di Anna Stella Scerbo*
Dopo che la luna fu immediatamente calata
ti presi fra le braccia, morto
*
Un Cristo piccolino
a cui m’inchino
non crocefisso ma dolcemente abbandonato
disincantato […]
*
Mi sforzo, sull’orlo della strada
a pensarti senza vita
Non è possibile, chi l’ha inventata questa bugia
*
Come un lago nella memoria
i nostri incontri
come un’ombra appena
il tuo volto affilato
un’arpa la tua voce
e le mani
suonano tamburelli.
È una cantilena di morte, questa da cui abbiamo tratto qualche riga. Non sappiamo se si tratti anche di una cantilena d’amore. O forse, anche in questo caso eros e thanatos se ne stanno, pulsioni egualmente possenti, ben vicini.
Venezia 22-24 aprile 1950, Convegno su “La Resistenza e la cultura Italiana”, Palazzo del Comune.
«Guarda, c’è un posto libero, siediti, ed è bella […] Quando capii il suo nome, non so se mi rafforzò il pensiero […] di innamorarmi di lei o piuttosto di venerarla come la figlia di un grande martire […]. E io chi ero? Lo dissi. Mi sapeva. Lesse le mie poesie. Accennò dei giudizi non completamente lusinghieri».
Lei è Amelia Rosselli (Parigi, 1930 – Roma, 1996), figlia di Carlo Rosselli e nipote di Nello, figure di spicco nella lotta antifascista. Amelia, poetessa della “generazione degli anni Trenta”, apolide per costrizione, abita in Svizzera, negli Stati Uniti e in Inghilterra. Dal 1948, negli ambienti letterari romani frequenta i poeti che daranno vita all’avanguardia del Gruppo 63. Il conflitto mai risolto con la madre segna indelebilmente la sua vita. Ne assume il nome, Marion, quasi a voler sugellare un patto d’amore mai dichiarato e desiderato da sempre. Essenziale, nella formazione della sua poetica e nella sua esistenza, il rapporto col padre Carlo da lei stessa definito “evanescente”. Carlo Rosselli, nel 1929 a Parigi, con Lussu, Nitti ed un gruppo di fuoriusciti organizzati da Salvemini, è fra i fondatori del movimento antifascista Giustizia e Libertà. Giustizia e Libertà aderisce alla Concentrazione Antifascista, unione di tutte le forze antifasciste non comuniste (repubblicani, socialisti, CGL) il cui intento è quello di coordinare dall’estero ogni possibile azione di lotta al Fascismo in Italia. All’avvento del Nazismo in Germania (1933), GL sostiene la necessità di una rivoluzione preventiva per rovesciare i regimi fascista e nazista prima che questi portino a una tragica guerra. Nel giugno 1937, Carlo Rosselli soggiorna per delle cure termali a Bagnoles-de-l’Orne. Qui è raggiunto dal fratello Nello. Il 9 giugno i due sono uccisi da una squadra di “cagoulards”, miliziani della “Cagoule”, formazione eversiva di destra francese, su mandato, forse, dei servizi segreti fascisti e di Galeazzo Ciano. Ce n’è abbastanza perché la sensibilità sofferente di Amelia e le malattie che l’affliggono, dalla schizofrenia paranoide al morbo di Parkinson, la portino inesorabilmente a negarsi per sempre alla vita col suicidio, avvenuto nel 1996.
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Lui è Rocco Scotellaro, nato a Tricarico nel 1923 e figlio di un calzolaio. Tricarico, in provincia di Matera, fu un paese in qualche modo non assimilabile al resto del Meridione e sebbene fossero tutti evidenti gli elementi dell’arretratezza del Sud, pure si sarebbe potuto intravedere, nell’immediato dopoguerra, un futuro economico non disagiato per via dei tanti, esperti artigiani della zona. L’emigrazione degli anni Cinquanta, nel suo flusso inarrestabile, li rese straniati operai di fabbrica nel triangolo industriale. Brevissima e intensa la vita del poeta. Rocco divenne presto il personaggio simbolo del risveglio dei contadini nel Mezzogiorno. A ventitré anni, nel 1946, fu eletto sindaco. Militava nel partito socialista di Unità proletaria. Faceva di più. Prestava la sua opera e dava il suo sostegno ai diseredati del luogo. Tale modo di intendere l’impegno in politica dovette apparire eccentrico e lontano dalle regole del partito ai rappresentanti della vecchia classe dirigente. Non tardarono le reazioni che furono calunnie di truffa e persecuzioni varie. Alla fine tale accanimento portò alla sua incarcerazione, a Matera per quarantacinque giorni, con l’accusa di truffa. Fu Carlo Levi, convinto della giustezza del suo operato, a promuovere una vigorosa campagna a favore dell’innocenza di Scotellaro che, dietro sentenza della Corte d’Appello di Potenza, fu rimesso in libertà. Era il 1950 e il poeta sentì fortemente l’ingiustizia subita al punto da abbandonare la carica di sindaco e fatto ancora più rilevante, l’impegno diretto in politica, impegno che affidò alla poesia e alla letteratura. Appena tre anni dopo, morì a soli trent’anni per l’occlusione di una vena del cuore.
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Si può pensare a due realtà così totalmente opposte, così radicalmente distanti? Eppure tra Amelia Rosselli che ancora non aveva scritto nulla e il “poeta contadino” che già scriveva della sua terra e dei suoi affetti, si stabilì un legame fatto di richieste dell’animo. Rocco cercava qualcuno da condurre anche fisicamente a conoscere il suo mondo e le sue storie, da cui ricevere stimoli e incoraggiamenti; Amelia cercava un eden primitivo ed innocente dentro al quale sentirsi a casa, uno spazio rassicurante e protettivo. Entrambi, per motivi diversi, sofferenti di un male inestinguibile, potersi legare a radici certe, non doversene allontanare e cantare in versi quel male, farne motivo di poesia e di vita.
La letteratura attiva
«È nato, possiamo dirlo con certezza, un mito di quest’uomo straordinario che ha interpretato dall’interno un mondo incominciando una storia autentica dei sentimenti e delle lotte di quei contadini che dopo il 1945 vollero tentare esperimenti di autonomia e di crescita politica e culturale».
Questo si legge nell’Introduzione di Nicola Tranfaglia al poeta Rocco Scotellaro:
È un fatto certo che alla letteratura del Meridione in generale sia toccato un destino di marginale importanza rispetto a quella del resto della nazione; è altrettanto certo quanto dispiacevole che in tale destino, ineluttabile, sia finito anche Rocco Scotellaro la cui eredità di pensiero e di passione politica e letteraria non fu riconosciuta, anzi dichiaratamente osteggiata da uomini della sua stessa fede politica come Mario Alicata, Giorgio Amendola (questi si ricrederà inutilmente più tardi). Erano forse apparsi demagogici e populistici taluni suoi atteggiamenti. I tempi non erano pronti all’accoglienza di un poeta-scrittore che testimoniava, con la sua opera e dall’interno, la passione di un Sud abitato, nei suoi uomini più sensibili e meno rassegnati, dal desiderio di riscatto e di libertà.
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Nell’idea di Gramsci «gli intellettuali non escono dal popolo, non si sentono legati ad esso, anche se accidentalmente qualcuno di essi è di origine popolana [… ] non ne conoscono e non ne sentono i bisogni, le aspirazioni, i sentimenti diffusi». Scotellaro, in questa idea rappresentava l’eccezionalità. Entrava invece di diritto nella prospettiva gramsciana dell’ ”intellettuale organico”. Lo scrittore, si fa carico, dall’interno e solo dall’interno, dei problemi, della storia, dei bisogni della propria terra e senza vuotaggini retoriche, e con una letteratura di “cose” e non solo di “parole” denuncia mali secolari e si impegna in prima persona a rendere la letteratura utile, “come sono utili il grano e l’uva”. Scotellaro, resta nella realtà in cui è nato, di cui ha condiviso povertà e sottomissione, da protagonista ne legge le aspirazioni e le contraddizioni e queste rappresenta mettendo in moto “una moralità nuova”. È stata più volte tentato di avvicinare, nelle ragioni ideologiche, affettive e biografiche, Scotellaro al suo amico-maestro Carlo Levi. Cristo si è fermato ad Eboli, il romanzo di Levi, scritto a distanza, dopo che l’autore era tornato dal confino, non è paragonabile se non per la carica di denuncia e di sensibilizzazione ai problemi del Sud, agli scritti in prosa di Scotellaro, che per ammissione dello stesso Levi, si distanziava dagli altri teorici del mondo meridionale, come Giustino Fortunato e Guido Dorso, per “il suo atto di fiducia preventivo nel mondo contadino”. Il giovane Scotellaro, aveva conosciuto Levi nel Maggio del 1946 e si era legato a lui in un rapporto solidale e fraterno. Levi era per lui più di un amico.
«Però vi dicevo dello scrittore, che non è un amico. Non è un amico come non può esserlo il padre, la madre, il fratello. Amico è l’avvocato, il medico,[…], il prete. Quest’uomo è un fratellastro, mio, vostro, che abbiamo un giorno incontrato per avventura. Ciò che ci lega a lui è la fiducia reciproca per un fatto accaduto a lui e a noi[…] E’ stato anche lui in galera e va dicendo che ognuno, dal presidente al cancelliere, dal miliardario al pezzente, dovrebbe andarci almeno una volta».
Durante i giorni della prigionia, insieme agli altri contadini incarcerati, la lettura di Cristo si è fermato a Eboli rappresentava l’incontro ideale col maestro.
«Nelle sere seguenti, il libro lo consumammo come un pasto da zingari, da abigeatari, da amici in una festa. E già le camerate ce lo chiedevano come una sigaretta. […] Noi ci addormentavamo felici bambini, con l’ultima parola di quella lettura che era una preghiera comune».
Eppure, lo abbiamo detto, Levi e Scotellaro si distanziano l’uno dall’altro per la visione che hanno del Sud e per gli esiti conseguenti della loro scrittura. Levi ha del mondo meridionale una concezione atavica e ancestrale, ne coglie il presente nell’immobilismo pressoché assoluto degli anni del confino, 1935-36. Scrive dei contadini:
«Essi non hanno, né possono avere quella che si suole chiamare coscienza politica, perché sono in tutti i sensi pagani, non cittadini: gli dei dello Stato e della città non possono aver culto tra queste argille dove regna il lupo[…], né alcun muro separa il mondo degli uomini da quello degli animali e degli spiriti».
Scotellaro, in Per un libro sui contadini e la loro cultura, scritto programmatico per illustrare le finalità della sua scrittura, afferma:
«La cultura italiana sconosce la storia autonoma dei contadini, il loro più intimo comportamento culturale e religioso, colto nel suo formarsi e modificarsi presso il singolo protagonista».
E in una lettera a Vittorini pone come prioritaria la necessità di scrivere poiché coincide questa, con la necessità di rappresentare “le facce affamate dei contadini”, per non dover correre il rischio che quelle facce si trasformino in “immagini che scorrono senza la possibilità di fermarne una”. Dunque Levi, racconta dall’esterno, avvolgendolo in una velatura fiabesca e in una visione che si avvicina alla narrazione di un cosmo mitico e lontano “il muto mondo contadino”. Scotellaro, dall’interno e con una letteratura che si fa denuncia attiva, ne coglie il momento del doloroso risveglio.
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«La mamma aveva i capelli gonfi e lucenti. Suo padre era fabbro-veterinario, e sapeva suonare la chitarra. In casa i granai erano pieni per i tanti contadini abbonati per i ferri e le malattie dei muli. Ella aveva la faccia rosa che ho io ora, s’affacciava alla finestra e un giorno mio padre passò e la vide».
«Io ero ai primi banchi come tocca ai bravi e ai figli degl’impiegati e dei signori, i soli che potevano portare i capelli. Ero rasato come gli altri, portavo la borsa di pezza come gli altri, solo che io stavo ai primi posti».
I due brani sono tratti da L’uva puttanella, opera autobiografica incompiuta che uscì nel 1955 con la prefazione di Carlo Levi. L’uva puttanella ha gli acini “maturi ma piccoli, non pari agli altri con i quali sono costretti a lottare per la sopravvivenza nel più vasto mondo” (sono gli uomini del Sud). Il disegno dell’opera era ambizioso, doveva contenere sei parti, dalle dimissioni da sindaco al ritorno al paese. È stato detto, da critici sicuramente attenti, che l’opera risente dello scetticismo e dell’inquietudine dell’autore; il narrare e l’annotare sono usati a verifica della realtà da lui vissuta e in tal modo a soffrirne è l’analisi del mondo contadino, delle cause della sua sofferenza. Rilevanti, ad ogni buon conto, anche per le soluzioni stilistiche tra narrato e lirico, le pagine dedicate a Tricarico:
«Il paese è vuoto e se alzi gli occhi, l’aria ti prende, hai voglia di goderla, di riempirla di te; quella ti prende nelle braccia sue e si sentono le nenie che hai già sentito […], ritornano i giorni passati con fatti che successero e le tinte di allora, i luoghi, la vigna».
L’intermediazione letteraria è ridotta al minimo, la scrittura è funzionale all’essenza della realtà narrata, specchio e riflesso del mondo dell’autore.
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Libro-inchiesta è Contadini del Sud, pubblicato nel 1954, a un anno dalla morte. L’indagine, incompiuta, riporta interviste, fatti, lettere di protesta, poesie, documenti tutti che provengono dal cuore profondo della civiltà contadina. Di Grazia Andrea, Francesco Chironna, Laurenzana Antonio, sono alcuni dei contadini intervistati. La provenienza è di nuovo dal basso, alla fonte di una civiltà contadina millenaria ed arcaica che non esita a denunciare, che si dichiara affranta e avvilita, mai vinta-
«Fui trasportato in caserma e tutti uniti i carabinieri mi hanno massacrato di botte, riportandomi uno sfregio permanente al capo col mio medesimo bastone in possesso perché sono grande invalido e riempiendo il mio fazzoletto ancora di sangue».
«Presi una casa, una sola stanza con 200 lire di affitto, non avevo neanche sedia per sedermi, perché non mi feci niente prima e andai a comprare a credenza quattro sedie».
Di Laurenzana che è quello tra i contadini, più sensibile ai temi sociali e che fu consigliere comunale si legge:
«Pelo rosso come me (il sindaco Scotellaro) era stato con noi dal primo giorno e ci difendeva».
«Le elezioni di gennaio 1953 furono vinte dai democristiani perché il nostro sindaco pelo rosso si era allontanato e ci aveva lasciato per andare a guadagnare scrivendo poesie e racconti».
Giudizio senza dubbio severo e istintivo. Scotellaro seguiva anche dal suo volontario esilio a Napoli, da “intellettuale integrale”, le vicende della sua terra. La scrittura, anche questa volta, è costruita sulla parlata locale. Niente però ci fa pensare che si tratti di una scrittura ingenua, poco colta. È vero il contrario e di questo scriveremo nel prossimo numero quando ci occuperemo delle sue opere in versi.
La poesia
«L’uomo che seppe la guerra e le lotte degli uomini, imparò dal fascino della notte il chiarore del giorno». (Carlo Levi)
La ricezione della poesia di Rocco Scotellaro ha risentito per più anni del giudizio di Carlo Levi nella prefazione da lui curata per Mondadori nel 1954 della raccolta di poesie “ È fatto giorno”. Egli scrive: ”Non ha radici colte (la poesia di Scotellaro), se non quelle dell’ antichissima ed ineffabile cultura contadina”. Tale giudizio influenzò anche la critica tedesca che negli anni sessanta studiò con attenzione il fenomeno Scotellaro non discostandosi dall’ originario giudizio di Levi. La poesia del poeta-sindaco sarebbe troppo semplice e non conterrebbe alcun indizio di influenza della grande poesia tradizionale. A viziare la percezione del valore delle poesie di Scotellaro è stato senza dubbio l’aver voluto considerare come prevalente l’attività politica su quella artistica e aver voluto cogliere in lui soprattutto il rappresentante e il portavoce della Questione del Mezzogiorno in Italia. Il problema Scotellaro rimane dunque aperto su due fronti. Esiste uno Scotellaro “politico” che rappresenta il mondo contadino meridionale dal di dentro. Lo “scatto di fiducia preventivo” in quel mondo, pur ferito dall’incedere del novecento che lo aliena dalle sue radici culturali, gli permette di intravedere, al contrario di Levi, la possibilità che il meridione ha, di liberarsi da secolari e pesanti pastoie di asservimento e di partecipare, attraverso un percorso di autodeterminazione, al mondo nuovo venuto fuori dal secondo conflitto mondiale. Esiste uno Scotellaro “poeta” sul quale è ancora in atto il dibattito se debba essere considerato l’autore di una poesia semplice e ingenua o piuttosto il portavoce di una nuova forma di poesia. Egli, intellettuale finissimo, sarebbe il protagonista di un’operazione singolare. I suoi versi si nutrono di una storia e di una cultura antiche e popolari e questo non è dato contestare. Ma ciò che i suoi versi producono è qualcosa di molto simile ad una poesia del tutto originale. La sostanza antica dell’universo meridionale si mescola con l’inquieta coscienza novecentesca, la nostalgia dei tempi e dei luoghi amati si fa scarto e dissonanza con l’attuale, e la parola, libera da ogni possibile orpello, si fa pietra assolata e ruvida, ridotta al più scarno dei significati. La poetica di Scotellaro, ha il fascino arcaico della sofferenza e dell’ amore per la vita. Egli è Poeta puro, ancora oggi considerato il più genuino e forse il primo simbolo poetico nella civiltà contadina. Il canto di Scotellaro è il pianto ribelle di chi si è visto sottrarre ciò che gli spettava di diritto.
«Ho capito fin troppo gli anni e i giorni e le ore /gl’intrecci degli uomini, chi ride e chi urla / giura che Cristo poteva morire a vent’anni / le gru sono passate, le rondini ritorneranno. / Sole d’oro, luna piena, le nevi dell’inverno / le mattine degli uccelli a primavera /le maledizioni e le preghiere».
«Spuntano ai pali ancora / le teste dei briganti, e la caverna / l’oasi verde della triste speranza / lindo conserva un guanciale di pietra».
E ancora Levi afferma: “Il cammino percorso da Scotellaro, in pochi anni, da un muto mondo nascente ad una piena espressione universale, era quella di secoli e secoli di cultura: troppo rapido per il suo piccolo, fragile cuore contadino”.
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È stata tentata una scansione temporale dell’opera di Scotellaro, una prima, 1940-1946, della giovinezza; una seconda, 1947-1949, dell’epopea contadina; una terza, 1950-53, della poesia della disperazione. Un altro tentativo di definizione dell’opera del poeta è stato operato in Germania, nel 1997. A Münster, il professore Manfred Lentzen propose allo studente Carsten Mann, laureando in Lettere, di scrivere la sua tesi su Scotellaro. Mann, pensò di usare grandi aree tematiche per meglio analizzare e definirne l’opera, tra le altre, “La terra d’origine”, L’emigrazione”, ”Le poesie politiche”. Tanto la prima, quanto la seconda operazione non suscitarono grande interesse, né apportarono novità alla conoscenza del poeta. Il Centro di documentazione “Rocco Scotellaro e la Basilicata del secondo dopoguerra” di Tricarico, in collaborazione con le Edizioni Modern Poetry in Translation del Queen’s College di Oxford, ha voluto la pubblicazione in lingua inglese sulla rivista «MPT» di alcune poesie di Rocco Scotellaro. La rivista inglese è attenta soprattutto alle tematiche universali di cui il poeta di Tricarico è portatore, prima fra tutte la difesa della dignità dell’uomo. Tutto questo, aldilà dell’ importanza delle singole iniziative, testimonia l’interesse che una parte significativa dell’Europa continua a nutrire nei confronti del poeta. Sebbene non apporti novità, e lo abbiamo detto, la divisione temporale della poesia di Scotellaro, pure è innegabile che ad un certo punto, egli abbia cambiato registro poetico. La poesia Lucania del 1940 è tutta negli stilemi del Crepuscolarismo di inizio Novecento:
«M’accompagna lo zirlio dei grilli / E il suono del campano al collo / D’una inquieta capretta. / Il vento mi fascia / Di sottilissimi nastri d’argento / E là, nell’ombra delle nubi sperduto /Giace in frantumi un paesetto lucano».
Non è difficile riconoscere “il mondo delle povere, piccole cose”, né si fatica a non trovare alcuna eco delle problematiche successive e già dolorosamente presenti nella sua terra. Dunque, la poesia giovanile di Scotellaro (quale ossimoro per un poeta morto a trent’anni) entra di diritto nell’atteggiamento della poesia ermetica degli anni Trenta e nella tacita opposizione alla magniloquenza del regime fascista. Ma Scotellaro, aveva deciso di abbracciare la “religione dei poveri” e di travasare la politica nella poesia. Tale impegno, dopo la caduta del Fascismo, presupponeva che anche la letteratura fosse letteratura di “battaglia”, strumento liberatorio e non più consolatorio, territorio aperto di rivendicazioni e di diritti.
«È fatto giorno, siamo entrati in giuoco anche noi / con i panni e le scarpe e le facce che avevamo. / Le lepri si sono ritirate e i galli cantano, /ritorna la faccia di mia madre al focolare».
«I reduci borbottano nelle Camere del Lavoro. / Nessuno più prega / ma braccia infinite assiepano i campi di grano».
«Beviamoci insieme una tazza colma di vino /che all’ilare vento della sera / s’acquieti il nostro canto disperato / Noi nei sentieri non si torna indietro/altre ali fuggiranno / dalle paglie della cova/l’alba è nuova, è nuova».
Tre stralci da tre liriche diverse composte tra il 1945 e il 1948, anni di terribili attese e di grandi speranze per il Sud che aspettava la Riforma Fondiaria e viveva in miseria il dopoguerra. Il poeta, sindaco di Tricarico dal 1946, dovette sentire come imprescindibile fare scendere nella strada la sua poesia, affidarle sangue e passione di lotta. La sconfitta del 1948 del Fronte Popolare, spense in lui ogni residuo di ottimismo e di speranza:
«Oggi, ancora e duemila anni/ porteremo gli stessi panni / Noi siamo rimasti la turba/ la turba dei pezzenti/quelli che strappano ai padroni / le maschere coi denti».
Scotellaro, doveva avvertire dentro di sé la difficoltà derivante dall’essere un” intellettuale organico” e di ambire, nello stesso tempo, al ruolo di poeta lirico. Sapeva che di rado la poesia politica si fa poesia lirica, che di rado raggiunge la categoria dell’universalità, legata com’è ad un momento preciso, deperibile nei contenuti e nelle attese. Eppure dal 1950 e per tre anni, fino alla morte, compone i versi più convincenti, più autenticamente lirici, nei quali a fare da alimento sono il senso profondo di una realtà antica, una riflessione ripiegata e drammatica sulla propria e sull’ altrui condizione umana, fatta di dissonanze, di privazione e di perdita.
«Ho perduto la schiavitù contadina, / non mi farò più un bicchiere contento, /ho perduto la mia libertà. /Città del lungo esilio /di silenzio in un punto bianco dei boati, […], / devo disfare i miei bagagli chiusi, /regolare il mio pianto, il mio sorriso./Addio, come addio?/ terra gialla e rapata /che sei la donna che ha partorito, /e i fratelli miei e le case dove stanno/ e i sentieri dove vanno come rondini/ e le donne e mamma mia, /addio, come posso dirvi addio?»
Questo è Rocco Scotellaro quale appare a noi, un poeta importante e non solo per il Sud e non solo per la testimonianza che ne ha dato. Di lui amiamo il sentimento della vita, il rifugio nella memoria lirica, la caduta “delle maiuscole”, come amava dire di fronte all’infrangersi dei sogni, la sorprendente, netta consapevolezza, dei limiti della storia.
** Tutte le immagini riguardanti Rocco Scotellaro e le sue opere provengono dal sito del Centro di Documentazione “Rocco Scotellaro e la Basilicata del secondo dopoguerra” Tricarico: http://www.centrodocumentazionescotellaro.org/index.asp
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* Anna Stella Scerbo, docente in pensione di Italiano e Latino nei licei classici e scientifici, si occupa di poesia e scrive saggi critici per “Calabria Letteraria”, “Il Lametino”, “Margutte”. Studia gli aspetti fondamentali della poesia russa, in particolar modo della poetessa Marina Cvetaeva, e l’opera dello scienziato e filosofo Francesco Scerbo. Presenta libri di narrativa e di poesia. Tra le sue passioni: fotografia, natura, cinema.
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