di Luca Barbirati*
È da poco uscito in libreria il suo nuovo libro Racconti partigiani, pubblicato dalle Edizioni Biblioteca dell’Immagine di Pordenone. Il quindici aprile, Giacomo Verri, è stato ospite alla Biblioteca delle Oblate (Firenze) per l’evento “Storie ribelli. La narrativa contemporanea introno alla Resistenza”, durante il quale ha parlato della sua ultima opera. Prima che prendesse il treno che lo avrebbe riportato a Borgosesia, gli ho fatto qualche domanda. Meno di mezz’ora, il tempo di raggiungere a piedi la stazione dal centro città. Abbiamo bevuto un caffè tra i rumori della stazione di Santa Maria Novella, i pendolari, i turisti e lo sbattere di bagagli. Trascrivo fedelmente la registrazione.
LB. Cosa significa avere memoria di eventi accaduti una vita fa? E, nel tuo caso specifico, fare memoria?
GV. Esistono due tipi di memoria: quella del testimone che ha vissuto direttamente gli eventi; quella fittizia di chi ricorda attraverso le parole altrui, le immagini, i racconti. Io, inevitabilmente, appartengo, per quel che riguarda la memoria resistenziale, a chi gode del secondo tipo di memoria. Non c’è scarto di intensità tra le due tipologie; c’è piuttosto una differenza di genere, di qualità. Io, leggendo, vivo la memoria altrui, la reifico nella mia mente, nel mio cuore. C’è quindi la memoria, ma è di un altro tipo. Fare memoria oggi significa attivare delle immagini, arredare mondi, far vibrare cuori, pance, muscoli, dietro e davanti a delle storie che provano a immergersi tra le radici di quel passato. Ovviamente, chi scrive oggi di Resistenza è per forza di cose un nano sulle spalle dei giganti. Nessuno potrebbe scrivere senza aver saputo prima da altri, senza aver letto, senza aver amato le storie altrui.
LB. Toccare con mano il gusto, il sapore della sofferenza, ti ho sentito dire durante la presentazione del tuo libro alle Oblate. Come si può risolvere la contraddizione che ruota attorno ai poli Vita e Letteratura. A quale dei due demandi quel toccare con mano? C’è ancora un posto per lo scrittore engagé?
GV. Perché in fondo non c’è contraddizione: nella Letteratura cerchiamo la Vita, nella Vita la Letteratura ci dà una mano, ci mette in tasca una bussola.
Non è impossibile parlare di esperienze che non si sono vissute sulla propria pelle. Che diamine: il 99% della letteratura di ogni secolo non esisterebbe, altrimenti! Che Dante ha forse viaggiato per i gironi infernali davvero! E Manzoni ha passeggiato a braccetto di Padre Cristoforo? Quando mi si domanda perché un giovane come me – così le persone insistono a vedermi – abbia voluto cimentarsi con il tema resistenziale (e nella domanda è più o meno implicito il giudizio: tu che non ne sai nulla!), io a mia volta mi chiedo perché questa domanda venga posta: è vietato interrogarsi sul passato? Su un passato che è ancora troppo vicino? O non abbastanza lontano? Se avessi scritto dei libri ambientati nell’antica Roma qualcuno avrebbe sollevato ugualmente la questione? O forse dietro a tutto ciò sta un’altra preoccupazione: scrivere dell’antica Roma sarebbe solo un gioco; scrivere di Resistenza implica un impegno; ma l’impegno, secondo la vulgata, non fa più parte del ruolo intellettuale (forse non esiste più alcun intellettuale, se non qualche barbuto creaturo di molti lustri). Quindi penso a volte di essere circondato di persone che mi urlano: “Giacomo Verri, perché hai scritto delle cose sulla Resistenza? Ti sei ammattito?” Come se lo scrivere di Resistenza si riducesse a una forma di impegno, che a giudizio unanime è ormai sterile! Per cui non so se definirmi uno scrittore engagé; non lo sono di certo se si intende che sono un pazzo che si dedica a fare cose ‘strane’ anziché divertirsi! Lo sono, invece, se penso che ai miei racconti (o al mio precedente romanzo) affido un compito, che è quello di provare a definire la percezione che della memoria resistenziale si ha oggi.
LB. Sei un partigiano di penna, ha scritto Francesco Permuniam nella prefazione di Racconti partigiani. Chi ha vissuto l’esperienza dei primi anni quaranta del secolo scorso è stato chiamato dalla Storia a scontrarsi con la realtà. Oggi sembra quasi l’opposto. Chi sceglie la letteratura, non si allontana dalla realtà che invece è intrisa di ben altre arti? Per chi si scrive? E per chi si resiste? Tu per chi scrivi? E per chi resisti? E soprattutto, contro cosa resisti?
GV. Scrivere significa sempre avere uno scontro con la realtà: per darle forma, per definirla, per prenderne le distanze, per dire chi siamo noi. Si scrive, spesso, per dire tutto ciò che della realtà non ci va giù, ci sembra insopportabile, straziante, incomprensibile. E di tanto in tanto ci si infila dentro ciò che amiamo, le nostre passioni, gli amori, i brividi di gioia. Quelli sono i momenti in cui un testo dovrebbe fremere.
Se non stai facendo un manuale, o un saggio erudito, o una lista della spesa, non si dovrebbe mai sapere con precisione per chi si scrive. Ci si deve domandare perché si scrive? Per costruire un pezzo della nostra realtà, per darci delle risposte, per affinare i nostri dubbi, per salvaguardare le stille più preziose del nostro sentire e del nostro pensare.
Io personalmente resisto – o cerco di farlo – di fronte ai modi più usuali di fare narrativa: i miei testi – quei pochi che finora ho generato – non sono facili da leggere. Né veloci. Se l’editoria, in genere, procede verso le vaste lande della prosa facile e veloce, da consumare come fascine per accendere il focolare, io – se posso – preferisco tentare di fare il ciocco grosso, di quelli che scaldano e bruciano lentamente. Amo definire il mio romanzo d’esordio, Partigiano Inverno, uno slow book. Perché no?
La registrazione si interrompe con l’annuncio dell’arrivo del treno. Accompagno Verri al binario quattordici. Con un velo di imbarazzo, gli chiedo un estratto di Racconti partigiani da pubblicare su questa rivista. Mi chiede quale racconto mi è piaciuto di più. Festa di Liberazione, gli rispondo. Si ferma un secondo, cambia impugnatura del bagaglio, e proseguendo mi dice Bene, metti quello. Ci salutiamo con una stretta di mano. Sono passati settatant’anni da quel millenovecentoquarantacinque. Buona lettura samghiani!
***
…scalzi e laceri eppure felici.
Italo Calvino, Oltre il ponte
Ti dico che la prima festa di Liberazione, quella del millenovecentoquarantacinque, è stata come la prima domenica concessa da Dio agli uomini, quando gli uomini neanche se l’aspettavano. Festa altissima e piena di gioia, si intende. Ma con una malinconia albeggiante per un che di straordinario finito lì, per sempre. Io l’ho saputo quando andammo a Grignasco e sparammo sui fascisti che fuggivano via: li vedevo per la prima volta con le facce rosa da conigli spelati, piantavano lì tutto, armi e orgoglio, e si facevano ammazzare come buoi coglioni senza quasi reagire. Guarda che ne abbiamo tolti dal mondo diciotto, quella volta lì. Non c’eravamo mai sentiti così certi di vincere. Tanto che ricordo d’aver pensato di sparare con sufficienza come in fiera contro alle tolle.
Poi in piazza, a Borgosesia, c’era un’aria completa e odorosa che non la vedi neppure per la Madonna a maggio: le donne grembiulate mollavano a metà quante faccende avevano, le case si vuotavano, mentre gli uomini ancora col novantuno, ma come per celia, passavano le maniche di portici ridendo.
Io il fucile l’ho posato all’ora di pranzo e poi tutto è finito. Non potei più tirarlo in spalla sentendo il senso di quell’azione: ormai era diventato un esercizio ginnico, o estetico, o un dolce vanto. Contro chi l’avrei usato? E come? M’avvidi anzi che, a schiacciare ancora il grilletto, automaticamente sarei diventato un criminale. A cosa sarebbero serviti i grandiosi ultimi bottini di guerra, se la guerra finiva? Qualcuno disse che era bene nascondere gli Sten, le mitraglie, i Thompson sotterra, che sarebbero poi tornati utili per la rivoluzione. Ma la realtà era che adesso seguiva il tempo di ricostruire e di mettere ordine. Si rientrava nella legge dopo i mesi di stupende follie e coraggi e triboli e privazioni. Come avrei vissuto senza quelli? Che tristezza mi faceva – sotto a tutta un’avvinghiante esultanza, certo – il pensiero di poter dormire ogni notte nel mio letto senza il tema di un’imboscata, di avere il cibo caldo e all’ora consueta, michette intere e non pezzi di pane morsicchiati e poi chiusi nel cassetto, vestiti abboccati col gusto del sole, e acqua, e un asse dove accularsi per fare i bisogni quando volevo.
Smettere di fare il partigiano m’è costato come smettere di fumare. Insomma tutto l’orrore che avevamo vissuto sui monti, tra le foglie gelate come petali di ghiaccio, o sotto le stelle d’estate a scognare, certe volte da non farcela più – e si scappava dagli occhi del comandante per andarci a mettere l’acqua dietro le orecchie e sulla fronte –, adesso… sì adesso diventava dolce, lontano, concluso. Quello che volevamo! No? Quello per cui combattemmo! Eh sì. Forse era perché la paura di morire finiva, che allora rimpiangevo i tempi duri. Terminata la paura tutto si è fatto lasco e soffice e terribilmente nostalgico. Una sensazione simile l’avevo provata solo a scuola, camminando tra le aule sgombre e ben spaziate che si vedono nella chiarità dell’estate che comincia. Era successo dopo l’esame di maturità, quando le apprensioni erano svanite, e finalmente andavo libero di sapere in maniera confusa tante cose, di lasciare seccate tante radici che fino all’ultimo avevo cercato di tenere vive, mandando a memoria le formule chimiche e i nomi di ogni autore dell’infimo secolo di Roma. All’improvviso mi era sembrato tutto facile e leggero ma, a un tempo, un cerchio vuoto si faceva largo nella pancia come il sasso, cadendo, fa nell’acqua.
La festa, quel ventiquattro aprile, è stata come la fine di una vita, una cesura, un baratro d’allegro furore, ma che impauriva. Paura nasceva in quelli che avrebbero faticato a smettere gli abiti ribelli, in quelli che avrebbero tribulato a tornare in fabbrica o in ufficio o agli studi, perché fare i partigiani, te lo assicuro, significava essere sempre in pari con se stessi, e mai di meno, per l’eccesso di volontà che ci teneva vivi, e mai di più, perché non ce n’era modo.
Così in piazza, come ti ho detto, giravano i balli e i canti, i caffè mettevano fuori i tavoli col vino. Tantissimi uomini baciavano tantissime donne. Si urlava, si stringevano le mani e ci si avvolgeva negli abbracci amati e, a chi quel giorno era ancora lontano, si spedivano biglietti di gioia indivisa.
Per questo, quando durante la festa scoppiò la bomba e ci uccise ancora gli amici e i figli e i parenti, provai un colossale dolore, una tristezza inclemente per quegli uomini che se ne andavano in un modo così impreveduto, allorché non c’era più niente da temere.
Si seppe subito che gli ordigni li avevano lasciati i fascisti prima di fuggire. Ne avevano messi anche nelle scuole, i miseri. Eppure – che Dio guardi giù e faccia che nessuno fraintenda le mie parole – dopo quella bomba, grazie a essa, nel cuore dello strazio, tra le lacrime (delle grandissime lacrime sganciate come lame sulla polpa delle guance) io sentii ancora un fremito che mi restituì vivo, tutto intero, carico di odio sanissimo. Che poi non ebbi più, e che amai con ogni fibra fin nei precordi. Amai il mio odio che era così giusto e così importante da escludere ogni considerazione. E questo perché ci fu ancora quella bomba.
Poi, in qualche modo, la festa proseguì, per altre vie, in altre maniere che si inventavano in mezzo al lutto, là nei solai e giù nelle cantine fin dove c’era paese. Allora felicità e dolore facevano tutt’uno, ancora. E forse, alla fine, la felicità ebbe la meglio. Così alla sera, di notte anzi, le luci parevano doversi mai smorzare, e i canti nemmeno, e i bicchieri non erano mai vuoti. Eppure rimanevamo disorientati. Tutti, eh! Anche i capi, te lo dico io.
Bevvi tanto, mangiai anche di più, senza la paura di uscirne rintronato e con la pancia soda, pesante e inadatta all’azione come invece capitava prima. Raccontammo un’infinità di storie che sapevamo a memoria. Io le dicevo senza quasi pensarci, e intanto cercavo una volta di più la mano della mia Dora. Poi facemmo l’amore, infinito e liberatorio. E forse fu ancora peggio perché dopo mi sembrava che davvero non restasse niente. Presi l’uscio e mi appoggiai alla ringhiera del ballatoio. Lasciai socchiuso. Voltandomi, di tratto in tratto, vedevo gatteggiare gli occhi di lei nel buio: mi cercava. E io cercavo di capire cosa avremmo fatto col sole nuovo.
Già quella sera sentii un che di irrevocabile. Non mi sbagliavo.
Da quando sei nata ti ho sempre portata, ogni anno, ai cortei del venticinque aprile, ti ho raccontato le avventure, ti ho mostrato le foto. Abbiamo letto anche dei libri assieme.
Una volta mi hai detto delle bellissime parole: che tra me e te ci sono due generazioni, che io sono come un mito, che le storie che narro sono talmente memorabili da sembrare false. Che nessuno dei tuoi amici potrà mai essere come sono stato io all’età che hanno loro adesso. Che mi vuoi bene. Che sei fiera di me. Che la generazione successiva alla mia, quella di tuo padre, sbiadisce, mentre la mia è sempre colma. Che i padri sono piccoli e i nonni dei giganti. I nonni come me, dici. E anche le nonne.
Io non ti ho mai detto che assomigli nel viso e nelle maniere alla tua nonna Dora quand’era giovane. Ma l’avrai capito da sola, quando abbiamo sfogliato le foto e io ti spiegavo tutto.
E non ti ho neppure detto che ogni anno, ogni venticinque aprile, ogni nascita della bella stagione era ed è per me un boccone amaro, e che tuttavia cerco di ringoiare per sentire se cambia di sapore. Nel millenovecentoquarantacinque qualcosa è finito e non è più cominciato. S’è fatta la Repubblica e una Costituzione lucente e degna di tutti i morti che abbiamo perduti. Ma a ogni ricorrenza ho visto le persone peggiorare, le belle idee farsi fioche e prive di gusto, le feste della Liberazione diventare dei vezzi logori e sgradevoli. Con tante parole dette tanto per dirle. Si smetteva di fare bene per fare benino, ogni volta di più. La gente intorno a me, e io stesso, diventavamo avventati predatori sulla libertà. Fino a snobbarla a causa delle meritate inerzie che, dopo la guerra, divennero alla lunga fatali.
Non so. Non dico che sia colpa tua, o dei ragazzi tuoi coetanei, e neanche dei vostri padri, che in fondo sono i miei figli. È che la vita è andata avanti. Bene, molto meglio di come l’avevamo noi vissuta. Ma a me non piace più. Sono stato sereno, in questi ultimi lustri, solo quando ti raccontavo le nostre storie, mie e della nonna, e dei monti, delle vigilie di guardia, degli amici che sono rimasti giovani nei cimiteri, delle gioie corte per un pezzettino di carne scovato tra pelucchi di lana, per una pagnotta morbida in mezzo a tante rigide come il marmo.
Non fa niente. Non ti preoccupare. Sono vecchio, cosa vuoi che dica, cosa pretendi che capisca! Sono felice per te, vedo che i tuoi occhietti di ragazza in fiore sono distesi e tranquilli.
Noi anziani invece siamo scontenti. Di continuo e per tutto. Forse la guerra non c’entra niente, e neanche la Liberazione, e le passioni, e le felicità sbocciate tra le crepe della paura. Forse i pensieri che io credo dettati dalla ragione sono solo i capricci di un corpo e di una mente, come i miei, che vanno alla malora. Senz’altro sbaglio a credere che il gusto della libertà assaporato quando si combatteva per essa s’è poi stemperato, come fanno i fumi, nel cielo.
Lo dovrai dire tu, non a me che tanto non ci sarò, ma ai tuoi bimbi. Se vorranno ascoltarti.
Io purtroppo me ne vado con un sorriso amaro, di quelli che si incastrano nel viso quando la soddisfazione è a metà, e quello che manca sembra molto più di ciò che già è qui.
Non fa niente, bambina, non fa niente.
Come disse una volta il nostro comandante: quanto sarebbe stato inutile essere felici!
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*Luca Barbirati nasce a Vittorio Veneto, in provincia di Treviso, il 6 marzo 1990. Diplomato al Collegio Vescovile “Dante Alighieri”, frequenta a Udine, senza laurearsi, la facoltà di giurisprudenza. Vive a Firenze.
Grazie.
L’ha ribloggato su poesiaspontanea.