadere. E non c’è scampo”. Timori, ammonimenti, che inducono alla semplice riflessione di come il volo di cui si sta parlando non sia proprio quello che dice di essere. Perché mai chi avesse in sé la capacità di volare come un uccello dovrebbe temere di cadere, anzi, di precipitare? Il maestro mette in guardia il discepolo: “Non guardare l’asfalto, i passanti, la piazza; guarda il cielo, la direzione è quella. Lo so, il tuo corpo è troppo pesante per il volo […] senza di me andresti giù come un sasso nell’acqua”. E poco oltre, con ancora più determinazione, mentre lo assiste durante il volo: “Dai viriamo, inclina la testa e la spalla come hai fatto prima, no non così, così ti sbilanci, aspetta, no, ti stai avvitando, non aprire la bocca, non sbarrare gli occhi, non fissare l’asfalto, nell’asfalto c’è la spirale della vertigine che risucchia, la forza di gravità ti trasforma lo stomaco in pietra, il cuore ha paura, vuole lasciarsi andare, precipitare”. Dunque la caduta non dipende da fattori esterni, da errate manovre (questo solo in una visione superficiale del racconto), ma da una spinta interiore sempre in agguato, da un istinto che porta dritto dall’altra parte del volo, verso la sua terrificante negazione. Di nuovo torna alla mente Barrie: “E forse potremmo volare anche noi se avessimo fede assoluta nella nostra capacità di volare come l’ebbe l’ardito Peter Pan quella sera”. Forse, o solo in parte. Perché alla convinzione di poter volare puramente fisica, si contrappone qualcosa di oscuro, di cui la caduta non è la causa ma l’effetto: “Ha un unico volto l’infelicità che fa precipitare”. E poi non è detto che si possa precipitare solo verso la terra, si può cadere anche nel cielo: “Il cielo non è alto è profondo”; “Cadendo nel cielo continuai a sciogliermi”.
L’arditezza del volo nel libro di Chicca Gagliardo, scrittrice anomala, fuori dal coro, scrittrice autentica, è una prova di audacia letteraria, una sfida, o, si potrebbe dire, l’incarnazione di un rito di passaggio puramente spirituale: “Mi è venuto da pensare che noi visionari dell’aria viviamo nel terrore che la forza di gravità possa riagguantarci gli occhi e chiuderli, che stiamo sull’orlo tra visibile e invisibile tesi come un filo ad attendere il punto in cui il mistero si svela”.
C’è in questo romanzo, o apologo senza una morale, qualcosa della candida impertinenza infantile, quasi una nostalgia di quel volo dell’anima che, spiccato troppo tempo fa, ogni volta rischia di infrangersi o di perdersi in un vano anelito verso un punto (e “punto” è parola chiave del libro) in cui tutto, perdendo i contorni di un’individualità fragile e inconcludente, potrebbe riacquistare la completezza di un patto definitivo con la realtà, un ritorno drammatico all’origine.
Senza dimenticare quello che scriveva Ernesto De Martino: “L’infanzia è la terra dei rimorsi”.