Poesia/Recensioni

Tra mito e natura: le Favole (leopardiane) di Tommaso Di Dio

di Pietro Russo*

Favole (1)Battezzando l’esordio poetico di Tommaso Di Dio, Favole (Transeuropa, 2009), Mario Benedetti riconosce in «un affacciarsi sbigottito, perturbato sul mondo» la scintilla della scrittura poetica che anima le quattordici liriche della plaquette; ne viene fuori, da queste parole del critico-poeta, uno sguardo peculiare, un’attitudine psicologica, per dir così, che si riversa sulla «pagina dove il verso trema altrettanto spaesato». Proprio con uno spaesamento si apre infatti il primo testo di questa breve silloge: «Inizio ora a pensare quanti anni ho. / I vent’anni presi come un graffio / dentro la casa…». Spaesamento o trauma, esistenziale nonché legato alla drammaticità del dato generazionale,[1] che comporta la presa di coscienza da parte dell’io poetante di un tempo proustiniamente perduto e, per quello che si può constatare, esperito solo in misura superficiale («i vent’anni presi come un graffio»). Il passato, non troppo remoto, viene dunque a configurarsi nell’immaginario poetico della raccolta di Di Dio come la stagione della giovinezza, una mitica età individuale dell’oro che in definitiva non è che una «favola». La contrapposizione tra questo tempo e l’hic et nunc del presente, solo a continuare la lettura del testo proemiale, si fa piuttosto marcata:

Qui si partorisce
dalla faccia della gente, tronchi, sassi
come crani, alghe; mentre una montagna
ci sovrasta. A vent’anni lo sguardo è nei chilometri
in alto, dove tutto è sostanza viva
dei boschi.

La fuoriuscita da questo stato edenico (i vent’anni) determina lo scollamento tra la nuova condizione umana e una realtà circostante che nello specifico ha i lineamenti di una natura ‘petrosa’, ostile. Quello di Di Dio è infatti un soggetto che dietro lo schermo della prima persona plurale nasconde il suo essere inerme, in manifesta inferiorità rispetto alle forze della natura («una montagna / ci sovrasta»), incapace di una tensione verticale che riesca a colmare ogni distanza («lo sguardo è nei chilometri / in alto»; oppure: «di questa sera possiamo ricordare / un canto rotto per l’altezza e i piedi pesanti», III), nostalgico rispetto alla primitiva unità del paradiso perduto («dove tutto è sostanza viva / dei boschi»).

Stando a queste premesse, il titolo della plaquette, oltre a illuminarsi di un valore intrinseco all’opera stessa, testimonia uno straordinario e proficuo dialogo con la grande tradizione poetica italiana. Una prospettiva lessicografica diacronica rivela in effetti come favola sia un lemma intriso di una particolare semantica, codificata attraverso i secoli, che da Petrarca giunge al Novecento passando per Leopardi e D’Annunzio. Nell’autore del Canzoniere, tale vocabolo designa in un primo momento lo iato tra il poeta e la societas («Ma ben veggio or sì come al popol tutto / Favola fui gran tempo», RVF, I, 9-10), quindi indica successivamente, per via metaforica, l’esistenza stessa del poeta giunta in prossimità della meta finale («La mia favola breve è già compita», RVF, CCLIV, 13). Presenta un’accezione analoga «la favola bella / che ieri / t’illuse, che oggi m’illude» del D’Annunzio de La pioggia nel pineto, così come a una fabula, variamente declinata come finzione o regione di irrealtà, rimandano le 34 occorrenze del lemma registrate da Savoca nel Vocabolario della poesia italiana del Novecento.[2]

Ma è soprattutto dal Leopardi di Alla primavera, o delle favole antiche che la silloge di Di Dio sembra trarre un proficuo nutrimento, fino a che punto conscio non è lecito dire. Come è noto, la lirica del recanatese mette a frutto alcuni spunti precedentemente elaborati nelle prose: nel Discorso intorno alla poesia romantica, dove si dice che nell’età della fanciullezza «la podestà della natura universalmente è maggiore che nei provetti, così particolarmente di quel desiderio naturale»; e in un passo dello Zibaldone del 1819: «Che bel tempo era quello nel quale ogni cosa era viva secondo l’immaginazione umana e viva umanamente cioè abitata e formata di essere uguali a noi! quando ne’ boschi desertissimi si giudicava per certo che abitavano le belle Amadriali e i fauni e i silvani e Pane ec. […] E stringendoti un albero al seno te lo sentivi quasi palpitare tra le mani».

Nelle Favole di Di Dio, avvenuta la frattura tra uomo e natura, alla primavera (e si ricordi la doppia valenza leopardiana, particolare e universale, di ‘giovinezza’ e ‘mondo antico’) segue il naturale ciclo delle stagioni: «Venne, poi, la chiara successione. L’estate, / l’autunno, l’inverno». Ma a differenza del Leopardi, per cui al ritorno di ogni nuova «primavera» non può corrispondere più la «bella età» delle origini, il soggetto poetante di questa silloge vuole lo stesso «aspettare la crescita / dei fiori da quel fiato scarno e colori lividi / dei prati macchiati di neve», per ritrovare così, nella circolarità della natura, una possibile speranza di rinascita: «Ogni seme. / Ogni testa. Nella terra sono gonfi per la gioia / di una strana festa».

La stessa favola V, pur presentandosi come – parole dell’autore – un «viraggio di un sonetto di Shakespeare», si riferisce a un’epoca «quando bellezza viveva e moriva / come adesso fanno i fiori», in ciò denunciando una contiguità non indifferente con la poetica leopardiana: «In te, queste sante ore / antiche vivevano senza ornamento e veramente / non cresceva l’estate dal verde altrui rubando / vecchi stracci alla bellezza nuova del paesaggio».

A questo punto, però, appare chiaro come la strada poetica imboccata da Di Dio diverga da quella del predecessore ottocentesco. Se nel Leopardi la drammatica rivelazione dell’«arido vero» diventa il fulcro da cui procede la conseguente riflessione in prosa e in versi, nell’opera del giovane poeta del terzo millennio la «favola» acquista un valore maggiormente salvifico in virtù della sua essenza incompatibile con un fondo logico-razionale. Le Favole o illusioni che di Di Dio propone infatti conservano una forza primitiva, cieca, quasi feroce, si direbbe, proprio perché poggiano su un esibito vitalismo di stampo irrazionalistico: «Fare l’amore fino a fare figli. Addentrarsi / nella genuflessione. Dire prendo questo corpo / senza limiti; a furia di reni sfondare / il fondo cupo dei preservativi»; «Fare l’amore senza il minimo sospetto / che vento, carezze, maremoti delle braccia incredibili / fanno l’opera, tengono / aperti i visi degli amanti, aperti al crollo degli anni / tutti gli istanti»; «Senza tregua, lungo i tronchi / prenderci come corpi / ammassati ovunque prossimi / e orizzonti». Si tratta di favole necessarie, travisamenti di una realtà storica “matrigna” (per dirla ancora con il Leopardi) che si giustificano con il desiderio-urgenza di «sbranare la paura di essere solo due / corpi finiti»: «Questa cosa viva / nella pancia da qualche parte nel mondo / una femmina produce l’urlo aperto / a prendere ogni elemento fra cielo e terra».

La primavera, nel tempo mitico della favola, come si sa, ritorna sempre, uguale a sé stessa: «La stanza ora è piena di vento, la primavera / porta i suoi segni aprendo e dando / senso alle tue mani […]. / Questa porta è aperta, e poi / amarti nuda, prendere da te / la carne mossa al portento / dei fiori»; non ci sono scissioni e l’unità iniziale è ricomposta: «Credere che questa stanza sia una fra i chilometri / con gli alberi esplosi dentro / la presenza».

Ma favola, e Di Dio come altri poeti della sua generazione sembra saperlo, è anche quella dimensione interstiziale tra tutte le possibilità di mondo che affida la sua esistenza alla parola: «morte non avrà su questo spazio né parola»; «A volte mi sveglio solo; e nella bocca della gola / qualcosa vive». Un luogo, cioè, dove la forza della creazione è più forte di tutto: «Prendi questa cosa / dura che germina sulla mia bocca, prendila. Loro / scavano. Apri la bocca tua e la lingua / cancelli ogni nome. Rimanga questo di noi / segno muto».

Un luogo che, in ultima istanza, chiamiamo poesia.

[1] Crf. l’antologia curata da Matteo Fantuzzi, La generazione entrante. Poeti nati negli anni Ottanta, Borgomanero, Ladolfi, 2012.

[2] GIUSEPPE SAVOCA, Vocabolario della poesia italiana del Novecento, Bologna, Zanichelli, 1995. Lo spoglio è stato effettuato sui corpora poetici di 16 autori del primo Novecento italiano: Govoni, Corazzini, Gozzano, Moretti, Palazzeschi, Sbarbaro, Rebora, Ungaretti, Campana, Cardarelli, Saba, Montale, Pavese, Quasimodo, Pasolini, Turoldo.

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1552841_10202967266972523_2091294075_n*Pietro Russo, nato nel 1986 a Catania dove si è specializzato in Filologia moderna, insegna Italiano al liceo e negli istituti tecnici e professionali. I suoi interessi sono rivolti prevalentemente alla letteratura italiana contemporanea. Nel 2013 ha pubblicato il saggio La memoria e lo specchio. Parole del Petrarca nella poesia di Sereni (Bonanno Editore, Acireale-Roma). Scrive poesie e alcune sono state pubblicate in riviste cartacee e online.

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